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La morte di San Pietro conferma la resurrezione
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L’osservazione di un lettore è utile spunto per approfondire la storicità della morte di coloro che confessarono col, sangue la fede in Gesù, vivo e risorto.
Se infatti davvero morirono uccisi per la testimonianza di Cristo, è difficile ipotizzare l’attestazione di un falso.
Occupiamoci in particolare della sorte del Principe degli Apostoli.
Le testimonianze sono numerose in proposito e tutte concordanti.
Ci riferiremo essenzialmente a dimostrazioni extra-bibliche, per assumere una posizione del tutto «laica», partendo dal falso presupposto della faziosità della Sacra Scrittura (che invece sappiamo costituire anche sicura fonte storica).

I testi più autorevoli che ci informano del martirio di San Pietro a Roma sono sostanzialmente due: la prima epistola di San Clemente Romano ai Corinzi, (96 dopo Cristo circa), ove si afferma: «Per invidia e per gelosia i più validi e i più importanti pilastri [della Chiesa] hanno sofferto la persecuzione e sono stati sfidati fino alla morte. Volgiamo il nostro sguardo ai santi Apostoli... San Pietro, che a causa di un’ingiusta invidia, soffrì non una o due, ma numerose sofferenze, e, dopo aver testimoniato con il martirio, assurse alla gloria che aveva meritato» ed un celebre passo degli «Annales» di Tacito XV, 38-45, in cui lo storico parla del famoso incendio scatenatosi a Roma nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 64 dopo Cristo e delle sue conseguenze.
Se non si vuole accettare la testimonianza di Clemente, non può rifiutarsi quella di Tacito, il quale indubbiamente scriveva in un’epoca assai prossima agli avvenimenti e disponeva di fonti molto attendibili (testimoni oculari, gli «Acta senatus» e gli «Acta diurna», cioè, rispettivamente, i verbali delle sedute senatorie e i diari ufficiali dello Stato romano).

Il motivo della condanna a morte della «ingente moltitudine» («multitudo ingens», così definì i cristiani), fu, non tanto la colpa per l’incendio di Roma, ma l’«odio contro il genere umano» («odium humani generis»), che equivaleva ad essere dichiarati «nemici dell’Impero» (infatti esso solitamente si identificava con il «genere umano»).
Tacito ci informa anche del luogo e del tempo delle esecuzioni capitali: durante spettacoli circensi («circense ludicrum»), presso i cosiddetti «horti» (cioè del circo vaticano di Nerone), data l’inservibilità del resto della città (Circo Massimo compreso) a causa dell’incendio.

La datazione precisa degli spettacoli è il mese di ottobre del 64; l’incendio di Roma risale a qualche mese prima (18-19 luglio); non esiste attestazione di altri eventi circensi fino alla morte di Nerone (9 giugno 68); sappiamo infatti tra l’altro che tra la fine di settembre del 66 dopo Cristo e l’inizio del 68 l’imperatore si recò in Grecia.

Ad ulteriore conferma di quanto asserito, sono stati rinvenuti due importanti scritti anonimi
in lingua greca, contenuti in un papiro oggi conservato a Vienna: l’«Apocalisse di Pietro» e l’«Ascensione di Isaia».
Molto probabilmente databili anch’essi nel corso del primo secolo, non lontano dagli eventi del 64 (forse non posteriori all’80 dopo Cristo) nati da ambiente giudeo-cristiano.
In essi, gli autori prevedono la morte di Nerone, proprio a causa del martirio di San Pietro.
Vengono riportate precise indicazioni (3 anni, 7 mesi e 27 giorni), per mostrare il tempo residuo della vita di Nerone dal verificarsi dell’infausto evento (morte di Pietro).

Il calcolo preciso ci riconduce ad una data: 13 ottobre 64, che, tra l’altro coincide proprio con il cosiddetto «dies imperii» di Nerone, ossia l’anniversario della sua ascesa al trono.
Ma proprio il 13 ottobre 64 cadeva il decimo anniversario del suo regno («decennalia», 13 ottobre 54/13 ottobre 64).
Si trattava pertanto di una ricorrenza particolare (il «dies imperii», insieme al «dies natalis» (compleanno), era la festa più importante relativa alla persona dell’imperatore) , durante la quale gli imperatori erano soliti bandire giochi pubblici e spettacoli con gladiatori; durante i quali si facevano anche sacrifici e rituali tra cui l’esposizione dei condannati alle fiere.
Tutto sembra confermare proprio il contesto del martirio.
Ma proseguiamo oltre.

Tra i reperti archeologici Romani, numerosissime sono le raffigurazioni di San Pietro (dopo Gesù, «il buon pastore», abbiamo il maggior numero di effigi).
La venuta di San Pietro a Roma non fu mai contestata sistematicamente fino al secolo scorso.
Oggi in pochissimi si permettono tale sfrontatezza scientifica.
Anche gli stessi ortodossi e protestanti accettano questa verità.
Harnack (protestante) scriverà: «Il martirio di San Pietro a Roma è stato negato dai tendenziosi pregiudizi protestanti ed in seguito dai preconcetti dei critici partigiani... Non vi è studioso che attualmente esiti a riconoscere che questo fu un errore».
Il russo Bolotov così come Cullmann, arriveranno a dichiarare l’assoluta infondatezza di ogni altra attestazione storica se si dovesse negare il martirio di Pietro nella Città Eterna.

Sant’Ignazio d’Antiochia, scrivendo ai cristiani di Roma, dopo averli scongiurati a non voler impedire che sia «macinato dai denti delle belve», asserisce: «Non vi comando, come Pietro e Paolo: loro furono apostoli, mentre io non sono altro che un rifiuto», affermazione che assume significato pieno soltanto ove si supponga la permanenza fisica ed il comando dei santi Apostoli Pietro e Paolo nella città di Roma nonché il loro spargimento di sangue.

Ulteriore conferma di ciò la riscontriamo nella lettera di Dionigi, vescovo di Corinto, che indirizza una missiva a Papa Sotère (siamo intorno al 166-170 dopo Cristo), dover è possibile leggere:«Dovete quindi, con la vostra più vivida esortazione, riunire insieme i prodotti della semina di Pietro e di Paolo a Roma ed a Corinto. Poiché entrambi hanno seminato la parola del Vangelo anche a Corinto, e insieme lì ci hanno istruiti, nello stesso modo in cui insieme ci hanno istruiti in Italia ed insieme hanno patito il martirio», nuova conferma del soggiorno e del martirio romano.
Stando a quanto riportato da Eusebio di Cesarea, sia Clemente Alessandrino sia Papia (+ 150), vescovo di Gerapoli, confermarono espressamente che Pietro predicò a Roma la catechesi apostolica che poi fu messa per iscritto da San Marco «suo interprete» su richiesta dei cristiani di quella comunità (Stor. Eccles. 3, 39, 15; 6, 14, 7. MG. 20, 299; 551).

Sant’Ireneo di Lione (+ 202) nell’«Adversus Haereses» attesta: «la più grande ed antica chiesa, conosciuta da tutti, fondata ed organizzata a Roma dai due più gloriosi apostoli, Pietro e Paolo», e riportando di seguito un catalogo dei Papi, afferma: «avendo fondato e costruito la Chiesa (a Roma), i beati apostoli affidarono la funzione dell’episcopato a Lino, ecc», con esso confermando nuovamente e in modo concorde le altre fonti.

Tertulliano, il quale attestò la presenza di Pietro a Roma, la sua attività missionaria, battezzando nel Tevere (De Baptism. 4. ML. 1, 1203), ebbe anche a scrivere: «Se sei in Italia, hai Roma, da cui si diffonde un’autorità che va molto oltre [i confini della stessa Italia]. Quanto è fortunata questa Chiesa per cui gli Apostoli hanno versato la loro dottrina con il loro sangue, dove Pietro ha emulato la passione del Signore, dove Paolo è stato coronato con la stessa morte di Giovanni»
(«De Praescriptione haeret». 36. ML. 2, c. 9) ed ancora: «La germogliante fede cristiana fu insanguinata per primo da Nerone a Roma. Là Pietro fu legato da un altro come Gesù gli aveva profetizzato, quando fu legato alla croce» (Scorpiace, XV).
Origene e San Girolamo attesteranno anch’essi la predicazione di San Pietro a Roma e la sua crocifissione a testa in giù.

Ma anche l’archeologia ci viene incontro.
Un’iscrizione, detta della platonia (che forse sta per «platoma» - lastra di marmo), posta, da Papa Damaso (+ 384), nelle Catacombe di San Sebastiano, sulla via Appia, suona così: «Tu che domandi sul nome di Pietro e di Paolo, sappi: qui un tempo hanno abitato i due santi. L’Oriente mandò i discepoli, lo ammettiamo; - ma a causa del loro martirio sanguinoso - poichè essi sono saliti dietro a Cristo attraverso le stelle alla sede celeste e sono arrivati al regno dei beati - Roma ha ottenuto con maggior diritto di considerarli come suoi cittadini. Questo vuol cantare Damaso a vostra gloria, o nuove stelle».
Questo confermerebbe quanto supposto da coloro che argomentarono un transitorio spostamento delle reliquie degli apostoli Pietro e Paolo (rispettivamente dal Vaticano e dalla via Ostiense), a causa della terribile persecuzione (258 dopo Cristo) di Valeriano, durante la quale, fra l’altro, vennero sequestrati i cimiteri, confermandone comunque la presenza nella Città dei Papi.

In una stanza di quelle catacombe, chiamata dagli archeologi «Triclia» ( = sala da pranzo), è stata trovata anche un’intera parete colma di graffiti, anteriori al periodo costantiniano, nei quali ritornano costantemente i nomi di Pietro e Paolo con più di cento invocazioni d’ogni specie in greco e in latino, o anche in latino con caratteri greci.
Sappiamo per certo, ancora che le iscrizioni tombali risalenti ad un periodo precedente la morte di Costantino stesso (337 dopo Cristo), rinvenute da parte della studiosa Margherita Guarducci, a seguito degli studi ai quali anche Pio XII diede impulso, confermarono quanto attestato dal «Liber Pontificalis», a proposito della Chiesa che Costantino, verso il 315, aveva eretto sulla tomba originaria di San Pietro (Chiesa poi sostituita dall’attuale per volontà di Giulio II).
Aperta una breccia all’interno del sito, gli archeologi vi scoprirono l’antico trofeo di Gaio, una specie di edicola funeraria costituita da due piccole nicchie sovrapposte, appoggiata al cosiddetto «muro rosso», ad essa coevo (siamo circa nel 150 dopo Cristo).
In una costruzione adiacente, un altro muro («muro g»), furono rinvenute numerosissime iscrizioni, rappresentate da graffiti, che riportavano spesso i nomi di Cristo, Maria e Pietro; di quest’ultimo abbiamo anche l’utilizzo della simbologia delle chiavi, mediante l’utilizzo delle lettere P ed E; l’epoca di datazione è quella del III secolo.

Pio XII ebbe a dichiarare, nel messaggio natalizio del 1950: «E’ stata veramente ritrovata la tomba di San Pietro? A tale domanda la conclusione finale dei lavori e degli studi risponde con un chiarissimo sì. La tomba del Principe degli Apostoli è stata ritrovata… La gigantesca cupola s’inarca esattamente sul sepolcro del primo Vescovo di Roma, del primo Papa: sepolcro, in origine, umilissimo, ma sul quale la venerazione dei secoli posteriori, con meravigliosa successione
di opere, eresse il massimo tempio della Cristianità
».
Dopo successivi approfondimenti si dimostrò proprio di aver rinvenuto nei pressi del «muro g», la reliquia del corpo di San Pietro.

A fronte di questa piccola inchiesta non è possibile dubitare della testimonianza che il Principe degli apostoli e con lui gli altri diedero della verità di Cristo vivo e risorto, preferendo a tutto, seguire il Maestro ovunque Egli avesse loro comandato.
Vale quindi nuovamente la domanda: a che pro morire per una menzogna?
La resurrezione è un fatto storico.

Stefano Maria Chiari



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