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La tattica della Ferita Aperta
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Il presidente Obama è sembrato in qualche modo voler tranquillizzare il regime siriano: l’attacco, ha detto, sarà «limitato»; e la Casa Bianca non persegue il «regime change».

Ma allora perché lo fa? Qual è lo scopo reale dell’attacco? Lo chiede anche qualche amico. Il motivo è implicito nelle cose che Obama ha detto: lo scopo dell’attacco – è “degradare” la forza militare siriana. Nient’altro che questo: demolirla un po’.

Ricapitoliamo:

L’esercito regolare siriano stava vincendo sul campo. Le speranze di vederlo sgretolarsi rapidamente sono svanite fin dalle prime fasi del conflitto. Dopo le prime iniziali defezioni di alti gradi, la forza armata di Damasco è diventata di mese in mese più combattiva, efficace e determinata. Certo, è stata validamente sostenuta da Russia, Iran ed Hezbollah; ma paradossalmente, il «merito» maggiore di questa indurimento della volontà dell’armata si deve ai suoi nemici, i ribelli islamisti wahabiti. I jihadisti «ribelli», compiendo esecuzioni abiette e insensate dei soldati in divisa catturati, hanno fatto capire che la resa non era una soluzione. Questo esercito ormai combatte per la propria vita, e per vendicare le vittime del proprio clan e setta. Baathisti, alawuiti e cristiani hanno visto lo scempio che i loro avversari fanno dei loro corpi, delle loro famiglie e dei loro templi. I curdi, significativamente, li affiancano: vogliono sì l’indipendenza, ma non finire sotto i wahabiti e i ceceni.

Ancor più che militare, Damasco sta ottenendo una vittoria, diciamo, morale. L’opposizione interna, siriana, sempre più schiacciata e marginalizzata dai combattenti stranieri – di cui hanno visto e sofferto i metodi, sbudellamenti, cuori mangiati, eccidi ed esecuzioni efferate di non-sunniti – sta facendo i dovuti confronti fra il rischio di finire sotto i nuovi spaventosi padroni, e il vecchio diavolo che ben conosce. Si sa che i capi-clan sunniti locali stanno raggiungendo accordi con il regime: consegnano le armi con tutto il loro gruppo, villaggio o kabila e in cambio ottengono una specie di amnistia, possono tornare nelle loro case e cercare di riprendere una vita normale. Hanno ricevuto un impegno alle riforme, che del resto Assad ha promesso concretamente fin dal 2011, dopo le prime manifestazioni pacifiche.

I «ribelli» islamisti, all’80% stranieri, estranei al territorio e agli usi locali, ma tuttavia dominanti militarmente sulla divisa opposizione siriana, hanno compiuto esecuzioni di capi sunniti che stavano negoziando questi armistizi: rendendo ancor più chiaro alle vittime che il governo sunnita da loro promosso (o meglio: dai loro manovratori, i sauditi) sarebbe un puro e semplice regno del Terrore. Magari qualcuno, davanti alle devastazioni e insicurezza di oggi, comincia a provare qualche nostalgia del decennio in cui Assad figlio è stato incontrastato al potere (vi è salito nel 2000), e in cui ha dimezzato la disoccupazione e quadruplicato il Pil siriano grazie a riforme economiche ed apertura agli investimenti esteri.


Ora, né Washington né Israele (e non parliamo della monarchia saudita) possono acconsentire ad una piena vittoria di Assad e alla liberazione della Siria da parte dell’armata regolare, ormai sperimentata nella sua nuova coscienza nazionale. La mezzaluna sciita (Iran, Alawuiti ed Hezbollah) ne uscirebbe più solida in incontrastata continuità territoriale, tanto più che anche l’Iraq, grazie alla «democrazia esportata» dai neocon, è oggi governato dalla maggioranza sciita, che politicamente guarda a Teheran.

È per scongiurare il saldarsi dell’asse sciita che Usa ed Arabia Saudita, Turchia (ed Israele più surrettiziamente), hanno largamente finanziato addestrato e fornito di armamenti la variegata legione straniera di «ribelli» jihadisti, ancorché questa somigli come una goccia d’acqua a quella entità che la propaganda americana chiama «Al Qaeda», e che secondo la propaganda è nemica delle libertà americane. E quando la vittoria del regime di Assad ha cominciato a delinearsi concretamente, è per questo che Obama ha detto (o gli è stato fatto dire) che il suddetto regime, se solo avesse osato lanciare le sue armi chimiche contro i ribelli, avrebbe passato «una linea rossa»: al che, immediatamente e per miracolosa coincidenza, armi chimiche sono effettivamente apparse a fare strage sul teatro operativo. Nella speranza di precipitare l’intervento americano umanitario e moralizzatore.

D’altra parte, dotare i ribelli jihadisti di armi pesanti onde farli giungere a completa vittoria? Forse non lo auspica nemmeno il principe Bandar Bin Sultan, il capo dei servizi segreti sauditi, manovratore di detti ribelli (ed aspirante al trono dei Saud); sicuramente non lo vogliono né Washington né Tel Aviv, per la quale la sola ipotesi che qualcosa dei vasti arsenali siriani di sarin finisca in mano a qualche gruppuscolo islamista è il peggiore degli incubi. Se qualcuno alla Casa Bianca ha mai accarezzato qualche illusione simile, la prova in Egitto dei fratelli Musulmani, che Obama ha appoggiato, lo ha vaccinato per sempre.

E allora? L’ideale per gli americani è che non vinca né l’una né l’altra parte. Che la guerra civile continui, con sempre più distruzioni e atrocità, miserie umane e milioni di profughi, indefinitamente.

Mica lo ipotizza Blondet, il vostro complottista screditato. Lo ha scritto chiaro, a tutte lettere, il ben noto Edward Luttwak:

«At this point, a prolonged stalemate is the only outcome that would not be damaging to American interests». Traduzione: «Uno stallo prolungato è il solo risultato che non sarebbe dannoso per gli interessi americani». Luttwak l’ha scritto in una colonna del New York Times del 31 agosto scorso. (In Syria, America Loses if Either Side Wins)

E nemmeno Luttwak è un cinico originale che parla per sé, e dà un’opinione sua privata. La soluzione che auspica, o piuttosto che descrive, è una tattica ben nota al Pentagono e più volte usata, di fatto, nella storia recente.

Nel 1980, l’Iraq di Saddam Hussein scatenò la guerra contro il regime degli ayatollah iraniani, che erano diventati la bestia nera di Washington dopo l’occupazione dell’ambasciata USA a Teheran; è quasi certo che avessero istigato Saddam , convinti che il regime dei preti sciiti fosse debole e impreparato. La guerra invece minacciò di finire quasi subito per la repentina, eroica, unitaria resistenza del popolo iraniano in armi. Gli osservatori americani furono impressionati dall’abnegazione e dal coraggio irriducibile delle «ondate umane» di adolescenti iraniani che travolgevano i corazzati dell’esercito di coscritti iracheno (da allora nasce la strana paura dell’Iran in certi ambienti J); a Washington si ritenne necessario dare un ragguardevole aiuto militare a Saddam, per impedirne la disfatta dapprima, e alla lunga, perché entrambi i contendenti si dissanguassero. Riuscirono a far durare la guerra 8 anni. Israele, dal canto suo, «aiutava» con armamento il regime iraniano, con opache triangolazioni che coinvolsero i Contra del Nicaragua e la sede di Atlanta della Banca Nazionale del Lavoro (con Ciampi di mezzo), ma tutte gestite dall’ambasciatore USA John Negroponte ; gli americani davano a Saddam anche intelligence (le immagini dei satelliti-spia che rivelavano le posizioni iraniane) e un flusso potente di armamenti di ogni genere, fra cui spiccano le forniture di gas nervini.

Foreign Policy (che è la rivista del Council on Foreign Relations, il think-tank che ha perso la sua storica influenza sui presidenti del Stati Uniti a vantaggio dei neocon) ha recentemente pubblicato un articolo, dove «rivela» che «L’America assisté Saddam a gassare gli iraniani». Racconta che nel 1988 il Pentagono segnalò a Saddam la preparazione di una offensiva iraniana e fornì a Baghdad le informazioni dettagliate per contrastarlo, «pur sapendo che Saddam avrebbe usato i gas». È una mezza verità e una piena menzogna: Saddam cominciò ad usare i gas nervini fin dall’80, subito cioè all’inizio della guerra, per arrestare le ondate umane dei giovani combattenti iraniani che tanto spaventarono gli stessi americani; e siamo quasi certi che furono gli americani, inizialmente, a fornire l’armamento chimico sarin e iprite al dittatore di Baghdad. (CIA Files Prove America Helped Saddam as He Gassed Iran)

Otto anni di guerra ed un milione di morti dopo, il desiderato stallo e l’auspicato dissanguamento reciproco non poterono essere trascinati oltre: i due Paesi stremati accettarono, con una certa sorpresa da parte americana, la proposta di armistizio avanzata dall’Onu (Risoluzione 598). Saddam, con gli introiti petroliferi, aveva i mezzi per una rapida ricostruzione e un forte sviluppo del Paese.

«Quello costruisce ferrovie! Centrali elettriche! L’Iraq rischia di diventare la potenza dominante dell’area, e questo Israele non può tollerarlo», confidò proprio Edward Lutwak al vostro cronista Blondet. Era il tempo in cui Bush padre stava accumulando truppe per «liberare» il Kuwait, che Saddam aveva invaso. Fu la prima guerra del Golfo, che distrusse le infrastrutture e letteralmente incenerì la gioventù irachena più modernizzante, arruolata allora nella Guardia nazionale. Poi, con Bush figlio, arrivò la seconda guerra e l’occupazione americana dell’Iraq, con il genocidio della kabila dei Tikriti (sunniti saddamiti e baathisti) a Falluja. Particolare che non cessa di stupire l’osservatore di questi storici eventi, sempre con gli Stati Uniti nella parte della potenza morale che riporta l’ordine etico nel mondo, e dei suoi nemici d’occasione nella parte dei selvaggi criminali che compiono delitti orrendi e «ci odiano per la nostra libertà».

All’opinione pubblica vien ricordato che Saddam usò i gas, commettendo un crimine contro l’umanità. Che cosa abbiano usato gli americani a Falluja nel 2004 non s’è mai esattamente saputo, ma ancor oggi, il tasso di mortalità neonatale supera di 6 volte quello della Giordania, le malformazioni fetali sono endemiche, leucemia e di cancri fra i sopravvissuti superano largamente quelli di Hiroshima. Doveva essere roba forte. (L’invasione americana in Iraq lascia un’eredità più tossica di Hiroshima)

Si parla di fosforo bianco, di uranio impoverito a tonnellate, di armi «nuove» che spaccavano i muri per ammazzare quelli dentro, ma naturalmente – quando il discorso cade sul tema «crimini contro l’umanità» – i nostri cari media ci ricordano sempre che i colpevoli vanno cercati altrove: Saddam, ed oggi, il mostro Bachar al-Assad.

Che va’ punito. Come tutti sanno, è un dovere: altrimenti quanti dittatori nel mondo useranno le «armi di distruzione di massa»... Ma tranquilli, sarà un attacco limitato, perfino chirurgico, e che non intende giungere al «regime change»; giusto quel tanto che basta per riportare la situazione allo stalemate, allo stallo – dove né l’una né l’altra parte abbiano la vittoria. La situazione in cui la Siria continui ad essere distrutta, altri profughi a fuggire e abitare in campi di tende, altri a morire, e nessuna ricostruzione cominci mai più.

Obama ha gettato la palla della decisione al Congresso: è una mossa furba, che lo conferma un esperto politicante della politica tortuosa di Washington. I repubblicani del Congresso, che gli hanno votato contro per qualunque proposta in tutti questi anni, si preparano a votare massicciamente per lui, stavolta, il 9 settembre. Non sia mai detto che un rappresentante del popolo repubblicano si mostri meno guerrafondaio di un presidente democratico: la democrazia ha le sue esigenze, e l’alta moralità pure.





Sono i soldati che protestano. Dopo un decennio di guerre senza capo né coda, e continui richiami in nuovi round operativi e più suicidi che morti in conflitto, sono stanchi e umiliati. Mandano in tweet le loro foto con la scritta: «Non mi sono arruolato per combattere insieme ad Al Qaeda in una guerra civile». Lo hashtag è # IdidntJoin .

Il morale è basso. Sufficiente per un attacco «limitato» coi Tomahawks, senza «scarponi sul terreno». Ma le guerre limitate e dal cielo – le preferite dall’America – hanno sempre sofferto di sviluppi e prolungamenti imprevisti. E già qualche sorpresa s’è verificata: Londra stavolta non ci sarà. Può darsi che ne vediamo altre. Tutti a digiunare venerdì.


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