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Un contributo all’esegesi transpolitica della storia contemporanea (4)
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Quarta Parte
L
a «culla» francese


L’israeliano Zeev Sternhell è, tra gli storici del fascismo, uno dei più valenti ed accreditati. In opere di capitale importanza egli ha studiato la «Droite revolutionnaire», a cavallo tra XIX e XX secolo, giungendo alla conclusione che la genesi dell’ideologia fascista va appunto situata in Francia, nel passaggio tra i due secoli, dall’incontro tra maurrassiani e prodhouniani, tra nazionalisti e socialisti. Ecco perché dobbiamo dare uno sguardo al fascismo francese, che mai prese il potere se non a Vichy e che però ha goduto di adesioni intellettuali, sia di destra che di sinistra, «neo-socialiste» (1).

Seguiamo, quindi, Zeev Sternhell nella sua ricerca storica sulle fonti dell’humus culturale dell’ideologia del «socialismo per tutta la nazione», ossia ciò che voleva essere il fascismo europeo degli anni ‘30.

«Il neo-socialismo – scrive il nostro storico, docente di scienze politiche all’Università di Gerusalemme, trattando del ‘revisionismo socialista’ di Marcel Déat che mise in crisi, dall’interno, l’unità del Partito Socialista Francese di Leon Blum – costituisce… nel suo spirito il motore di ‘una vera rivoluzione a tappe, condotto da un governo risoluto e lucido’: sin dal 1930 ‘Perspectives socialistes’ (l’opera con cui Marcel Déat mise in discussione il socialismo ufficiale francese dell’epoca, nda) intende fornire il quadro concettuale di questa rivoluzione, fatta dall’alto, inquadrata e diretta dai pubblici poteri. La spiegazione di ‘Perspectives socialiste’ si ordina intorno a tre assi principali. Bisogna innanzitutto riconoscere che il marxismo non è… un dogma, una metafisica. Bisogna in seguito attrarre le classi medie che subiscono anch’esse lo sfruttamento capitalista senza essere per altro respinte nel proletariato. Bisogna infine riconciliare il socialismo con la nazione e, nell’ambito nazionale, sviluppare una potente azione sullo Stato e attraverso lo Stato. Utilizzando il formidabile strumento rappresentato da uno Stato trasformato e ammodernato, il socialismo sarà capace di fare… la ‘rivoluzione diretta’ (…). (…) un concetto fondamentale … sostituisce, nei fatti, la nozione di socialismo: l’anticapitalismo (…). Quest’analisi (l’analisi di Marcel Déat, nda) è fondata sul postulato secondo il quale il proletariato non è la sola forza anticapitalista, tutt’altro (…). Bisogna dunque contare (anche) su altre categorie sociali, su quelle classi medie che… costituiscono, non forse l’elemento motore, ma il fattore decisivo. E al primo posto fra queste classi medie si trovano i contadini proprietari, seguiti dagli artigiani, dai funzionari e sinanco da categorie ancora peggio delimitate (…). Di fronte al socialismo tradizionale che tende ‘facilmente all’utopia’… (i neo-socialisti ‘fascisti’ di Marcel Déat) brandiscono la bandiera dell’anticapitalismo, che travalica largamente i quadri socialisti: essi sono convinti della possibilità di scegliere una terza via tra la ‘scappatoia americana’ e la ‘crisi catastrofica’. In effetti, è possibile, dice Déat, seguire il capitalismo, ‘per fare pressione su di esso, per condizionarlo, una volta unite tutte le forze’ (…): alla ‘potenza capitalista’ si ribellano non solo la classe operaia ma anche l’insieme delle classi medie. È per questo che la vera sinistra comincia, secondo Déat, nel momento in cui si prende posizione contro il capitalismo, e dà battaglia ovunque si affrontano la volontà popolare e le ‘potenze del denaro’. L’anticapitalismo supera così il socialismo e, nello spirito (già fascista) di Déat, ne prende il posto. L’autore di ‘Perspectives socialiste’ rivolge un appello a tutti coloro che, a qualsiasi partito appartengano, sono pronti a favorire il raggruppamento, l’unione di tutte le forze anticapitaliste (…). ‘C’è ormai un anticapitalismo senza proletarizzazione’, e la lotta vera è quella che solleva ‘tutti i produttori contro tutti i profittatori’, e non più il proletariato industriale contro la borghesia: questa alleanza è resa possibile dai cambiamenti intervenuti nello stesso capitalismo» (2).

I neo-socialisti di Marcel Déat non erano gli unici ad esser giunti, nella Francia degli anni ‘30, a simili conclusioni politico-culturali. Infatti che l’anticapitalismo, ossia l’alleanza tra ceti medi e proletariato, sia la forma necessaria per la trasformazione dello Stato.

«… è egualmente – continua Sternhell – la conclusione alla quale perviene Jouvenel (3) in un articolo pubblicato dalla ‘Tribune des fonctionnaires’ e nel quale egli riconduce… l’anticapitalismo a due formule: alleanza proletariato-classi medie ed economia diretta da uno Stato riformato. In realtà, gli uomini di questa scuola accettano tutti la tesi di Henri De Man secondo cui il capitalismo è passato da una fase progressiva ad un fase regressiva…: la causa principale di questa evoluzione è l’accresciuta potenza del capitale finanziario rappresentato dalle grandi banche. Il dominio che le grandi banche esercitano sul regime del credito è all’origine dell’opposizione di interessi che determina il comportamento della maggioranza delle classi medie. L’indipendenza di queste si trova così minacciata, e si precisa il loro timore di essere relegate nel proletariato. Ecco perché, dice De Man, l’anticapitalismo delle classi medie se la prende col capitale finanziario e si oppone al capitalismo monopolista: l’interesse comune delle classi medie e di quelle operaie nei riguardi del capitalismo finanziario rende così possibile la creazione di un vasto fronte anticapitalista. Tuttavia, l’autore belga non s’inganna sulla natura reale di una unione del genere: sa che una simile coalizione… sfocia alla fine in una rivoluzione delle classi medie» (4).

La rivoluzione intuita da Henri De Man – benché egli, come il Salvatorelli, credeva ad un destino decadente dei ceti medi che li avrebbe predestinati ad esser manovra della reazione capitalista, laddove invece la loro ribellione era quella di una classe in ascesa anche se contrastata in questa sua salita sociale – era quella della giovane piccola borghesia ascendente che ieri come oggi, minacciata dalla finanziarizzazione dell’economia, si pone a capo del proletariato nella lotta al capitalismo, in particolare a quello finanziario. L’intera sinistra francese non conformista si interroga, negli anni tra le due guerre mondiali, sul ruolo storico-sociale che giocano i ceti medi in una moderna società industriale. Un ruolo oggi, sia detto en passant, messo fortemente in discussione dalla globalizzazione che ha rimesso in moto il rivoluzionarismo dei ceti medi, benché attualmente, nella fase di superamento postmoderno della forma Stato, essi rischiano, ancor più che negli anni Trenta, una deriva di tipo tribale, in contrapposizione al globale, e non più nazionale.

«(…) I néos francesi – continua Sternhell descrivendo il dibattito interno alla sinistra francese tra le due guerre mondiali – vogliono anch’essi sfruttare il potenziale delle classi medie (…). È con uno stesso spirito che gli uomini di Bergery e di Doriot lavorano: tutte le correnti di una certa sinistra non conformista tentano di recuperare le classi medie (…) fra i néos si parla… di far(le) ‘scivolare verso sinistra’… mentre altrove è innanzitutto alla grande miseria delle classi medie che ci si rivolge. ‘Le classi medie soffrono’, ripetono i néos… o Doriot che si ribella alla ‘rovina delle classi medie’ (…) (…) il capo del PPF rievoca la grande figura ‘del contadino-soldato’, vittima del liberalismo e del marxismo. Sotto molti punti di vista… è la funzione storica del proletariato che viene messa in discussione (…) il futuro non appartiene più al proletariato… perché l’evoluzione tecnica, la razionalizzazione della produzione e l’automatizzazione trasferiscono un po’ alla volta le funzioni dell’operaio, da una parte, a delle macchine e, d’altra parte, a quadri intellettuali che già appartengono alle classi medie. L’era della industrializzazione apparteneva al proletariato, quella dell’automazione, nei Paesi industriali avanzati, sarà quella degli strati intermedi fra la classe capitalista e il proletariato. Questo è il vero senso dell’analisi comune a De Man, Jouvenel, Doriot (…). Tutti sono d’accordo sul fatto che, lungi dal distruggere le classi medie, come pensava Marx, l’evoluzione tecnologica è in realtà loro favorevole, il che comporta necessariamente una revisione della nozione stessa di lotta di classe (…)» (5).

È molto interessante osservare come la sinistra non conformista francese degli anni ‘30 abbia seguito un percorso, dal socialismo marxista al socialismo produttivista e nazionale, del tutto simile a quello che Mussolini e gli altri irregolari dell’interventismo di sinistra avevano seguito a partire dagli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale e che, nella stessa Francia, come annota ancora Sternhell, era stato anticipato dall’incontro, di fine Ottocento ed inizio Novecento, tra il sindacalismo rivoluzionario di ascendenze soreliane e proudhoniane, il populismo boulangista ed il nazionalismo integrale di Charles Maurras e degli altri maurrassiani «sociali», come Georges Valois fondatore del «Faisceau» (definito da Sternhell un «fascismo ingenuo» ma già portatore di tutto il travaglio che la stessa sinistra francese avrebbe vissuto più tardi).

«Henri De Man – scrive ancora Sternhell – aveva… dubbi molto seri sulle capacità del proletariato quale strumento esclusivo di trasformazione sociale. Già all’indomani della guerra, il futuro leader del socialismo belga pensa che… l’interesse di classe del proletariato non potrà risolvere alcun problema. Il proletariato, dice De Man, non ha il monopolio della saggezza e del disinteresse. Non è mai riuscito… ad inglobare le categorie sociali che esercitano le funzioni di direzione e di coordinamento, essenziali alla produzione industriale. D’altra parte, pensa De Man, nessuno può pretendere che la mentalità operaia sia solo il prodotto della condizione di classe del proletariato. Come tutti gli altri membri della società, gli operai partecipano di uno stesso sfondo intellettuale, di una stessa eredità culturale, e delle stesse istituzioni nazionali. Essi recano l’impronta delle credenze religiose o morali di tutta un’epoca e non possono essere ridotti all’astrazione dell’homo oeconomicus che non ha che due mani per produrre ed uno stomaco per mangiare. Non basta dunque fare appello agli interessi di classe del proletariato industriale, disprezzando l’apporto che possono fornire taluni interessi e ideali comuni a tutta la nazione e a tutta l’umanità. Senza ammettere certe forme di collaborazione di classe… la lotta di classe proletaria non può aver successo. In realtà, ciò che un De Man, un Déat o un Jouvenel sottintendono, è l’idea che il progresso non lavora in favore del socialismo L’evoluzione tecnologica, le strutture sociologiche da essa create… valorizzano l’interdipendenza delle classi sociali, la loro solidarietà di fatto, i loro interessi comuni in quanto membri di una medesima collettività nazionale. (Per Henri De Man)… anche il più miserabile dei manovali si trova legato nella sua esistenza quotidiana da almeno altrettanti legami di solidarietà alla comunità nazionale di quanti ne ha con la classe di cui fa parte. (…). Così si creano… ‘solidarietà di fatto’ fra tutti i produttori: non esiste solidarietà più potente di quella generata dall’insicurezza economica di fronte all’‘ipercapitalismo’» (6).

L’ideologia del socialismo nazionale denota, con tutta evidenza, un forte debito verso il pensiero tecnocratico, risalente a Comte e a Saint-Simon, benché, ora, a distanza di quasi un secolo dai padri del positivismo, essa si nutra anche degli apporti della più moderna psicologia sociale, aperta verso l’irrazionale (con grande confusione tra Sovrarazionale e subrazionale, di cui non si avverte, pericolosamente, l’effettiva distinzione: da qui l’approccio strumentale al Cattolicesimo inteso solo quale sostrato religioso e storico della nazione). Un debito che era già tutto di Charles Maurras, l’«ateo devoto» del suo tempo (7), che concepiva la monarchia integrale moderna come monarchia sociale ossia fondata sulle leggi positive dell’empirismo sociale che consentono un approccio «scientifico» all’essenza organicista delle società umane, senza più necessità, se non come base culturale naturalistica (Marx, Feuerbach e Spengler non avrebbero detto di meglio), di metafisiche teologiche a giustificazione dell’autorità del re moderno. Questa concezione empirica si ritrova, qualche decennio più tardi, nel pensiero di Jacques Doriot, il fondatore del PPF, già comunista, con tutta la sua similitudine alla concezione organicista del pensiero sociale cattolico, ben altrimenti però metafisicamente fondato, che, allora come oggi, attrae molti cattolici un po’ troppo acritici verso questi aspetti delle culture non conformiste social-nazionali.

«Come i socialisti nazionali a cavallo tra i due secoli – è ancora Sternhell che spiega le vie della formazione dell’ideologia fascista –, come i… collaboratori del Circolo Proudhon, la generazione del periodo tra le due guerre sa riconoscere il ‘buon’ capitale da quello ‘cattivo’, gli sfruttati dagli sfruttatori, i ‘piccoli’ dai ‘grandi’ (…). La tesi della collaborazione di classe costituisce, alla fine degli anni Trenta, uno dei pilastri del pensiero doriotista. Più di chiunque altro, gli uomini del PPF riprendono… l’ideologia (fascista) (…). ‘Noi siamo tra coloro che esigono la buona armonia tra il capitale e il lavoro’, scrive Doriot. Tutta l’ideologia doriotista poggia su questo principio di solidarietà: ‘C’è la solidarietà della famiglia, c’è quella del comune, della regione, dell’impresa, della professione, e in cima, espressione e sintesi di tutte le altre, c’è la solidarietà nazionale’. È compito del PPF restaurare queste ‘comunità vere’, creare delle strutture sociali che permettano il loro sviluppo, per giungere alla fine ad una realtà nuova, quella della nazione, in quanto ‘insieme armonico delle comunità naturali’. Bisogna dunque creare istituzioni in cui gli uomini ‘sentiranno ciò che li unisce più fortemente di ciò che li divide’, bisogna stabilire, dice Doriot…, ‘la collaborazione viva dei produttori, operai, tecnici ed imprenditori’. E il capo del PPF prende le difese del piccolo e medio padronato, mostra la solidarietà di questi piccoli padroni con i loro operai. È su questa base che Loustau preconizza la sostituzione dell’impresa capitalista attuale ‘in cui si concretizza la subordinazione delle classi’ con un’impresa nuova in cui sarà realizzata ‘la collaborazione dei tre fattori della produzione: capitale, creazione, lavoro’» (8).

Come si vede, la socializzazione delle imprese, intesa come progressiva integrazione del lavoro nella gestione, nella proprietà e nella distribuzione degli utili aziendali, è un’idea comune tanto alla tradizione del pensiero politico e sociale cattolico, quanto a quella del pensiero socialdemocratico e fascista. La codeterminazione tedesca del secondo dopoguerra come l’inattuato articolo 46 della Costituzione italiana del 1946 e come i provvedimenti intesi all’azionariato operaio della Francia di De Gaulle, non si discostano dalle analoghe propensioni partecipative proprie dei regimi e dei movimenti fascisti. Benché in un clima culturale diverso. Tuttavia se un Drieu La Rochelle, che alla fine della Seconda Guerra Mondiale, di fronte al fallimento del suo mondo di «socialista fascista», si sarebbe suicidato leggendo le Upanishad induiste (certo orientalismo, congiunto sovente all’esoterismo gnostico, serpeggia sempre nelle culture fasciste) e dichiarando «muoio comunista», poteva rivendicare l’essenza piccolo-borghese della rivoluzione nazionale quale essenza socialista è proprio perché egli si riferiva all’orizzonte, già amato da Pierre-Joseph Proudhon, della piccola proprietà unita al lavoro (per Proudhon la «proprietà furto» era il grande capitale, in particolare quello finanziario al quale opponeva per diffondere la piccola proprietà la costituzione di una «Banca del Popolo»: simili concezioni e simili esperimenti attuò anche il Cattolicesimo sociale ottocentesco) ma nella cornice di uno Stato autoritario che la sapesse difendere sia contro il capitalismo che contro il bolscevismo e che sapesse integrare nella nazione sociale tutte le classi sociali che non l’evoluzione storica ha dimostrato non essere solo quella della dicotomia marxista, borghesia e proletariato.

«In uno stesso ordine di idee – ci dice Sternhell –, Drieu La Rochelle chiede che si cessi di abusare ‘di questa parola lavoratore. Anche noi siamo dei lavoratori. Anche i contadini e i borghesi sono dei lavoratori – proprio come gli operai’. Come tutti i fascisti, Drieu comincia col dichiarare fondamentalmente falso il postulato secondo cui il numero delle classi si riduce a due: mai l’intero teatro sociale è stato riempito dal duello tra la borghesia e la nobiltà, poi tra la borghesia e il proletariato (…). Oggi più che mai, secondo Drieu, la lotta di classe a senso unico è resa impossibile dalla molteplicità infinita delle classi. In questo caos, il proletariato non può giungere alla costituzione di un vero partito di classe (…). Non ci sarà dunque sostituzione di una classe con un’altra – non ce ne sono mai state – …: il solo modo di venirne fuori, pensa Drieu, è come in Italia, in Germania, nella Russia di Lenin, sempre lo stesso: la rivoluzione di tutte le classi riunite» (9).

Certo settori cattolici del tempo, anche quelli che facevano riferimento ad «Esprit», la rivista di Mounier, il quale del resto partecipò a Roma negli anni Trenta ad un convegno internazionale promosso da Bottai sulla terza via corporativa, erano attratti dal fascismo non solo per la convergenza sulle soluzioni partecipative e corporativiste proposte dalle diverse forme di socialismo nazionale fascista, ma anche per la loro «religiosità». Qui, però, come più volte detto, sta una pericolosa tentazione: l’inavvertita sostituzione di una religione politica, che nelle sue forme più radicali può assumere il carattere di una idolatria neopagana (non meno, appunto, idolatrica della idolatria oggi dominate del mercato globale e del denaro apolide), alla vera fede cristiana che mai può essere ridotta o costretta in ambiti immanentistici, perché la Trascendenza fonda e regge l’immanenza ma la supera infinitamente.

«Doriot… – continua Sternhell – proviene da un ambiente proletario e si trova, almeno all’inizio, alla testa di un vero movimento operaio (…) un movimento proletario… sociale e nazionale: questo movimento rifiuta la polarizzazione sociale e lo scontro di classe, vuole una Francia della gente minuta, fraterna e solidale. A questi uomini, dice Loustau: ‘occorre una speranza. Questa speranza è quella di un’altra Francia, liberata dagli errori che la dividono, dagli odi che la insanguinano, di una Francia in cui gli uomini non saranno più soli, smarriti… stretti dall’angoscia… ma in cui, in ogni ora della loro vita, qualsiasi funzione occupino, avranno posto in una famiglia; in cui durante tutte le tappe della loro esistenza terrena, potranno far conto su altri uomini che parteciperanno alle loro gioie e alleggeriranno le loro sofferenze. (A) Doriot e Loustau (corrisponde il cattolico, futuro direttore di ‘France catholique’) Jean de Fabrègues…: ‘Non si tratta di sopprimere le patrie, si tratta di fare una patria che sia quella di tutti e in primo luogo del proletariato. Si potrebbe riuscire solo dando al proletariato la sua parte di proprietà dei beni nazionali, la sua parte di responsabilità nella loro gestione, la sua parte di emozione nella loro esaltazione. Ecco perché il problema dell’integrazione nazionale del proletariato non può essere separato da quello della sua integrazione economica e culturale’. Integrare il proletariato nella comunità nazionale, ‘restaurare il proletariato nella partecipazione alla vita nazionale e ai valori spirituali’, questo fu in tutti i tempi l’obiettivo fondamentale del socialismo nazionale. Nello spirito di Barrès nel 1890, di Sorel nel 1914, degli uomini di Combat nel 1936, risiede l’unica soluzione alla decadenza della Francia. Il socialismo nazionale o il nazionalismo sociale non sono concepiti solo come uno strumento di salvezza nazionale, ma come un salvagente per tutta una civiltà agonizzante» (10).

La continuità nel passaggio dallanteguerra al dopoguerra

È assodato, in sede storiografica, che nelle politiche economiche e sociali, vi sia stata, in tutt’Europa, per molti aspetti, fatta eccezione dell’autoritarismo e del totalitarismo, una evidente continuità, al di là della diversità dei regimi politici e dei singoli provvedimenti adottati, tra la concezione sociale dello Stato nazionale dell’anteguerra e quella del dopoguerra. Un esempio di tale continuità è dato dal «pianismo» di Henri De Man, futuro capo del socialismo belga, che si presentava, negli anni Trenta, come una ideologia sociale del pieno impiego di stampo keynesiano, molto simile al New Deal di Roosevelt. Il De Man la elaborò, la propose e riuscì in parte ad attuarla in Belgio negli anni della Grande Depressione, seguita al 1929. In Belgio, negli stessi anni, agiva il Rexismo, il partito fascista fondato dal cattolico Léon Degrelle cresciuto negli ideali del cattolicesimo sociale dell’Azione Cattolica belga («Rex» stava per «Christus rex» e riprendeva il grido di battaglia dei martiri Cristeros del Messico cattolico ribelle alla dittatura massonica di Calles ed Obregon, appoggiata dagli Stati Uniti), che però aveva gradualmente sostituito con un approccio vitalista ed irrazionalista – «la rivoluzione della volontà» – pregno di volontarismo e di mistica dell’azione, tipico del dinamismo dei movimenti fascisti. Il programma di Rex, nel quale l’obiettivo principale era l’abbattimento del «supercapitalismo», aveva, nel suo auspicato dirigismo sociale e nazionale, punti di forte contatto con il Pianismo del De Man. Il Degrelle, però, non era stato capace di comprendere il lato oscuro del socialismo nazionale, quello neopagano, ed infatti finì per abboccare alla mitologia hitleriana del Nuovo Ordine Europeo, senza capire che si trattava solo di propaganda tedesca in favore dell’egemonia germanica sull’intero continente, fino ad aderire alle Waffen SS, ossia ai corpi di volontari non tedeschi che venivano arruolati al servizio della Germania. È incredibile che un cattolico come Degrelle, non sentì contradditorio farsi decorare da Hitler e nel sentirsi dire da lui «se avessi avuto un figlio avrei voluto che fosse come lei». È quanto accade quando l’ideologia prende il posto della fede, benché mediante la suadente apparenza di soluzioni politiche ed economiche, come quelle del corporativismo fascista su basi immanentiste, solo esteriormente e superficialmente compatibili con la Dottrina Sociale Cattolica se non emendate e depurate dalla loro radice filosofica spuria. La mano tesa da De Man anche verso il Cattolicesimo sociale belga ed il rexismo ci fa comprendere quale altra storia avrebbe potuto avere l’Europa, negli anni Trenta, se non fosse intervenuto il neopaganesimo nazista a sconvolgere ogni possibile intesa tra culture politiche diverse sulla via – ma ci sarebbe voluto ben altro che una mera convergenza politica – di una società rifondata, certo, sulla solidarietà sociale e nazionale ma alla Luce della Trascendenza.

Sternhell definisce il pianismo del De Man un «socialismo senza proletariato»: «Il Piano De Man – egli scrive – viene adottato, tra un entusiasmo generale e praticamente all’unanimità, al Congresso di Natale 1933 del Partito Operaio Belga. Precedentemente le tesi del pianismo erano state dibattute in Germania dalla sezione di Amburgo, che doveva presentarle, nel marzo 1933, al Congresso della SPD (il Partito socialdemocratico tedesco, nda). Se non fosse stato per la disfatta della socialdemocrazia tedesca, il nuovo programma sarebbe stato quindi subito portato davanti al più prestigioso dei partiti socialisti. Dopo la conquista del potere da parte dei nazisti, De Man rientra in Belgio. Nella primavera del 1933, egli è direttore dell’Ufficio di studi sociali incaricato dell’elaborazione del Piano. (…) il primo passo è combattere la disoccupazione – e il sotto consumo che ne consegue – che De Man considera come la causa essenziale della crisi. Per questo l’idea centrale del Piano è di creare una economia diretta verso un regime che permetta di uscire dalla crisi. Ma il piano potrà essere realizzato solo se ottiene l’adesione di una maggioranza, e non potrà mai funzionare bene, soprattutto nel quadro di un’economia mista, come quella prevista da De Man, senza l’appoggio di una maggioranza massiccia. Ora, una maggioranza si può ottenere solo con le classi medie: bisogna dunque riunire tutti gli strati sociali toccati dalla crisi, offrire l’alleanza alle ‘classi medie proletarizzate’ e così creare le condizioni di adesione ‘delle forze anticapitaliste e non operaie’. Questa alleanza della classe operaia con gli strati sociali non operai è quella delle vittime del ‘capitale finanziario’: del proletariato, ma anche ‘delle classi medie in rivolta contro l’ipercapitalismo delle grandi banche’. L’uso della nozione di ‘ipercapitalismo’ è molto caratteristico. Si tratta infatti di una parola-codice in uso presso tutti coloro che preconizzano all’epoca una grande riunione di tutte le vittime della crisi – innanzitutto i fascisti di Rex – (…). L’assalto… è rivolto … contro il grande capitale, l’alta banca, i grandi signori della finanza contro i quali si battono, dalla fine del XIX secolo, tutti i critici dell’ordine borghese, tutti coloro che, sull’esempio di Henri De Man, trovano irresponsabile l’atmosfera della società borghese (…). Per costituire la grande coalizione ‘anticapitalista’ che auspica, De Man si rivolge, nella migliore tradizione del socialismo nazionale, ‘agli uomini di buona volontà, agli uomini sinceri’ venuti da qualsiasi parte, compreso ‘dai partiti che sono attualmente nostri avversari’. In effetti, il Piano permette di dare soddisfazione a tutti, ed ha qualcosa da proporre a tutti. Ai liberali che hanno constatato i limiti che l’evoluzione capitalista di per sé impone alla fioritura della libera concorrenza, De Man propone il Piano come una sintesi dell’iniziativa privata e della libertà personale, da un lato, e della solidarietà sociale, dall’altro. Chiedendo ai cattolici e ai democratici cristiani di aderire al Piano, il leader socialista non fa che chiedere loro di prendere sul serio le encicliche papali, e di eseguirne il programma. Lo stesso succede con ‘tutto ciò che c’è di pulito’ tra i comunisti, cui De Man (chiede di aderire)… perché il Piano costituisce… il solo mezzo capace di impedire la formazione di un blocco di classi non operaie diretto contro la classe operaia (…). (Henri De Man si mostra instancabile nel perorare le sue idee per far comprendere che)… l’orientamento del Piano verso il riassorbimento della disoccupazione è nell’interesse di tutti, che è il solo modo per evitare il male che mina l’economia nazionale nel suo insieme. Restringendo il mercato e creando il sotto-consumo cronico, la disoccupazione è la causa più profonda del marasma economico. Il Piano parte dunque dall’idea che, invece di rassegnarsi a subire la crisi, bisogna elaborare un programma d’azione governativo. A questo scopo, il Piano preconizza essenzialmente l’instaurazione di un regime di economia mista diretta, la nazionalizzazione del credito e delle industrie di base già monopolizzate e, nel campo politico, una riforma dello Stato e del regime parlamentare, al fine di creare ‘le basi di una vera democrazia economica e sociale’. L’obiettivo immediato è di riassorbire la disoccupazione, di rovesciare la congiuntura, di mettere fine alla politica di deflazione che favoriva solo le banche di credito e di sostituirla con una politica di denaro più abbondante e di credito a miglior mercato» (11).

Ora, è innegabile che quanto Henri De Man andava auspicando, nel Belgio degli anni ‘30, fosse in corso di concreta realizzazione, negli stessi anni, non solo nell’America di Roosevelt ma anche nell’Italia di Mussolini, la quale con l’IRI impiantava lo Stato imprenditore, l’economia mista e lo Stato sociale che sarebbero sopravissuti alla guerra e, nonostante il cambio di regime, avrebbero trovato ulteriore sviluppo nel dopoguerra. Si pensi, solo per fare alcuni esempi, all’ENI di Enrico Mattei che fu uno sviluppo dell’Agip fascista oppure alla continuità ideale tra il corporativismo fascista e quella sorta di sua democratizzazione (del resto già auspicata da fascisti di sinistra come Giuseppe Bottai che tentò, per i sindacati del regime, la via della rappresentatività elettiva dal basso per superare il sistema, previsto dalla normativa dell’epoca, delle nomine ministeriali dall’alto) prefigurata dall’articolo 39 della Costituzione del 1946, mai poi attuato, il quale per assicurare, anche nel nuovo clima di libertà sindacale, l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, una conquista, appunto, del corporativismo fascista, ne impone la stipula da parte di «rappresentanze unitarie» sindacali e datoriali, o ancora alla continuità ideale tra la cogestione aziendale e la partecipazione operaia agli utili aziendali auspicati dal programma del primo fascismo del 1919 e dai 18 punti di Verona del fascismo repubblicano di Salò e la previsione dell’articolo 46 della Costituzione vigente, anch’esso però mai finora attuato, il quale prefigura, sulla scorta degli auspici del Cattolicesimo sociale ma anche della cultura politica azionista, ossia liberal-socialista, la partecipazione dei lavoratori alla gestione ed agli utili delle aziende.

Se, come è stato storiograficamente accertato, il fascismo di sinistra, almeno in parte, è trasmigrato nel dopoguerra, con l’intenzione di continuare la stessa battaglia anticapitalista iniziata dagli anni ‘30, nelle fila del PCI, è possibile anche dimostrare che le strutture dello Stato sociale, imprenditore ed interventista in economia – dunque non solo regolatore –, le cui basi furono saldamente poste negli anni del regime fascista, sono passate, indenni, per essere ulteriormente sviluppate, al regime repubblicano, a guida prevalentemente democratico-cristiana, fino a quando, a partire dagli anni ‘80, con la rivoluzione neoconservatrice e neoliberista inaugurata da Ronald Reagan e da Margaret Thatcher, iniziò l’attuale fase di indietreggiamento dello Stato dal campo economico con l’avvio dei processi delle grandi e piccole privatizzazioni favorevoli al transnazionalismo del capitalismo finanziario globale. Un processo di destatualizzazione e di finanziarizzazione dell’economia che iniziato nel mondo anglosassone anglo-americano, e successivamente fatto proprio dalla Germania liberal-nazional-conservatrice del dopo riunificazione, con la complicità della socialdemocrazia riformata di Schröeder (molto simile al neolaburismo di Tony Blair ed all’Ulivo di Romano Prodi), giunge ora ad imporsi, per mezzo dell’euro, della crisi dei debiti sovrani e del commissariamento dei governi da parte delle grandi banche d’affari, stile il governo Monti-Napolitano, anche ai Paesi euromediterranei, Italia in primis, finora, nonostante la stagione delle privatizzazioni degli anni ‘90, ancora refrattari all’abdicazione totale al neoliberismo globalista.

Facciamo anticipazione di un nostro giudizio sulle vicende che stiamo narrando, relative alla storia contemporanea. In ultima istanza – questo vale per tutto il pensiero filosofico e politico-economico dei secoli XIX e XX, vale cioè tanto per il marxismo come per il fascismo ma anche per il liberalismo ed il liberismo – la pretesa umana di autosufficienza, la pretesa di governare la storia ed il mondo e di eliminare l’ingiustizia dalla faccia della terra, al di fuori o senza o ripudiando l’Alleanza con il Dio della Rivelazione biblica incarnatosi in Gesù Cristo, è pura e tragica utopia destinata al fallimento. La strutturale vocazione umana alla Trascendenza, non toglie, tuttavia, all’uomo lo sprone ed il dovere, anzi ne costituisce, come la vicenda umana ha nei secoli dimostrato, il vero ed unico fondamento, della ricerca della via per la realizzazione, che in definitiva sarà solo post-storica e post-mondana, della Giustizia, via che è Cristo, nella convinzione che tale sforzo, unito alla Grazia, causa della trasformazione ontologica del cuore umano da cui ogni trasformazione anche sociale deriva, deciderà della nostra sorte personale ed universale, anche qui nel mondo.

Il crocevia della sinistra neokeynesiana tra nazione, globalizzazione e populismi

La sinistra neokeynesiana odierna si trova, oggi, in un evidente imbarazzo, con difficoltà celato. Un imbarazzo che potrebbe benissimo risparmiarsi se, con approfondimento delle conoscenze storico-filosofiche, accettasse la stretta parentela ideale che la lega ai percorsi del socialismo nazionale europeo tra le due guerra, fatta eccezione – questo deve essere ripetutamente e fortemente ribadito – per le derive tribaliste, razziali, neopagane che talune correnti di esso, ad iniziare dal nazismo (aveva positivisticamente una concezione biologica, da allevamento bovino, dell’uomo) hanno a suo tempo manifestato corrompendo l’intero edificio e impedendo qualsiasi sviluppo in un senso alto indirizzato al recupero, mediante l’identità nazionale, delle vie verso la Trascendenza.

Emiliano Brancaccio, docente di economia all’Università del Sannio, in margine ad un convegno sulla cosiddetta Modern Money Theory (MMT), un indirizzo economico di stampo neokeynesiano, ha avuto modo di evidenziare la tendenza che oggi si va facendo palese verso forme di neo-protezionismo, proponendo oltretutto un «pacchetto» di rivendicazioni da porre sul tavolo delle trattative da parte dei Paesi euromediterranei nei confronti di quelli dell’Europa del Nord approfittando del vero timore, appena sussurrato, che disturba il sonno delle eurocrazie e dei tecnocrati di area tedesca. Brancaccio è un economista di sinistra eppure in molte cose finisce per convergere con analoghe critiche al liberoscambismo a suo tempo, negli anni ‘90, avanzate su Le Monde da Maurice Allais che era di formazione liberal-sociale.

Ma sentiamo direttamente Brancaccio, in occasione di un suo illuminante intervento su luci e ombre della Modern Money Theory, la moderna teoria neokeynesiana del denaro, i cui sostenitori non hanno alcuna consapevolezza dei richiami poundiani in essa presenti, perché non conoscono nulla del fugace, ma decisivo per il secondo, incontro tra Ezra Pound e Keynes.

«In un interessante documento – scrive Brancaccio – a supporto della teoria monetaria moderna, leggo che ‘nell’economia reale le importazioni sono un beneficio, mentre le esportazioni sono un costo’ (Mosler et al. 2012). Ora, intendiamoci bene: se questo vuole essere un modo per criticare l’odierno assetto capitalistico mondiale, che induce interi Paesi a deflazionare l’economia e a creare disoccupazione interna nello strenuo tentativo di gareggiare sui mercati internazionali, io apprezzo le buone intenzioni. Al tempo stesso, però, credo che questa modalità di avanzare la critica all’assetto vigente sia potenzialmente fuorviante. Sotto questo aspetto, c’è un punto della teoria monetaria moderna che appare ancora opaco... : si tratta dei rapporti che un Paese sovrano ha con il resto del mondo, che vengono sinteticamente espressi proprio dall’andamento delle importazioni e delle esportazioni, e più in generale della bilancia dei pagamenti verso l’estero (…) uno dei più autorevoli esponenti della teoria monetaria moderna sembra suggerire che la soluzione chiave per gestire i problemi di bilancia dei pagamenti risiede in un tasso di cambio flessibile (Wray 1998) (…). L’obiettivo principale della MMT è di fare in modo che un Paese sovrano usi il finanziamento monetario della spesa pubblica per rendere praticabile l’attuazione di un programma nazionale per la piena occupazione. Alcuni esponenti della MMT parlano in questo senso dello Stato come ‘occupatore di ultima istanza’ (Wray, citato), proponendo così una feconda parafrasi del concetto di ‘prestatore di ultima istanza’ di Bagehot (…)» (12).

Qui si spiega che, nonostante le ottime intenzioni della MMT di elaborare supporti scientifici per politiche di piena occupazione mediante la spesa pubblica, resta un punto cruciale da chiarire ossia la questione della sovranità monetaria in riferimento alla bilancia dei pagamenti e quindi al rapporto di cambio tra monete nazionali diverse che, se non equilibrato e regolato, ma lasciato libero e soggetto solo alla legge di mercato, finisce per creare condizioni vantaggiose solo per le monete in posizione egemonica. Infatti, la scuola della MMT essendo americana non affronta il problema del cambio tra le monete negli scambi commerciali tra nazioni e questa deficienza tematica è dovuta al punto di vista americano, ossia di chi emette certamente una moneta nazionale sovrana, con cui mediante la spesa pubblica stimolare l’economia verso il tendenziale pieno impiego, senza tener conto che la sua moneta è anche la moneta principe per gli scambi internazionali, sicché la altre nazioni, rispetto all’export ed all’import di merci dall’estero, si trovano comunque nella condizione di Stati senza sovranità monetaria, dovendo, per gli scambi internazionali, approvvigionarsi di dollari, ossia di una moneta estera che essi non emettono e non controllano, neanche per quanto riguarda i tassi di cambio. La risposta dei fautori della MMT, dice Brancaccio, che sono favorevoli, liberisticamente, alla flessibilità del cambio non è una risposta coerente con l’impostazione neokeynesiana della teoria. Sembra quasi che la scuola della MMT pensi un po’ troppo solo avendo presente la realtà interna americana. In effetti, la teoria non fa una piega per gli Stati Uniti che sono un Paese a moneta nazionale ad un tempo sovrana ed egemone negli scambi internazionali. Ma non risolverebbe del tutto i problemi verso l’estero degli altri Paesi.

«L’idea preliminare della MMT – continua Brancaccio –, di finanziare con moneta la spesa pubblica, è a mio avviso corretta e condivisibile. Tuttavia, è necessario soffermarsi sul fatto che tale politica farebbe aumentare anche le importazioni dall’estero. Ed è difficilmente contestabile che tale aumento delle importazioni potrebbe creare problemi rilevanti alla bilancia dei pagamenti e, più in generale, all’intera struttura del sistema produttivo nazionale. Problemi che vanno ben al di là delle scelte intorno alla mera gestione del tasso di cambio e alla stessa sovranità monetaria. Gli italiani, i latino americani, gli stessi britannici, sanno benissimo, per esperienza diretta, che i problemi di bilancia dei pagamenti non possono essere gestiti tramite la mera dinamica del cambio. Anzi, dal punto di vista del nesso tra bilancia dei pagamenti e sovranità, al pari e anche più rapidamente della deflazione interna, un cambio flessibile può ridurre il valore dei capitali nazionali, può quindi esporre a facili acquisizioni estere e può dunque diminuire, anziché aumentare, il grado di sovranità. Ecco perché in passato, in Italia, in America Latina e in Gran Bretagna, anche in periodi di fluttuazione dei cambi, venivano evocati e talvolta venivano anche realizzati dei programmi detti di ‘sostituzione delle importazioni’: cioè dei programmi più o meno protezionistici, di limitazione dei movimenti di capitali, di disciplinamento degli investimenti esteri e, laddove necessario, di controllo dei movimenti di merci. Verrebbe a questo punto da chiedersi per quale motivo alcuni esponenti statunitensi della MMT tendano a sottovalutare questi problemi, e talvolta arrivano per questa via a giudicare in termini acriticamente ottimistici gli stessi investimenti diretti esteri. Questo in un certo senso è un paradosso, se si considera che il finanziamento monetario della spesa pubblica è stato adoperato, in molti casi storici, proprio per scongiurare la perdita di sovranità che può derivare dalle acquisizioni estere. In una fase in cui il tema dell’inserimento di capitali esteri negli assetti proprietari e di controllo sembra travalicare l’ambito degli ultimi asset strategici in mano pubblica e arriva a lambire persino il sistema bancario, sarebbe bene fare molta più chiarezza, su questo punto (…)» (13).

In sostanza non ci si può affidare allo spontaneismo del cambio libero e flessibile ma è necessaria una politica protezionista che controlli i movimenti di capitali e delle merci e disciplini gli investimenti esteri sul territorio nazionale.

«Ciò che conta stabilire immediatamente, in questa sede, – spiega ancora Brancaccio – è che la teoria e la storia ci dicono che se davvero si vuol ripristinare un certo grado di sovranità – e a fortiori di sovranità democratica – allora la bilancia dei pagamenti verso l’estero diventa una variabile cruciale. Ed è opportuno aggiungere che per controllare questa variabile… o si attua un coordinamento internazionale tra Paesi oppure si attuano forme più o meno stringenti di protezionismo finanziario e commerciale oppure ancora si realizza una combinazione tra le due opzioni. Le scelte sui cambi fanno senz’altro parte del problema ma di certo non lo esauriscono, né possono esser considerate l’aspetto decisivo» (14).

Dunque o si realizza un coordinamento tra – attenzione! – nazioni sovrane, che si accordano nelle loro politiche monetarie ed economiche mediante trattati internazionali tra soggetti giuridici alla pari, oppure è necessaria la politica protezionista. La prima opzione non è comunque una abdicazione di sovranità nazionale a favore di organismi tecnocratici, tipo BCE e Commissione Europea, ma nient’altro – facciamo rilevare noi – che la continuazione della realtà gius-internazionale nata a Westfalia o, al massimo, corrisponde ad una opzione confederale, la gollista «Europa delle Patrie», più che federale (gli Stati Uniti d’Europa). Dal punto di vista cattolico, la realtà nazionale è elemento imprescindibile di diritto di natura, non comprimibile, mentre la pace tra i popoli, che deve sempre essere invocata come un dono dal Signore piuttosto che essere pensata come una costruzione esclusivamente umana, deve essere assicurata mediante la diplomazia ispirata a criteri non di potenza e di rispetto reciproco. Tale concezione, con tutta evidenza, non è pensabile in un mondo globalizzato e privo di Stati nazionali.

«E qui – scrive ancora Brancaccio – veniamo alla questione politica fondamentale. È la questione della scelta tra una strategia di profonda revisione del palinsesto della moneta unica e del mercato unico europeo da un lato, e una strategia alternativa, che sia basata non soltanto sullo sganciamento dalla moneta unica ma anche, se necessario, su una segmentazione del mercato unico europeo. In Italia e altrove, come voi sapete, si stanno formando due fronti, su questo tema (…). Ebbene, in un libro recente abbiamo provato a suggerire una via dialettica per cercare di affrontare questo decisivo snodo politico (Brancaccio e Passarella, 2012). La nostra proposta parte da una serie di evidenze, che provo qui ad esporre in estrema sintesi. Osserviamo in primo luogo che la ‘mezzogiornificazione’ europea ha fatto registrare una forte accelerazione a seguito della crisi economica. I portatori degli interessi prevalenti, in Germania e nei Paesi ‘centrali’ dell’Unione, traggono grandi vantaggi, relativi e assoluti, da questo processo. La crisi ovviamente colpisce anche tali Paesi, ma in termini comparati il suo impatto su di essi è più modesto, il che accresce la forbice rispetto alle aree ‘periferiche’ dell’Unione. Basti guardare allo spread, non solo tra i tassi d’interesse ma anche tra le bancarotte aziendali e, soprattutto, tra i livelli di occupazione: dal 2007 al 2012 i Paesi del Sud Europa hanno perso quasi quattro milioni di posti di lavoro, mentre la Germania ha addirittura accresciuto l’occupazione di circa un milione e mezzo di unità. Ma c’è di più: la miscela di mezzogiornificazione e crisi, in ultima istanza, implica ‘centralizzazione’ dei capitali nel senso di Marx e di Hilferding (2011). Rilevo, a questo proposito, che a seguito della crisi gli indici azionari della Germania da un lato, e dei Paesi del Sud Europa dall’altro, si sono chiaramente divaricati. La forbice, si badi bene, in termini relativi caratterizza anche il settore bancario. Questo aumento generalizzato della varianza dei valori azionari contribuisce a spiegare perché il rapporto tra investimenti diretti esteri netti e formazione lorda di capitale fisso della Germania verso l’Italia sia mutato di segno a cavallo del 2008-2009. Mentre nei primi anni dell’euro i proprietari tedeschi sono risultati venditori netti di capitale, dopo la crisi essi hanno nuovamente assunto il ruolo storico di acquirenti netti. I dati insomma segnalano che siamo al cospetto di una tremenda accelerazione del processo di centralizzazione dei capitali e di ‘egemonizzazione’ tedesca dell’Unione Europea» (15).

In altri termini, l’euro si è rilevato uno strumento dell’egemonia dei capitali finanziari tedeschi, ed in parte francesi, che ha provocato, da un lato un processo di concentrazione capitalista verso il Centro ed il Nord dell’Europa e dall’altro un processo, dopo l’euforia della bolla, di impoverimento verso il Sud dell’Eurozona. Centralizzazione e «mezzogiornificazione»: si sta ripetendo a livello europeo quanto è avvenuto a livello nazionale, in Italia, a seguito della mala unificazione del 1861, quando, all’improvviso, il Sud italiano è stato privato della sua moneta sovrana, esposto alla colonizzazione dei capitali lombardo-piemontesi, ed impedito in qualsiasi politica protezionista a tutela del proprio capitale e del proprio lavoro. Tuttavia questi processi di aggressione economica, nella storia, non hanno mai alla lunga funzionato e si sono rivelati forieri di conflitti e tensioni, a volte sfociati in tragedie belliche. E, come di seguito ci spiega ancora Brancaccio, sembra proprio che l’élite tecnocratica europea e quella liberal-conservatrice tedesca e nordica ne siano perfettamente coscienti, tanto da temere un risveglio dei popoli euro mediterranei che imponga loro una riforma dei trattati europei con il «ricatto» dell’uscita dall’euro. Brancaccio, e noi con lui, auspica proprio che gli Stati euromediterranei, in un moto di orgoglio nazionale (che purtroppo non sarà possibile fino a che la sinistra continuerà a credere in questa Europa e fino a che personaggi nefasti come Mario Monti calcheranno la scena italiana), pongano sul tavolo delle trattative con i partner dell’Europa del Nord questa opzione: o riforma profonda dell’UE e dell’eurozona oppure uscita dall’euro e ritorno a politiche protezioniste nazionali che sarebbero disastrose per la Germania che vive di esportazioni verso i Paesi del mediterraneo europeo.

«Un processo che ovviamente genera contraddizioni e conflitti – è ancora Brancaccio che spiega –, che a un certo punto potrebbero rivelarsi ingestibili. A tale riguardo, i portatori degli interessi prevalenti in Germania sanno che l’allargamento dei divari economici e i connessi meccanismi di centralizzazione dei capitali potrebbero a un certo punto rivelarsi politicamente insostenibili per le nazioni periferiche. Questi fenomeni dunque accrescono la probabilità di una deflagrazione della moneta unica europea. È interessante notare, sotto questo aspetto, che ai vertici delle istituzioni tedesche sembra piuttosto diffuso lo scetticismo intorno alla reale efficacia della strategia di riequilibrio deflazionistico a carico dei soli Paesi debitori che viene perseguita dalla Banca Centrale Europea. In effetti, benché gli ultimi dati sugli spread e sulle bilance commerciali sembrano suscitare nuove onde di speranza tra le file degli ottimisti (confronta Congiuntura Ref. 2012), allo stato dei fatti ritengo ancora, con molti altri, che siano numerose le ragioni per nutrire forti dubbi sulla tenuta futura dell’eurozona (confronta ad esempio le posizioni di Stiglitz e dello stesso Krugman; tra gli italiani fu Graziani uno dei primi a dubitare della sostenibilità della zona euro; più di recente, confronta ad esempio Bagnai, 2012…; confronta anche la mia risposta a Barba Navaretti sul Sole 24 Ore, in Brancaccio 2012a). Sarà forse la memoria del fallimento delle politiche di Bruning, o magari un sussulto di ‘cattiva coscienza’ politica, ma in Germania sembrano in effetti più consapevoli di noi della difficoltà di aggiustare gli squilibri intra-europei a colpi di deflazione nei Paesi debitori. Ecco perché le autorità tedesche non nascondono di attendersi una crescita delle tensioni politiche future, e una ulteriore accentuazione della fragilità dell’eurozona. Non è un caso, del resto, che abbiano messo in conto prima di tutti l’eventualità di una sua deflagrazione. La forza dei tedeschi, ai tavoli delle trattative europee, deriva anche da questa capacità di anticipazione degli eventi. È evidente cioè che essi sono già pronti a sostenere i costi di una implosione della moneta unica, anche perché dal tracollo potrebbero trarre persino dei vantaggi ulteriori: infatti, come abbiamo cercato di mostrare, il solo mutamento dei rapporti di cambio tra le valute non frenerebbe il processo di centralizzazione in atto, ma anzi potrebbe addirittura intensificarlo (Brancaccio e Fontana, 2011). L’unica vera paura che agita i portatori degli interessi prevalenti in Germania è che una eventuale crisi della moneta unica sia accompagnata anche da una crisi del mercato unico europeo. Essi cioè temono che i paesi periferici siano a un certo punto tentati dall’adozione di soluzioni di tipo ‘neo-protezionistico’, sui mercati finanziari ed anche sui mercati delle merci. In Germania discutono animatamente di questo pericolo, poiché sanno che il processo di egemonizzazione tedesca dell’Unione Europea subirebbe una pesante battuta d’arresto se venisse messa in discussione la libera circolazione dei flussi finanziari e delle merci. Il dibattito interno alle associazioni imprenditoriali, in Germania, ci pare emblematico in questo senso (confronta ancora Brancaccio e Passarella, citato)».

Alla luce di questa paura tedesca, ecco dunque la proposta politica di Brancaccio, che se esistessero ancora una vera destra sociale ed una vera sinistra nazionale sarebbe immediatamente accolta.

«Una volta che si tenga conto di tutti questi elementi, diventa a nostro avviso ragionevole tentare di tratteggiare una linea d’azione politica. La nostra proposta, in questo senso, si dispiega lungo due traiettorie interconnesse, e può essere sintetizzata nei seguenti termini. Da un lato, ai tavoli delle trattative europee, le autorità italiane e degli altri Paesi periferici dell’Unione dovrebbero riunirsi intorno a un progetto organico di riforma dell’Unione Monetaria Europea, che si proponga di affrontare alla radice, in termini strutturali e non assistenzialistici, gli squilibri tra le economie del continente. I contributi alla definizione di un piano sostenibile di riforma, in questo senso, sono già numerosi (confronta per esempio il Manifesto per l’Europa del Sole 24 Ore, nonché la www.letteradeglieconomisti.it del 2010; si veda anche la proposta di ‘standard retributivo europeo’, in Brancaccio, 2012b). Dall’altro lato… è indispensabile che le autorità di quegli stessi Paesi dichiarino esplicitamente che, se in Europa non dovesse farsi largo una generale volontà riformatrice nel senso indicato, il rischio che esse reagiscano non solo con una uscita dall’euro ma anche con una svolta di tipo neo-protezionista, dovrà ritenersi concreto. Questa, a nostro avviso, è l’unica carta politica di cui i Paesi periferici realmente dispongono oggi in sede europea. Tale strategia, si badi bene, è valida in ogni caso: sia per indurre le autorità tedesche a riconsiderare l’entità dei costi di una eventuale deflagrazione, e quindi a non ostacolare una eventuale riforma dell’Unione, sia eventualmente per far sì che i Paesi periferici si attrezzino al meglio per uscire da un’eurozona eventualmente irriformabile. Per inciso, segnalo pure che una strategia di gestione del break-up che ammettesse anche la possibilità di limitazioni del Mercato Unico Europeo potrebbe avere – per usare un termine antico ma tutt’altro che desueto – una precisa connotazione ‘di classe’, poiché a date condizioni consentirebbe di salvaguardare maggiormente gli interessi dei lavoratori subordinati» (16).

Brancaccio, quindi, chiarisce che è diventata oggi più che mai necessaria una seria critica al liberoscambismo europeo e che la discussione su questo argomento è ormai aperta e sembra investire persino l’area della scuola economica liberale. Qui, il nostro docente neokeynesiano si incontra con le analoghe critiche che un Maurice Allais, di formazione «austriaca» ossia «hayekiana» che però nel corso delle sua vita ha ampiamente riveduto le sue originarie posizioni nel senso di un liberalismo sociale che lo hanno avvicinato al socialismo liberale (un po’ come Giulio Tremonti), faceva alla fine degli anni ‘90, su Le Monde, all’imminente creazione dell’eurozona e quindi al rafforzamento del liberoscambismo intra-europeo ed extra-europeo. Infatti Maurice Allais sosteneva che il libero scambio non può avvenire se non tra nazioni simili per standard economico-sociali e che laddove, come si proponevano l’UE ed il WTO, si voglia abbattere indiscriminatamente ogni protezionismo doganale non si ottiene altro che la libertà del capitale, in particolare di quello finanziario, di emanciparsi da ogni etico condizionamento nazionale e sociale, con il conseguente impoverimento dei Paesi ricchi e la dipendenza neocoloniale dei Paesi poveri dai capitali volatili che, lungi dall’assicurarne lo sviluppo, li costringono a mantenere inalterate le condizioni schiavistiche del lavoro, le quali sole possono attirare i capitali posti in libera fuoriuscita dall’occidente del pesante Welfare.

«Beninteso – annota Brancaccio –, sappiamo tutti che fino ad oggi le autorità italiane e degli altri Paesi periferici hanno agito in direzione esattamente opposta a quella che ho cercato qui di tratteggiare. Basti notare che negli ultimi mesi le redini degli esecutivi dei Paesi periferici dell’eurozona sono state affidate ad alcuni tra i più risoluti fautori del liberoscambismo europeo. Sotto questo aspetto Mario Monti rappresenta l’antitesi ideale di una opzione neo-protezionista: egli mai si sognerebbe di evocarla in sede di trattativa, nemmeno di fronte alla prospettiva di una depressione di lungo periodo; e forse nemmeno di fronte a un assorbimento delle banche nazionali ad opera di capitali esteri. In questo senso, potremmo dire che il professor Monti incarna una clausola di salvaguardia non solo e non tanto della moneta unica, ma anche e soprattutto del Mercato Unico Europeo. Il mondo però si muove, e la crisi avanza in fretta. Vale la pena di ricordare che la stessa Commissione Europea ravvisa numerosi sintomi di revisione della politica del libero scambio già in varie parti del mondo (EU Commission, 2012). Inoltre, è interessante notare che anche all’interno del mainstream svariati studiosi, tra cui Dani Rodrik (2011), hanno avviato una critica all’ideologia liberoscambista. Il messaggio di fondo di questa nota è dunque il seguente: ci sono buoni motivi per ritenere che alle numerose critiche alla perdita di sovranità sulla moneta sia giunto il tempo di affiancare anche una critica più generale al liberoscambismo europeo» (17).

Ora, però, in conclusione, i nodi filosofici e trans-politici vengono al pettine della sinistra neokeynesiana proprio laddove essa, mentre guarda all’ipotesi del neo-protezionismo come al rimedio per l’uscita dalla globalizzazione monetarista e come salvaguardia degli interessi dei lavoratori, è costretta a fare i conti ed a prendere atto della «concorrenza» che su questo terreno essa patisce da parte dei movimenti populisti di cui aborre, a ragione, il possibile latente razzismo xenofobo, senza però domandarsi, per carenza di conoscenze storiografiche, se questo pericolo sia essenziale al sentire populista o popolare o invece non ne sia piuttosto una degenerazione. Una degenerazione che soltanto una riforma filosofica nel senso di una ferma apertura alla Trascendenza può evitare, come nell’Italia degli anni ‘30 – lo vedremo – sembrò quasi sul punto di verificarsi. Lo stesso Brancaccio, proprio mentre mette in rilievo l’ideologia globalista di Mario Monti quale elemento di garanzia delle eurocrazie monetariste, rimane tuttavia inchiodato nella sua chiusura dogmatica al populismo confermata dalla convinzione, storiograficamente obsoleta e falsa, del «fascismo come reazione».

«Naturalmente, questo cruciale interrogativo dovrebbe porsi in ambito non solo scientifico ma anche e soprattutto politico. Per esempio, tutti i partiti eredi più o meno diretti della tradizione del movimento dei lavoratori dovrebbero prender coscienza che il liberoscambismo, in particolare il liberoscambismo di sinistra, è una ideologia perniciosa che deve essere sottoposta a critica e abbandonata. Il rischio maggiore, invece, è che tali forze politiche scelgano di restare arroccate a tutti i costi in difesa dell’euro e del Mercato Unico Europeo (Brancaccio, Bragantini, Pianta, 2012). Così facendo, tuttavia, esse lasceranno praterie sempre più vaste di potenziali consensi nelle mani di forme nuove di nazionalismo ideologico, e al limite di nuove formulazioni della triade di suolo, sangue e razza. Con il tracollo del Pasok e l’ascesa di Alba Dorata, e con le incertezze della stessa Syriza sull’euro, la Grecia costituisce in questo senso l’immagine più nitida di un possibile futuro europeo che tanti aborriscono ma che pochi, in questo momento, si preoccupano di scongiurare. Occorrerà lavorare molto, io credo, affinché l’Europa non si tramuti entro qualche anno in un laboratorio sociale in cui magari verificare, questa volta, che la tesi storiografica del fascismo quale mera ‘reazione’ era sbagliata, e che aggregazioni di stampo neofascista possono in realtà espandersi anche nell’assenza totale di movimenti rivoluzionari di matrice comunista» (18).

Come è evidente Brancaccio chiude con il solito grido d’allarme sul pericolo fascista e populista. Lo stesso che non manca occasione di lanciare anche Mario Monti. Sicché questa convergenza con Monti dovrebbe mettere in imbarazzo Emiliano Brancaccio. Un imbarazzo dal quale solo un approfondimento filosofico e storiografico potrebbe toglierlo.

E tuttavia nella proposta politica che Brancaccio avanza è iscritta, che lui lo voglia o meno, esattamente quel «fascismo» che pur teme. Questo perché il fascismo, ossia il socialismo nazionale, non è mai stato una «reazione di classe» neanche quando c’erano i movimenti comunisti. Il fascismo, come hanno spiegato Zeev Sternhell, Renzo De Felice e tanti altri storici, nasce a sinistra e conserva i propri tratti d’origine anche nella fasi di «compromesso» con la destra fiancheggiatrice.

Dal momento che il liberismo, con le sue iniquità, rende inevitabilmente fertile il terreno per il populismo, il problema, piuttosto, è capire come, nell’eventualità di una prossima insorgenza populista, sia possibile neutralizzare ed eliminare la «triade suolo, sangue e razza» senza respingere anche il protezionismo sociale e nazionale e le politiche di intervento pubblico nell’economia che, sulla scorta di quanto fecero i fascismi storici (e di quanto fanno anche quelli odierni come nella Russia di Putin), potrebbero riproporre i nuovi movimenti populisti.

Ma per questo, come si è detto, bisogna prima risolvere la questione del quadro, tribale o statuale, nel quale i nuovi populismi cercheranno di inserirsi. Personalmente non vediamo grandi possibilità per una rivitalizzazione del contesto statuale – l’età postmoderna è intrisa di antistatualismo ed ogni polemica contro ciò che è pubblico non fa che portare acqua a questo mulino – sicché di fronte alla prospettiva dell’«triade», ossia se i populismi non si depureranno non solo dal latente razzismo ma anche dall’antistatualismo spesso mascherato come antifiscalismo, prevarrà inevitabilmente il globalismo. Almeno fino a quando l’Inatteso, l’Imprevisto, non comparirà all’orizzonte del tempo sollevando il velo dell’Eterno.

Luigi Copertino

Parte 1
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Parte 3




1) Un caso particolare, che segnaliamo per il suo esito cattolico, fu quello di Charles Peguy, scrittore, intellettuale ed editore socialista (stupende le sue pagine dedicate all’«argent» – è il titolo di una sua opera straordinaria – nelle quali mette in rilievo, con toni molto simili a quelli di Ezra Pound in «Contro l’usura», il carattere antisociale ed antireligioso del dominio del denaro). Peguy era allievo di Henry Bergson. Quest’ultimo, francese di origini ebraiche, è stato il filosofo dell’«élan vital», maestro dello spiritualismo post-razionalista, non certo esente da ambiguità irrazionaliste, che tuttavia, oltre ad essere stato via di ritorno al Cattolicesimo per molti pensatori del tempo, fu sul punto di convertirsi alla fede cattolica. Non fece pubblicamente il passo perché, ebreo, disse di non poter abbandonare il suo popolo nel momento della persecuzione. Nel suo testamento, redatto nel 1937, il filosofo scrisse: «Le mie riflessioni mi hanno portato sempre più vicino al Cattolicesimo dove vedo l’inveramento completo dell’ebraismo. Mi sarei convertito se non avessi visto prepararsi da anni l’immane ondata d’antisemitismo che s’infrangerà sul mondo. Ho voluto restare fra quelli che saranno domani perseguitati». Per sua richiesta, tuttavia, fu un prete cattolico a recitare le preghiere al suo funerale. Ebbene, Charles Peguy, influenzato dal misticismo vitalista di Bergson, guardava al socialismo come ad un movimento, appunto, vitalista. Ecco perché il suo favore andava al socialismo popolare, quello che in Francia ebbe in Pierre-Joseph Proudhon il più noto rappresentante. Per questo, Peguy era del tutto alieno dal materialismo dialettico di scuola hegeliana e quindi era assolutamente estraneo da qualsiasi fascinazione per la filosofia marxista. C’è nella sua opera, anche quella precedente la conversione, un forte senso della comunità popolare, non esente da una certa nostalgia per le forme comunitarie premoderne e medioevali, ed una forte simpatia, che ha del religioso, verso il popolo minuto. Il suo socialismo, non esente da influssi umanitari sulla scia di Victor Hugo, appare quasi come una mistica di popolo ma, a differenza di quella mazziniana, non opposta alla identità cristiana del popolo, quello, nel caso di Peguy, francese. Nel 1905 scrive «Notre Patrie», in cui inizia a profilarsi, sulla scia di un certo contatto con le argomentazioni della «sinistra maurrasiana», la riconquista della Patria come fondamento dell’identità popolare autentica, in opposizione alle falsificazioni che di essa faceva certo nazionalismo borghese. Su questa strada, benché come detto in un modo assolutamente peculiare rispetto agli analoghi percorsi intellettuali di altri uomini di cultura dell’epoca, Peguy, accostandosi alla nazione come comunità popolare forgiata dall’identità religiosa, incontrò la fede cattolica. Nel 1907 dichiarò pubblicamente le sua adesione al Cattolicesimo che mantenne fino alla morte, avvenuta al fronte durante la Prima Guerra Mondiale. Le opere di Peguy, dopo la conversione, esprimono una spiritualità, non esente da un certo influsso bergsoniano, ma sono senza dubbio manifestazione di una autentica, ad un tempo sofferta e gioiosa, ricerca di Cristo.
2) Confronta Zeev Sternhell, «Né destra né sinistra – la nascita dell’ideologia fascista», Akropolis, Napoli, 1984, pagine 156-157. Non deve affatto meravigliare se gli studi migliori sul fascismo e le sua natura «socialista» provengano da autori ebrei, come lo Sternhell o il Mosse, o di ascendenze ebraiche e di cultura socialista, come Renzo De Felice. Sarà per il fatto che anche il sionismo potrebbe ascriversi al genere politico del «fascismo» o perché l’intelligenza non ha, come non ha, razza in quanto le razze non esistono, ma dobbiamo essere molto grati a questi storici per l’ampliamento che i loro studi hanno consentito sulla comprensione della genesi e dello sviluppo delle idee del socialismo nazionale novecentesco. È, comunque, sulle opere di questi autori, ed anche di altri valenti storici non vittime né dell’«antifascismo militante» né del «filo-fascismo acritico», che è necessario formarsi un’idea su cosa sia stato il fascismo e di quali istanze, nel bene e nel male, nei suoi lati luminosi come in quelli, che non sono affatto mancati, oscuri, si faceva portatore. Questo per sfuggire ai luoghi comuni di un tipo o dell’altro che si manifestano in certi giudizi affrettati e semplificatori dei quali l’ignoranza diffusa riempie quotidianamente i media, il web, e l’opinione pubblica. Ignoranza dalla quale, magari in senso contrario alla maggioranza, non sono affatto esenti neanche i «nostalgici» quando, anziché fare lo sforzo salutare di approfondire su testi seri certi temi o certi fenomeni storici, preferiscono continuare a rimuginare stereotipi di acritica venerazione, appunto, nostalgica.
3) Si tratta niente meno che di Bertrand de Jouvenel ossia di colui che, nel dopoguerra, sarà, in Francia, il maitre a penser della politologia liberale. Quando il libro di Sternhell, dal quale stiamo citando, uscì oltralpe, nel 1983, scatenando una furiosa polemica, come accadde negli anni ‘70 con i tesi di Renzo De Felice in Italia, Jouvenel, onestamente, intervenne pubblicamente per difendere lo storico israeliano rivendicando l’esattezza sostanziale della sua ricerca sulle origini e la natura socialista del fascismo, senza affatto nascondere la sua giovanile infatuazione per tale ideologia di «ricostruzione sociale e nazionale dell’economia».
4) Confronta Z. Sternhell, «Né destra né sinistra…», opera citata, pagine 157- 158.
5) Confronta Z. Sternhell «Né destra né sinistra …», opera citata, pagine 158 - 159.
6) Confronta Z. Sternhell, «Né destra né sinistra …», opera citata, p. 159. Si noti nel pensiero di Henri De Man laddove egli critica il riduzionismo economicista che fa dell’essere umano solo uno stomaco, insieme ad un certo sociologismo tecnocratico di ascendenze comtiane, anche un’apertura agli aspetti «spirituali» dell’uomo. Tuttavia, come vedremo, dietro questa apertura vi era, sì, una critica all’ineticità del capitalismo ma diretta verso la psicologia del profondo, secondo i cliché freudiani del tempo, e non invece volta verso l’Alto, verso la Trascendenza. Qui sta tutta la debolezza spirituale del «fascismo» che giocava, sulla scia della lezione di Gustave Le Bon, con la «psicologia delle folle» per atteggiarsi a religione politica sostitutiva dell’autentica Trascendenza e, quindi, in questo senso, «anticristica».
7) Il fatto che Charles Maurras si sia convertito alla fine della sua vita e che si stato, per questo, assolto dalla scomunica impartitagli dalla Chiesa, nulla toglie al debito comtiano del suo pensiero.
8) Confronta Z. Sternhell, «Né destra né sinistra», opera citata, pagine 160-161.
9) Confronta Z. Sternhell, «Né destra né sinistra…», opera citata, pagine 161-162.
10) Confronta Z. Sternhell, «Né destra né sinistra …», opera citata, pagine 162-163.
11) Confronta Z. Sternhell, «Né destra né sinistra …», opera citata, pagine 181- 184.
12) Confronta E. Brancaccio «Pregi e limiti della Modern Money Theory (MMT). Una critica costruttiva», in keynesblog del 5 dicembre 2012, Versione riveduta e ampliata dell’intervento audio di Emiliano Brancaccio alla conferenza «MMT Calabria Europa» del 30 novembre 2012 ora in www.emilianobrancaccio.it.
13) Confronta E. Brancaccio, citata.
14) Confronta E. Brancaccio, citata.
15) Confronta E. Brancaccio, citata.
16) Confronta E. Brancaccio, citata.
17) Confronta E. Brancaccio, citata.
18) Confronta E. Brancaccio, citata.


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