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Fanno meglio di noi: copiamoli
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La bolla immobiliare spagnola è scoppiata. I prezzi delle case sono scesi del 5-7%, e c’è chi prevede che caleranno del 25% (1). Gli investitori stranieri stanno svendendo in fretta le obbligazioni iberiche sostenute nei mutui. Ismael Clemente, il capo della branca della Deutsche Bank che si occupa di immobiliare, ha ammesso che lui e gli altri speculatori esteri stanno vendendo i titoli dei mutui ispanici col 40% di sconto.

Naturalmente questo accelera il precipizio. Le vendite di auto sono crollate del 28% a marzo. Ma cosa fa il governo spagnolo?

Ha stanziato 20 miliardi di euro per finanziare grandi opere pubbliche, anzitutto nuove ferrovie ad alta velocità, in funzione anticiclica. Una misura keynesiana. Ad effetto immediato, senza lungaggini. E con uno stanziamento enorme, nonostante la crisi certo non prometta risorse tributarie aggiuntive. Il confronto con la «politica» e l’amministrazione pubblica italiana è schiacciante.

Da noi, lo Stato non è mai stato rapido a stanziare 20 miliardi di euro per contrastare una recessione; da sempre, è rapidissimo solo a «prendere» 20 o 30 miliardi di euro dalle tasche dei cittadini, con ogni nuova finanziaria. Forse gli spagnoli non hanno i verdi e gli ecologisti e i localisti fanatici che impediscono ogni opera pubblica, sia l’alta velocità siano gli inceneritori.

E già che parliamo di ambientalismo, ecco un’informazione per i nostri Pecorari Scanii che parlano a vanvera di energie rinnovabili: sabato scorso, giornata di vento forte, i generatori a vento spagnoli hanno generato 9.862 megawatt, pari al 40,8% del consumo di elettricità totale di un giorno (2). Nei giorni più calmi, i super-mulini a vento iberici coprono il 28-30% del fabbisogno di energia elettrica. Sabato la forza del vento ha superato quella idroelettrica, per la prima volta.

In giugno il governo di Madrid ha varato un decreto che porterà alla costruzione di «parchi del vento» galleggianti off-shore lungo la costa, più costosi dei mulini a terra ma capaci di profittare di brezze più potenti e costanti. La Spagna, apprendiamo, è con la Danimarca e la Germania il Paese che più produce energia dal vento, e conta di triplicare la produzione entro il 2020.

I nostri ecologisti ambientalisti e pecorari, se non erro, hanno bloccato l’installazione di pochi generatori a vento in Liguria, avendo scoperto (maguarda!) che sono anti-estetici (pardon, pongono problemi di «impatto ambientale»); del resto basta aver viaggiato in Sicilia e Sardegna per aver visto quelle torri con le pale per lo più ferme, per mancanza di manutenzione. Evidentemente, una tecnologia troppo complicata per  neander(i)taliani.

I nostri verdi sono così: no al nucleare, no al vento, no a tutto. Per loro, è energia «pulita» solo quella che brucia gas, la più costosa e preziosa delle materie prime energetiche. Signorini del mondo.

E’ stato detto che per l’Expo universale del 1998, il Portogallo ha costruito il ponte più lungo d’Europa, 18 chilometri, oltre che l’acquario più grande del mondo e reti di metropolitane. Il timore è che l’Expo a Milano porti orrori architettonici, colate di cemento e speculazione mafioso-edilizia firmata Ligresti; forse però alla fin fine nemmeno quello, perché da noi i politici promettono, ma sono poi incapaci di mantenere.

Prodi ordinò che la spazzatura da Napoli sparisse «entro 48 ore», e s’è visto. Berlusconi promise il Ponte di Messina e la riduzione delle aliquote, ed abbiamo visto.

Oggi, promettono tutto: salvare Alitalia, asili-nido, riduzione della burocrazia, stroncamento della mafia, fiscalità dignitosa, snellimento, deregulation… la verità è che dobbiamo pagare una tassa sugli assegni che emettiamo, obbligatoriamente renderli non-trasferibili, e persino comunicare il nostro codice fiscale al farmacista se vogliamo poter detrarre qualche medicinale dal 740. La burocrazia, specie quella fiscale, diventa ogni giorno più asfissiante.

Tutto il resto è inefficiente: il numero delle badanti (moldave, ucraine e romene) ha superato il numero dei dipendenti della Sanità, gli italiani con vecchi a carico pagano due volte, una i fancazzisti «nazionali», l’altra le romene e ucraine. Perché i nostri politici hanno «i loro metodi» per fare le cose, la nostra burocrazia ha «i suoi metodi», ed è questo il problema.

In tutti gli altri Paesi vigono metodi completamente diversi, e tutto funziona meglio. In Inghilterra, ma anche in Spagna, quando si compra una casa non occorre pagare un notaio privato a percentuale sul valore dell’immobile (assurdo), basta rivolgersi all’ufficio del registro e pagare 60 euro.
In Gran Bretagna non si conosce lo scontrino fiscale; eppure l’evasione non è un fenomeno nazionale né il pianto greco continuo del potere. In Francia, gli studi di settore funzionano benissimo, senza suscitare rivolte tra i contribuenti.

Dovunque il sistema giudiziario funziona più rapido e soddisfacente che da noi, spesso con un numero di giudici e di avvocati dieci volte inferiore. Come fanno? Come ci riescono, gli altri?

Per saperlo, bisogna andare a studiare. Andare a vedere, e adottare i metodi e i regolamenti che usano gli altri. Non c’è niente di umiliante in questo, anzi, proprio le nazioni che nella storia hanno avuto uno scatto di orgoglio hanno copiato i Paesi migliori.

Quando la Turchia divenne repubblica, decisa a superare la vecchia arretratezza, assoldò giuristi tedeschi per farsi scrivere i codici civile, penale e commerciale (e i codici turchi sono praticamente quelli germanici), ufficiali tedeschi per la riforma delle forze armate, persino linguisti tedeschi per trasferire i fonemi della lingua turca nei caratteri latini, che Ataturk aveva deciso dovessero sostituire la scrittura araba.

Nella seconda metà dell’Ottocento la classe dirigente nipponica capì che, se non non modernizzava velocemente il Paese, sarebbe caduta nelle mani degli occidentali, colonizzata. Nel 1869 l’imperatore emanò un proclama in cui invitò il popolo ad «attingere il sapere da tutto
il mondo così da rafforzare le fondamenta dell’impero». Migliaia di funzionari, politici, uomini d’affari e studiosi furono spediti in Europa e in America a studiare «le leggi e i regolamenti fiscali, le Borse, il debito pubblico, le compagnie d’assicurazione, le fabbriche d’ogni tipo, le società commerciali».

Tra il 1870 e il 1890 il solo ministero dell’Industria giapponese ebbe alle sue dipendenze oltre 500 tecnici occidentali, in un Paese dove pochi anni prima tenere rapporti con uno straniero era punito con la morte. Sulla base dei modelli occidentali fu introdotta la coscrizione obbligatoria, fu creato un sistema scolastico moderno; i samurai furono incitati a diventare imprenditori, ad assumersi il carico di industrie create con fondi pubblici e, appena avviate, cedute ai privati (3).

Anche in Cina non mancarono tentativi di questo genere. Vi furono esponenti riformisti, consci della necessità di modernizzare il Paese perché non cadesse sotto il dominio straniero, che incitarono a copiare quel che si faceva all’estero: «Quando mai avete avuto una vera comprensione della cultura dei popoli stranieri?», diceva un esponente del movimento ai suoi connazionali: «Voi li identificate con quello che vedete e toccate, con le navi a vapore, le linee telegrafiche, i treni e i fucili, cannoni, macchine tessili. Mai potrete immaginare la bellezza e la perfezione delle istituzioni e del diritto  occidentali». In Europa, diceva un altro, «il commercio è retto da norme precise e dignitose e condotto con metodi esatti». La vera forza dell’Inghilterra, sta nel fatto «che vi è là mutua simpatia tra i governanti e i governati».

I riformisti, attorno al giovane imperatore Kuang-hsu, cercarono di trasformare la Cina come i giapponesi avevano trasformato il Giappone. Furono i «Cento giorni della riforma». Perché il tentativo durò esattamente 110 giorni; poi i mandarini, ossia la burocrazia tradizionale, i calligrafi, i funzionari abituati a secoli di corruzione sbatterono fuori i riformisti, ne giustiziarono parecchi con raffinate torture, e cacciarono l’imperatore.

Noi siamo così.

La nostra burocrazia, come i mandarini e i calligrafi di ideogrammi, sono affezionati ai loro metodi (fancazzismo), sono ammanicati a politici che hanno i loro metodi e ne traggono il dovuto tornaconto in clientelismo: il tutto costa, secondo l’economista Ricolfi (di sinistra), 80 miliardi di euro in sciali, sprechi, inefficienze e mazzette, ma quei soldi ingrassano un ceto che detiene il potere e le sue leve. E che ha sempre resistito vittoriosamente.

La Dc scacciò il suo fondatore, don Sturzo, quando questi cominciò a denunciare le «tre male bestie italiane», ossia statalismo, partitocrazia e abuso di pubblico denaro. Eppure c’è stato un esempio, persino da noi, di gente che è andata a copiare all’estero. Milano, 1830.

L’alta borghesia, arricchita dalle filande e seterie (agro-industriali), si accorge che in Germania e Francia stanno esplodendo nuove industrie, la chimica, l’elettromeccanica, la metallurgia avanzata. Se ne accorge  perché vede i suoi pochi settori manifatturieri dipendenti da industrie straniere per ogni novità tecnologica, che bisognava comprare all’estero. Allora il direttore del Politecnico, Giuseppe Colombo, manda a studiare al politecnico di Zurigo un giovane laureato, Franco Tosi, che poi fonderà la ditta omonima; suggerisce ad uno studente, tale Giovanni Battista Pirelli, di andare a studiare in Germania e Francia l’industria della gomma, che pareva avere un grande futuro; consiglia ad un altro neo-ingegnere, di nome Ernesto Breda, di andare a studiare in Germania, Olanda e Danimarca le innovazioni nell’industria siderurgico-meccanica.

Il Colombo a volte paga di tasca sua i viaggi di questi studenti promettenti; altre volte, a pagare sono i ricchi milanesi, che capiscono la necessità d’innovazione industriale. Non solo: questi imprenditori capiscono che bisogna «adeguare il sistema di istruzione superiore alle nuove caratteristiche che va assumendo lo sviluppo economico-industriale della città». Occorrono operai moderni e tecnici.

Il signor Carlo Erba, molto ricco, sborsa 400 mila lire di allora di tasca sua per fondare la Scuola speciale di elettrotecnica, e poi volge un appello agli altri ricchi, che facciano altrettanto, che sostengano la ricerca applicata all’industria. Nascono così la Società Chimica Milanese, il Laboratorio di Geodesia, l’Associazione Elettrotecnica Italiana, il Laboratorio Sperimentale di Ricerche sulla Carta.

Già molti anni prima, su finanziamenro di privati, e sul modello francese, era sorta la Società di Incoraggiamento Arti e Mestieri, da cui usciranno operai capaci di diventare imprenditori, come tale Ercole Marelli. Per questo, e non per chissà quali misteriose doti naturali, Milano è stata per un secolo e mezzo la capitale industriale italiana e il centro delle innovazioni: per volontarismo, per «simpatia fra governanti e governati», per una decisione rapidamente presa. E per ambizione, Milano è andata a imparare all’estero, umilmente, come far meglio.

Oggi manca l’ambizione e, insieme, l’umiltà. Abbiamo i  nostri metodi. Il metodo Mastella, il metodo Berlusconi, il metodo Visco, il metodo Bassolino. Loro sanno come si fa, hanno imparato anche già troppo.




1) Ambrose Evans-Pritchard, «Foreign bank flee spanish property debt», Telegraph, 4 aprile 2008.
2) «New Record, Wind power 40% of Spain», Environmental News Network, 28 marzo 2008.
3) Marc Vitale, «La lunga marcia del capitalismo democratico», Milano 1989, pagina 65 e seguenti.


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