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L’Italia può migliorare? Credo di sì...
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Ricevo questa mail:

«Gentile Direttore Blondet,

volevo porle una questione (forse) delicata. Tenterò di non dilungarmi troppo prima di esporle la domanda. Ho alcuni giorni fa il suo articolo “Per chi votare?”, ennesima sua esposizione lucida e che va al fondo delle cose.

Lei scrive, parlando di Giannino e del suo neonato partito, che – cito – “l’Italia ha fortemente bisogno di ricette liberalizzatrici, dato che è l’ultimo Paese rimasto dove impera il socialismo realizzato. È il Pese dove il settore pubblico è il massimo colossale datore di lavoro, il più gigantesco spenditore e la azienda più titanica sequestrando il 52% della ricchezza nazionale, l’unico dispensatore di commesse e posti, con 800 miliardi che ci prende dalle tasche per sé. Dunque una serqua di imprese nominalmente private lavorano non perché “mercato” (che non esiste) bensì per Stato, regioni, Comuni, ASL, municipalizzate pseudo-privatizzate, eccetera, e non vincendo aste e concorsi: facendo scambi di favori a pagando mazzette. È la spesa pubblica enorme e schiacciante, che è l’origine della corruzione dilagante”.

Come non esser totalmente d’accordo con quanto Lei scrive? Aggiungo che non appartengo, come forse si potrebbe pensare, alla “Scuola di Chicago”, non sono un liberista né voterò di certo per Giannino né ovviamente più per il PDL (la “sinistra” e Casini-Monti è chiaro che non sono nemmeno minimamente da prendere in considerazione). Detto questo, è palese che non possono esistere solo questi due estremi argomentativi ’ o liberismo gianniniano o mantenere pervicacemente lo status quo. Esiste una sana via di mezzo: cioè liberalizzare ma non ‘svendere’ (e fottere) chiaramente il Paese liberisticamente. La soluzione più prossima e primaria è comunque quella che lei giustamente ha suggerito più volte con la perfetta espressione “affamare la Bestia”. La Bestia, cioè lo Stato-Moloch dissanguatore e corrotto per sua natura anti-liberale. Perché, Lei lo sa meglio di me, un Paese così strutturato è un vero unicum fra tutti i Paese sviluppati, occidentali, “democratici”.

Personalmente, dopo varie mie riflessioni negli scorsi mesi, anche sul non andare a votare, mi sono convinto che andrò alle urne e voterò per il ‘Movimento 5 Stelle’. Mi sono fin troppo dilungato e passo alla domanda. Lei pensa che l’Italia sia “matura” per poter diventare un Paese come gli altri, un Paese cioè dove lo Stato non è il “massimo colossale datore di lavoro”, e che al contempo ci possa essere una certa prosperità, che non si diventi insomma la Grecia?

Non intendo dire se l’Italia è pronta “ora” a poterlo essere, ma andando oltre il senso temporale contingente, vorrei sapere da lei se gli Italiani saranno mai pronti? Se lo immagina insomma lei un Paese senza più Province (il M5S infatti non si candida mai nelle Province perché le vuole abolire), con aziende che vivono di se stesse, del “mercato” e non grazie alla intoccabile Mammella Statale? Dove le tasse siano almeno al 30%, dove l’immutabile mediocrità e arretratezza dello status quo non sia la norma? Dove la “politica” non sia infiltrata DOVUNQUE, in ogni ambito comunale, provinciale, regionale? Questo, lei lo sa, significherebbe tagliare centinaia di migliaia di posti lavori, se non, forse, in prospettiva, milioni.

Ribadisco, voglio essere ben inteso, che sono contro le “macellerie sociali” liberistiche. Lo Stato non va di certo annullato, non sono un ‘tatcheriano’ (secondo cui “lo Stato è il problema”). Il mio discorso va più in là, va oltre. Credo che lei mi abbia capito.

Sarebbe mai possibile uno scenario del genere? Non solo, sarebbe possibile che gli Italiani siano costitutivamente pronti ad essere diversi da come sono sempre stati da tanto, tanto tempo, almeno a livello abitudinale?

La ringrazio se vorrà gentilmente rispondermi.

Un saluto.

Giuseppe».

Caro amico, se la sua domanda è: «L’Italia può cambiare?», tendo a rispondere di sì. E ciò per l’esperienza contraria: nei miei 60 anni di vita cosciente ho visto l’Italia e gli italiani peggiorare, per dirla in una parola: «svaccarsi». Se hanno potuto scendere, possono salire. Perché i motivi per cui un popolo svacca sono gli stessi per cui svacca una persona: cessa di esigere da sé compiti alti e difficili, rinuncia quindi allo sforzo permanente di migliorarsi senza il quale l’uomo s’incanaglisce; si abbandona con godimento ad un livello più basso di esistenza, senza stile, rigore, senza finezza.

In una parola, è un problema di educazione.

Che cosa ha diseducato a tal punto il popolo italiano? Io credo, il malaugurato incontro del «cafone» con la «democrazia».

Cerco di spiegarmi. Solo da poche generazioni il volgo italico è uscito dalle campagne. E si riconoscono ancor oggi, nell’italiano ripulito e arricchito, nel politico di successo come nel cantante pop, la figura eterna del bracciante agricolo, dello zappatore padano, o del «cafone» meridionale. Bisogna capire che per secoli, la vita dello zappatore era essenzialmente penosa sia dal punto di vista economico che fisico; era una vita di limitazione, di obblighi, di dipendenza: non solo dal padrone, dal prete e dai carabinieri, ma più fondamentalmente dalla fatica, dal solleone e dal gelo, dalla grandine, dalla penuria, insomma dalla natura.

Ora, a questo tipo umano si è trovato, dopo secoli, dentro il sistema politico che chiamiamo «democrazia». È un modo di governo, nel bene e nel male, creato dagli anglo-americani. Per noi è un sistema nuovo, non-autoctono. Il nostro popolo non ha mai decapitato nel 1600 un re (come fecero gli anglo molto prima dei francesi) perché non voleva concedere la monarchia costituzionale. Il nostro popolo non è mai insorto al grido «No taxation without representation», ossia per prendersi, con le armi in pugno, il potere di decidere la destinazione delle loro tasse contro gli sprechi del re. Ci faccia caso: ancor oggi, da noi, non è passato il concetto che non pagare le imposte è un diritto politico, se queste finiscono a salvare la cosca annidata nella Fondazione Montepaschi, nei SUV di Fiorito, nei festini romaneschi con teste di maiale, nelle ministre-puttane del Cav, negli emolumenti miliardari e negli sprechi dei parassiti pubblici; il popolo italiota è massicciamente impegnato nella «guerra all’evasore» istigata dal potere corrotto; e dall’altra parte, chi sfugge alle imposte lo fa di nascosto, come un delinquente, quindi senza la coscienza di esercitare una legittima difesa, e senza la minima intenzione di farne una «politica» aperta.

Questo solo esempio, per dire che la democrazia non ci appartiene. Viene da un’altra storia, la loro. Ciò significa che noi, avendone adottato alcune forme, non ne comprendiamo né stimiamo i meccanismi sottili, i principii religiosi non detti che la reggono, e anche le ipocrisie inconfessate e gli impliciti compromessi pragmatici che lo fanno funzionare, più o meno (e sempre meno anche lì), nel mondo anglo. Come dunque ha inteso il cafone italiano, l’avvento senza suo merito della «democrazia»? Come la fine delle limitazioni, obblighi e pressioni, che sono stati l’essenza della vita dei suoi antenati cafoni in saecula saeculorum. Ora, di colpo, gli dicono (proprio a lui che viene dalla zolla) che è un «cittadino»; che non ci sono più differenze sociali e superiorità legali; che c’è uguaglianza. Che nessuno può più dargli ordini, che i divieti sono stati aboliti. Che le sue opinioni valgono quanto quelle di chi ha studiato e pensato, realizzato e creato. Che c’è «libertà».

Il cafone italiano, il cafone collettivo – che siamo in qualche misura tutti noi – abbiamo inteso questa «liberty» come l’annuncio di «liberi tutti». Io nei decenni, crescendo da ragazzo fino alla vecchiaia, ho visto sempre più che ci viviamo come un popolo «in vacanza» dalla storia. Un popolo a cui nessuno poteva più chiedere non dico sacrifici per lo Stato, ma nemmeno troppo studio, né tenuta né dignità, né lealtà né rigorosi doveri. Ovviamente l’assenza (almeno dal Seicento, ma forse da sempre) di vere aristocrazie, capaci di imporre una disciplina a questo volgo risalito con l’esempio, ha accelerato questa patologia (1). Via via abbiamo consumato le ultime virtù tradizionali del nostro popolo, che sono essenzialmente cattoliche – frugalità, risparmio, umiltà, decenza, senso del peccato, esame di coscienza – e l’abbiamo chiamata, esultanti, «emancipazione» dai pregiudizi. Faccia caso all’odio bavoso, furente e (temo) omicida, con cui la cosiddetta «opinione pubblica» ormai accoglie le minime osservazioni della Chiesa, pur ormai ridotta all’ombra della propria autorità; è che il popolo che fu cattolico non tollera più che gli si ricordi un qualche valore superiore a sé, qualcosa che restringa nei suoi desideri ed impulsi, oltre che il rifiuto di qualunque gerarchia. Ormai l’italiano, da almeno tre generazioni, è «liberato», nel senso: né Dio né padroni; facciamo festa. Fino a imbesuirsi di coca (le cui tracce sono rilevabili nel Ticino, tanto ne è grande il consumo in Lombardia), a non sapersi astenere dalle slot machines (per cui gli italioti dilapidano 150 miliardi l’anno invece che in investimenti), nelle tifoserie calcistiche e nelle discoteche: in breve ci siamo ridotti da soli ad un popolo di amebe e molluschi, a forza di non auto-imporsi una qualche educazione ed obbedire ai propri impulsi primari. Il fatto che sia così da almeno tre generazioni, vuol dire che i bambini italiani hanno non solo genitori, ma nonni che li «educano» col loro esempio allo svacco. Molluschi allevano molluschi, magari bulletti o ammazza-fidanzate, moralmente e psichicamente invertebrati.

Il benessere crescente, con poco nostro merito (e molto dell’esserci inseriti in un «mercato comune» europeo), ha acuito questa tendenza; il «cafone» non aveva più da faticare sulla zolla. Ora bastava un «pezzo di carta» per accedere a posti pubblici, e lui ha preteso lauree facili, da non sforzarsi, in nome della «eguaglianza»: le ha ottenute, ed ecco i risultati nell’alta burocrazia: ditemi voi se Befera ha la faccia dello profondo studioso di economia tributaria... L’essere inseriti in un sistema di alleanze occidentali, e poi nell’Europa monetaria, ci ha dato la (falsa) impressione che dalla vita era eliminato il tragico, per esempio la guerra e l’obbligo di difesa fino all’estremo sacrificio. La facessero gli americani, la guerra per noi; pensasse la Comunità Europea alle norme facilitanti la vita; non è più nostra responsabilità salvare il Paese dall’abisso della storia, che sempre minaccia chi non si governa da sé. I politici italiani sono sempre stati mediocri e tendenti al disonesto; ma un giorno bisognerà analizzare fino a che punto l’Europa, e in generale l’essere entrati in istituzioni sovrannazionali, li ha de-responsabilizzati. Non spettava più a loro «guidare», e dunque...

Le festicciole romanesche con i politici in testa di porco, l’allegria grassa e facilona del Cavaliere delle Olgettine, l’arraffa-arraffa generale di presunti austeri comunisti a Montepaschi, sono appunto il risultato ultimo, caricaturale, di questa perdita di responsabilità della sfera politica. Fa tutto l’Europa, decidono Washington, il Fmi, il WTO, Wall Street: dunque loro non hanno da esercitare l’intelligenza, non hanno altro che da sgavazzare per passare il tempo così ben pagato.

Con tali esempi, l’irresponsabilità è scesa per li rami: dai magistrati che s’infischiano delle forme e della sostanza del diritto, ai sindacati irresponsabili, ai parassiti pubblici a milioni, fino agli attorucoli da rotocalco, è tutto un abbassarsi, scadere, fare i propri comodi, sciorinarci i panni sporchi sotto il naso, senza il minimo senso di vergogna. Ci si è infatti «liberati» dalla vergogna. Ci si vanta dello svacco come vittoria sull’ipocrisia: ma l’ipocrisia era, almeno, l’estremo omaggio che il vizio rende alla virtù. La politica si fonde con lo spettacolo, e sempre più con l’avanspettacolo e il porno. Le categorie più pubbliche, più in vista, hanno finito per confinare – e sconfinare – con la malavita; il ritorno canagliesco dei dialetti nel Meridione (dove quando io ero giovane ci si sforzava di parlare italiano) ne è un sintomo assai sinistro. Più di tutto però mi addolora l’isterilimento dell’arte, della creatività e del bello. La Sicilia, quand’era povera, costruiva splendide masserie dove dovevano vivere generazioni, inserite nel paesaggio coltivato; oggi orrende palazzine abusive sulle spiagge. Questo era un Paese che insegnava al mondo in fatto di cinema, di architettura, di umanizzazione del paesaggio; era il paese di De Sica e Ladri di Biciclette, di Fellini, di Gassmann che recitava Edipo Re in tv; ho conosciuto un’Italia che ancora, nelle classi superiori, coltivava il suo legame con il suo passato creativo rinascimentale, con la romanità; capitava di sentir citare Dante da gente del popolo, ragionieri di banca ripetevano a memoria interi passi dei Promessi Sposi; l’artigianato squisito ne era tutto informato, e dallartigianato , dalla sua scuola di apprendimento concreto, nascevano imprese e imprenditori.

Ma basta con il tristo elenco. Voglio solo dire che, come abbiamo potuto cambiare in peggio, possiamo cambiare in meglio. È una questione di educazione. Come ci siamo dis-educati, è possibile ri-educarci. Risalire dal vergognoso abisso.

Occorre però che questo popolo se lo assuma, collettivamente o almeno maggioritariamente, come compito serio e vitale del futuro. Recuperare le virtù perdute; ma soprattutto, invece di compiacerci delle nostre virtù tradizionali, capire che sono le virtù che non abbiamo, quelle di cui abbiamo bisogno.

Ma questo, attenzione, non attraverso una «educazione alla legalità», una lezione continua di moralità: insopportabile, specie se viene da marpioni che rubano il denaro pubblico, fanno la cresta sui biglietti aerei per Bruxelles ( vedi tal Napolitano), tradiscono con i poteri forti transnazionali (vedi Monti, Draghi...), o emanano leggi illegittime. Non è il moralismo che ci salverà. Moralizzare la vita pubblica, con certi maestri è un’impresa impossibile.

Come ripeto spesso, quella che ci manca non è «l’etica pubblica», bensì «l’epica pubblica». Sì, ha capito bene: epica. Bisogna esser capaci di additare uno scopo collettivo grande, orgoglioso, per cui vale la pena di combattere uniti, come in una guerra. Perché effettivamente siamo in guerra, i «mercati» ci stanno divorando e gli stranieri ci occupano e ci depredano; ma una guerra dove ognuno cerca un rifugio e un riparo, o una difesa per sé, o per la sua casta. Ciò porta alla sconfitta, e alla inevitabile rovina col collasso dell’economia.

Prendiamo gli statali, provinciali, regionali, comunali... Lei dice: si possono immaginare migliaia, forse milioni di licenziamenti? Lo so, sono lì a difendere con le unghie i loro posti magari superflui, anche a costo di far colare a picco il paese. Difendono lo status quo marcio, e impediscono le riforme più urgenti: perché hanno paura, la coscienza sporca, e nella mancanza di una cultura civile condivisa, si aggrappano al loro meschino «particulare». Ma si può trasformare la loro reazione difensiva in un impulso di avanzata? Io credo di sì; ponendo loro il compito collettivo, la coscienza che siamo in guerra contro il mondo, che il tragico esiste, e devono dare il loro contributo contro l’estremo pericolo.

Non è che si deve necessariamente licenziarli. Ma sicuramente, dato lo stato di guerra, si può esigere da loro un taglio degli stipendi. In questi anni, i loro emolumenti sono saliti più di quelli dei lavoratori-produttori del settore privato; ora, i salari privati arretrano, la disoccupazione galoppa. È intollerabile che loro mantengano, oltre la sicurezza assoluta del posto, una busta-paga più grassa del resto della popolazione.

Si può fare? Si può. Per esempio, stabilendo per legge che la paga del dipendente pubblico va’ agganciata a quella del dipendente privato di pari, o analogo, livello. Magari un po’ minore (-10%), per compensare il vantaggio del posto fisso e riassorbire gli aumenti ingiustificati degli anni scorsi. E questa misura, non sia intesa come «punizione»: sia intesa come un aggancio della massa di dipendenti pubblici alle fortune del popolo lavoratore, e dunque del Paese nel mondo. Come l’epica partecipazione degli statali (provinciali, regionali, ecc.) allo sforzo di migliorare la posizione della nazione italiana nel mondo, di riconquistare le grandi posizioni che tenevamo nella storia, e da cui siamo arretrati durante la nostra lunga «vacanza».

Ovviamente, lo stesso aggancio va’ applicato agli alti gradi pubblici. Che i magistrati e i grand commis non guadagnino – almeno finché dura lo stato di guerra – più del quadruplo della paga media dell’operaio nel settore privato; che la paga dei parlamentari o consiglieri regionali, provinciali eccetera segua lo stesso criterio tassativo. Così, i loro aumenti eventuali sapranno che dipendono dagli aumenti salariali dei produttori, i quali a loro volta saranno collegati alle affermazioni, ai successi e alle vittorie del sistema-Italia nella competizione mondiale; e che se vogliono di più, i politici devono contribuire a rendere il Paese competitivo, non ostacolarne l’avanzata con pastoie e montagne di parassiti a carico, come fanno oggi.

Lei sa forse che io guardo ad una soluzione più radicale: quella del parlamento federale svizzero, che si riunisce solo due mesi l’anno. Là, quello del parlamentare non è un mestiere, ma un contributo benemerito che il cittadino eletto dà all’amministrazione comune; appena compensato da un rimborso-spese, in quei due mesi in cui lascia il suo vero lavoro per andare a legiferare (ed essenzialmente, a votare il bilancio, ossia a decidere la «taxation with representation»). Ma già l’aggancio delle paghe pubbliche alle private, mi lusingo, potrebbero costituire un potente motore educativo. Contribuirebbe, chissà, a trasformare i parassiti pubblici in «civil servants», cointeressandoli attivamente al destino comune degli altri, che oggi trattano come nemici da depredare e sospetti malfattori; insegnerebbe loro a non prelevare dalla pubblica ricchezza una quota superiore alla sua crescita, e nei momenti duri, a ridurre proporzionalmente il proprio prelievo (e il proprio peso) sull’economia nelle fasi di arretramento, recessione e depressione.

Si potrebbe pensare a compensi morali, come in guerra: onorificenze, decorazioni, medaglie, tributate da comitati di produttori agli «eroi del servizio civile»... ma non voglio spingermi troppo là nel sogno utopico riformista.

Volevo solo far notare che «istituzioni» semplici e ben congegnate, come l’aggancio alle paghe private, possono già far molto. Noi, per troppo lungo tempo, abbiamo inteso la «democrazia» come la libertà assoluta di farci le leggi che ci piacciono e ci convengono, come gruppo, come casta, come lobby: risultato, abbiamo una legislazione mostruosa, proliferante che ci ha corrotti. Aveva ragione Churchill, quando avvertiva: «Attenti, perché noi sì forgiamo le nostre istituzioni, ma le istituzioni poi forgiano noi». Istituzioni corrotte ci hanno corrotto. Lui parlava dalla cultura del «no taxation without representation», una cultura in cui ciò che diceva era comprensibile e accettato (con le solite ipocrisie non dette). Ma noi?

Ma noi abbiamo bisogno di un altro sistema, nostro, autoctono. Probabilmente, è qualcosa di simile ad un autoritarismo personale, con tutti gli svantaggi che ciò comporta. Ma ci serve una «guida» che sappia additare ed incitare ad un compito epico, che imponga con l’esempio uno «stile» e una tenuta, ed abbia anche la forza coercitiva e lo stomaco per far tacere le altre scelte (persino se legittime) per silenziare il chiacchiericcio che sempre, da noi, accompagna una qualunque proposta riformatrice: tutti si dissociano, tutti dicono che «ben altro» c’è da fare (il celebre «benaltrismo»), tutti hanno la loro teoria generale da imporre a tutti gli altri (incapaci di accettare compromessi sul «programma», tipico dei fanatici), tutti si spargono qua e là (2), ognuno col retropensiero di ritagliarsi un privilegino, un vantaggiuzzo; e qualcuno finisce per chiamare lo straniero onde sconfigga il nemico politico interno, che lui non ha la forza di eliminare.

Fare fronte comune. Almeno temporaneamente.





1) Per qualche tempo i quadri del Partito comunista seppero imporsi, ed imporre alla «classe operaia», una certa tenuta e disposizione al sacrificio, una qualche tenuta. Ciò, proprio perchè non si ispiravano alla democrazia ma al plumbeo, ipocrita esempio del regime sovietico. Si trattava, per loro, di sacrificarsi oggi in vista del radioso domani. Il leggendario Sessantotto ha spazzato via anche questi residui: le «sinistre» neo-marxiste rifiutarono il comunismo perchè rinviava a un futuro indefinito e millenaristico le gioie che si volevano fruire immediatamente. Sono profondamente significativi, in senso freudiano, gli slogan sessantottini: «Dopo Marx, Aprile», «Godere Operaio» (invece di Potere Operaio) , «Vietato Vietare», eccetera. Di quel passato «morale», conseguenza della natura teologica del materialismo storico, non è rimasto che il moralismo di Bersani e Compagni: le mani in pasta nella magnazza, arraffo di banche e tutto il resto, però di nascosto e facendo la faccia seria. Il ’68, come aveva ben visto Del Noce, ha finito fare della sinistra lo «spirito borghese allo stato puro», omogeneo alla società dei consumi neocapitalistica. Lenin definiva il programma comunista «Soviet più elettrificazione». Non c’è da stupire che oggi il progetto della sinistra si riduca alle «nozze gay, più il programma Monti», cioè dei mercati transnazionali finanziari, però «con un po’ di crescita» (Bersani dixit).
2) Detto fra parentesi, temo che questo sarà l’esito in cui si polverizzerà il Movimento 5 Stelle: la numerosa truppa di nullità fanatiche ecologiste arrivata in Parlamento si dividerà – poniamo – fra»No-TAV puri» e «No-Tav che accettano le auto a GPL», quelli che vogliono l’accordo coi manettari di Ingroia e quelli che no; quelli che accettano le centrali idro-elettriche e quelli che rifiutano anche quelle, nel nome della intoccabile Gea, la Terra Vivente... altri passeranno nelle fila di Ingroia, Vendola e PD, perchè là si possono tenersi lo stipendio intero di 15 mila euro invece che 2500, protestando però che «il movimento li ha traditi»... Frazionismo, malattia perenne dell’infantilismo politico. Ciò avverrà perchè i membri del Movimento sono stati scelti col metodo democratico più assoluto e totale, sul web, dalle altre nullità fanatiche come loro, che hanno avuto la massima cura nel non scegliere qualcuno migliore di sè. Grillo ha ragione ad incazzarsi quando lo bollano come anti-democratico; al contrario, lo è stato troppo, e i risultati non lo soddisfano. Per forza. Non capisce che, essendo il leader, aveva il diritto (e dovere) di dire alle nullità seguaci: ecco qui cinque o sei (o cento) persone che dovete votare, perché «io» le ho selezionate, ed «io» mi fido di loro come esecutori del programma.



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