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Habemus Papam
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Georgium Marium Bergoglio qui sibi nomen imposuit Franciscum

Nel giorno dell’elezione del nuovo Papa Francesco, il gesuita argentino d’origine italiana Cardinal Jorge Mario Bergoglio, la prima riflessione che affiora alla mente è quella di vedere in lui un segno provvidenziale di continuità con il precedente pontificato, sia pure mediante modalità diverse inerenti alla personalità del nuovo Pontefice. Francesco è succeduto a Benedetto XVI, quasi seguendo – in impressionante e significativa analogia storica – Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi. Chi ha voluto, con subliminale mala fede, presentare Bergoglio come concorrente di Joseph Ratzinger nel conclave del 2005, ha ignorato che allora il Cardinale argentino, al terzo scrutinio fece vertere i suoi voti sul tedesco, divenendo così il garante della sua altissima votazione (com’è stato ormai accertato). Per cui il fatto che il conclave del 2013 abbia eletto Pontefice colui che nel conclave precedente era per voti il primo dei non eletti, avvalora la proiezione di un pontificato sull’altro.

Chi conosce l’azione del Cardinal Bergoglio quale arcivescovo di Buenos Aires, sa che il porporato si è sempre dimostrato assai sensibile verso la povertà materiale. Il nuovo Papa, però, com’è stato giustamente rilevato (ad esempio da Giuseppe Brienza sul «Corriere del sud» del 14 marzo 2013), non è mai caduto verso quella Teologia della liberazione più volte condannata dallo stesso Ratzinger sia da Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede sia da Pontefice.

Inoltre Bergoglio è persona umile d’animo, ma di spirito forte e di mano ferma. Il che fa presumere che sia in grado di spogliare la Chiesa Romana degli ulteriori residui di potere temporale, per innalzarne vieppiù la grandezza spirituale.

Lo vedo come un Papa riformatore della Curia, alleggerendone le strutture, ma fermo nel conservare il patrimonio dogmatico e liturgico della Chiesa, secondo la consegna sapiente che fu già di Papa Leone XIIIº, Veteris Novis Augere.

Si sa che nella capitale argentina, come arcivescovo viaggiava in autobus, ma sempre con l’abito talare, mai in clergyman. Anche questo è un segno che la dice lunga. Benedetto XVI aveva sostituto la tiara nel suo stemma pontificale, con la mitria vescovile (segno simbolico di profondo significato); Papa Francesco ha immediatamente sottolineato, appena eletto, di sentirsi Pontefice della Chiesa universale in quanto Vescovo di Roma, ribadendo impicitamente la romanicità del cristianesimo.

Anche in questo percepisco un nuovo segno di continuità tra la extra-ordinarietà del Pontificato che è iniziato il 13 marzo (a cominciare dal nome assunto dal nuovo Pontefice), con i precedenti di Pio XII e Benedetto XVI, che sentirono e concepirono Roma, urbs iustitiae, centro del pontificato (nel significato specifico di pontus) del cristianesimo universale sorto in Gerusalemme, luogo sacro deputato al ruolo escatologico di celestialis Civitas Pacis.

Papa Francesco, viene da lontano, da quell’America iberica che il maggior filologo classico argentino del secolo XXº, Carlos Alberto Disandro, definiva «America Romanica»; e che oggi più che mai sembra costituire il ponte metapolitico tra passato e futuro, tradizione ed innovazione. Dal luogo, dunque che già Giovanni Paolo IIº considerò il «continente della speranza», auspicando da lì il rilancio dell’evangelizzazione di un mondo avvolto dalle sprire del relativismo morale e che s’inginocchia dinnanzi ad un nuovo vitello d’oro, emblema della globalizzazione dei mercati e del potere corruttore del danaro.

Nella geografia sacra i continenti contano non tanto per il loro spazio fisico quanto per le tradizioni viventi che vi si manifestano. In questo senso lo spazio dell’America Iberica dalla quale proviene Papa Francesco, rivitalizza il canto della speranza riassunto nelle apparizioni della «sempre Vergine Maria di Guadalupe» (Tepeyac, 1531), nel cui mistero è custodito il destino escatologico dell’America Romanica: potenza evangelica del Cristianesimo teandrico rivelato dal Cristo crocefisso sostenuto dalla Vergine Madre, diritta e solenne come colonna che, sorreggendo un mondo ottenebrato, prefigura il fulgore aurorale di una Pasqua cosmica ventura.

Qui sembra consistere l’entelechia (appunto da: en telei èchein: avere in sè la forma ideale, la forza interiore) del continente americano, cioè la forza ideale esteriore ed interiore della sua cattolicità romana, restauratrice di una evangelizzazione invocata da Benedetto XVIº e rilanciata con vigore da Papa Francesco.

S’è sostenuto, con una certa imprecisione, che con l’avvento al soglio di Pietro di un pontefice iberoamericano, il baricentro della Chiesa cattolica romana si sposta dall’Europa, impoverendone l’identità quando la crisi che l’avvolge ne imporrebbe il potenziamento. Questo puó essere vero, in parte, se consideriamo che Europa ed Africa mediterranea per secoli costituirono la quarta sponda del cattolicismo romano-germanico della seconda Roma. Ma ora – con l’elezione di un Papa argentino di trasparente origine italiana – sul continente americano s’affaccia, dalla quinta sponda oceanica, la Terza Roma del cristianesimo iberoamericano, la cui fede evangelizzatrice rimonta pur sempre all’evangelizzazione missionaria partita dall’Iberia e quindi dall’Europa. Alla quale ritorna dalla riva della Baia sognante di Rio de Janeiro, dove giganteggia la statua del Cristo Redentore, Rex Regum et Dominus Dominantium, quale messaggio di fede rinnovata che, dalla Chiesa universale di Roma, si diffonde sull’universo mondo.

Primo Siena
Santiago del Cile, 16 marzo 2013


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