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L’aborto e lo scandalaloso «L’Osservatore Romano»
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Premesso che oggi, se uno non si chiama Israel, Foa, Tedeschi, Scaraffia, ecc., non ha più alcuna opportunità di scrivere sul quel supplemento romano del Jerusalem Post che è diventato l’Osservatore Romano, diretto dalla coppia di giro dei dilettanti allo sbaraglio Vian-Di Cicco (ancora per quanti mesi sarà consentito loro di ridicolizzare l’organo di informazione della Santa Sede con esilaranti articoli del tipo «L’extraterrestre mio fratello» e simili amenità?), desidero segnalare una notizia, per lo meno sconvolgente, che è passata del tutto inosservata e sotto silenzio, senza che si siano levate voci di denuncia e biasimo per quella che è una vera e propria follia, una vergogna, uno scandalo della ragione e della fede, l’abuso di un organo di informazione cattolico per diffondere posizioni contrarie al Magistero pontificio e alla Chiesa cattolica.

Mi riferisco al delirante e surreale articolo di Lucetta Scaraffia, «Aborto e società», pubblicato sull’Osservatore Romano il 22 maggio 2008, di spalla in prima pagina.
L’articolo si apre con un buffonesco prologo storico-sociologistico, che pretenderebbe di millantare un fondamento di seriosità accademica, il quale attribuisce alla Rivoluzione francese «l’introduzione di una severa legislazione per punire l’aborto sulla base di una concezione molto larga dei diritti dell’uomo, per cui anche il ‘feto’ era considerato un ‘cittadino’».

Parrebbe quasi una battuta, una presa in giro.
Il lettore non informato potrebbe credere che l’aborto abbia avuto la sua prima sanzione penale da parte dei quegli scalmanati della Rivoluzione francese, che consideravano il «feto» un «cittadino», in quanto avevano necessità di tasse pagate da singoli individui e soldati per gli eserciti nazionali.
In realtà, la nozione di «aborto», anche a livello di diritto e giurisprudenza, precede il secolo XVIII, ed è attestata, in ogni società, come negazione del diritto alla vita del nascituro e come crimine gravissimo, equiparabile, se non peggiore, dell’infanticidio.

A titolo esemplificativo, Scaraffia vada a studiarsi il diritto romano: la storia della giurisprudenza relativa all’aborto non ha inizio con la Rivoluzione francese, come ella dimostra di credere.
Il diritto romano difendeva la vita umana fin dal concepimento: si tratta di un principio proprio della giurisprudenza romana del tempo augusteo, codificato nel Digesto (opera che fa parte del Corpus iuris di Giustiniano del VI secolo dopo Cristo), secondo il quale il concepito già esiste come persona umana: nella terminologia della tradizione romanista, da Gaio (giurista del II secolo dopo Cristo) al Codice civile argentino, il termine «persona» viene usato anche in riferimento al concepito.
Nel Digesto, si parla del concepito nel titolo V del I Libro, sotto la rubrica «La condizione degli uomini».
Ivi sono collocati due passi sul concepito definito semplicemente «qui in utero est» («colui che è nell’utero») e vengono fissati due principi: in uno si dice «qui in utero est» esiste (è «in rerum natura») e nell’altro «qui in utero est» è sempre considerato come se fosse nato («in rebus humanis esse»), quando si tratti del suo vantaggio («commodum»).
Nello stesso Digesto, è richiamata una legge emanata nell’81 avanti Cristo, che disciplina gli omicidi e dispone la pena dell’esilio per la donna che abbia «volontariamente» abortito.
Questa prima repressione pubblica dell’aborto si ha, in particolare, con una costituzione approvata dagli imperatori romani pagani di origine africana Settimio Severo e Antonino Caracalla.
Nelle ultime pagine del Digesto, Giustiniano, in una sorta di piccolo vocabolario giuridico
(de verborum significatione), afferma l’esistenza autonoma di «qui in utero est» spiegando che
«è da comprendersi» («intellegere») che colui che è stato lasciato nell’utero, c’è realmente al tempo della morte.
In questo contesto era garantita dal Diritto Romano la difesa del concepito, il diritto alla vita, il diritto di cittadinanza e il diritto agli alimenti.

Si può, infatti, notare che «qui in utero est» è considerato avente una «vita autonoma» rispetto a quella della madre: una legge regia (753-510 avanti Cristo) vietava di seppellire la donna morta in stato di gravidanza, prima che fosse estratto il partus.
Secondo la stessa legislazione, l’esecuzione della pena capitale contro una donna incinta doveva essere differita ad un momento successivo al parto.
Una donna incinta non poteva essere sottoposta ad interrogatorio, né torturata o condannata a morte.
L’accusa di adulterio contro la donna incinta doveva essere differita, affinché non si causasse alcun pregiudizio al nato.
Il figlio di un senatore, benché il padre fosse morto prima della sua nascita (o anche privato del suo grado in vita), conservava sempre tutti i diritti che spettavano ai figli di un senatore.
Anche relativamente alla cittadinanza, lo status di libero e cittadino veniva attribuito prendendo in considerazione il momento del concepimento ovvero, se più favorevole, qualunque momento tra concepimento e nascita.

Ciò che colpisce e lascia esterefatti è che sul quotidiano della Santa Sede l’ineffabile Lucetta prosegua la sua dissertazione magistrale con una frase di questo tenore: «E’ quindi opportuno far sì che questa legge non si allontani dal suo scopo dichiarato di tutelare la maternità e prevenire la tragedia dell’aborto; e soprattutto è necessario - come ha sottolineato Benedetto XVI lo scorso 12 maggio - riflettere sugli effetti che essa ha portato nella coscienza morale del Paese».

Ho riletto tre volte questo passaggio, perché mi pareva troppo assurdo per essere vero.
Sono rimasto strabiliato, allibito: dunque, l’Osservatore Romano, ospita in prima pagina un articolo nel quale si sostiene che la Legge 194/78 («Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza») deve essere difesa, in quanto si prefigge di tutelare la maternità e prevenire l’aborto, suppongo clandestino?
A quale punto è arrivato il delirio, oltre che nella mente della povera Lucetta, che crede di essere un’intellettuale scrivendo simili sconcezze, nella redazione dell’Osservatore Romano, in Segreteria di Stato, in Vaticano?
L’articolo è piaciuto al Santo Padre?
Lo ha benedetto?

Prendiamo in considerazione gli articoli 4 e 6 della Legge 194/78:

Articolo 4. Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell’articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia.

Articolo 6. L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.


Per quanto concerne l’aborto, la Legge 194 è una legge criminale, omicida, che deve essere eliminata, abolita, cancellata, contro la quale ciascun cattolico deve combattere, sotto ogni forma possibile e con ogni mezzo, a difesa della dignità del nascituro che viene ammazzato, a rispetto e tutela della vita, che ha inizio sin dal concepimento.
Il diritto alla vita è il primo dei diritti dell’uomo: si tratta di un diritto inalienabile per lo sviluppo di ogni popolo libero e sovrano.
Scaraffia, con una citazione del tutto incongrua, associa poi il Papa alla sua farneticante affermazione: anche il Santo Padre la pensa così.
Veramente?
Benedetto XVI ritiene che i cattolici debbano difendere la Legge 194?
Quale è la fonte di questa menzogna clamorosa?

Il Magistero della Chiesa nega il diritto all’aborto come un abuso ed un omicidio.
«L’aborto procurato è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita» (Giovanni Paolo II, «Evangelium Vitae», Città del Vaticano, 1995, numero 58).
(Si veda la «Dichiarazione sull’aborto procurato» della Congregazione per la Dottrina della Fede)
La Chiesa cattolica sanziona con una pena canonica di scomunica questo delitto contro la vita umana: «Chi procura l’aborto, se ne consegue l’effetto, incorre nella scomunica latae sententiae»
(CIC/83, canone 1398), «per il fatto stesso d’aver commesso il delitto» (CIC/83, canone 1.314) e alle condizioni previste dal diritto. La Chiesa non intende in tal modo restringere il campo della misericordia. Essa mette in evidenza la gravità del crimine commesso, il danno irreparabile causato all’innocente ucciso, ai suoi genitori e a tutta la società» (2.272 - Catechismo della Chiesa cattolica).
La Chiesa cattolica combatte contro l’aborto, con tutti i mezzi possibili e senza cedimenti, a partire dal ruolo fondamentale dei medici anti- abortisti, che si rifiutano di praticare questa vergognosa strage degli innocenti del nostro secolo di barbarie, che ha già prodotto, cifre enormi di omicidi di bambini ineremi ed indifesi, massacrati all’interno del grembo materno che avrebbe dovuto ospitarli e difenderli.

Dal 1978, anno di entrata in vigore della Legge 194, il numero degli aborti in Italia è passato dagli oltre 200.000 dei primi anni ai 133.000 del 2003: in 27 anni si può, pertanto, stimare in oltre 4.500.000 il numero degli aborti praticati.
4.500.000 di cittadini italiani che mancano all’appello (per stabilire un parallelo sulle cifre - a prescindere da ogni altra valuazione di tipo etico-morale, filosofico, teologico, ecc., - durante la II Guerra Mondiale, vi furono, in Italia, 415.000 morti (330.000 militari e 85.000 civili)).
Nello stesso periodo, in Francia, ci si è mantenuti costantemente al di sopra dei duecentomila aborti l’anno, superando il totale di 6 milioni.
In soli due Paesi europei, pertanto, si sono avuti oltre 11.000.000 di aborti in trent’anni.
Considerando l’intera Unione Europa, è possibile ipotizzare un calcolo secondo il quale, in trent’anni, sono stati praticati tra i 60 ed i 70 milioni di aborti!
Si tratta di una strage di innocenti di dimensioni apocalittiche, solo considerando il continente europeo.

Ogni anno in India vi sono circa 13 milioni di aborti; almeno 80.000 donne muoiono a causa dell’operazione; in più vi è la piaga degli aborti selettivi, che ha portato all’eliminazione di almeno 10 milioni di bambine, non nate negli ultimi 20 anni.
Nel 1997, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha scoperto che in Cina, dal 1980, «mancavano» all’appello circa 50 milioni di bambine rispetto ai maschi; il demografo ed economista Jean-Claude Chesnais ha affermato che «non è escluso che il deficit di donne raggiunga i 200 milioni nel 2025 sul pianeta».

Il fenomeno mostruoso dell’aborto ha prodotto, ad oggi, almeno un miliardo di vite umane soppresse: nonostante le sue colossali dimensioni, il più vasto olocausto della storia umana è totalmente e sistematicamente rimosso dalla società contemporanea.
Alla cifra già vertiginosa di un miliardo di vittime dell’aborto nel corso degli ultimi decenni del Novecento, dovrebbero essere aggiunte molte altre vite umane soppresse dalle varie «pillole del giorno dopo» e da sistemi di contraccezione (in realtà abortivi, perché impediscono
l’annidamento) come la spirale (solo in Francia sono circa due milioni e mezzo le donne che la usano) o da altre pratiche come quella denominata «menstrual regulation».

Thérèse Gillaizeau Amiot ha calcolato che ai 53 milioni di aborti praticati ogni anno nel mondo si debbano sommare circa 4 milioni di aborti «farmaceutici» (pillole del giorno dopo) e addirittura 460 milioni di aborti dovuti all’uso della spirale.
I farmaci ed i dispositivi antinidatori - secondo alcuni - non sarebbero abortivi, ma al 14° giorno l’embrione, la nuova creatura, è già formata e quei sistemi - impedendone l’annidamento - ne ottengono la morte e l’espulsione: si tratta, dunque, di abortivi.
Sono le cifre di un genocidio silenzioso e che presenta un bilancio di vittime più devastante di un intero secolo di guerre, a livello planetario.

Ha scritto Madre Teresa di Calcutta: «Sento che oggi giorno il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa. Se una madre può uccidere il suo proprio figlio, non c’è più niente che impedisce a me di uccidere te, e a te di uccidere me» (da «Nobel lectures», «Peace» 1971-1980, 11 dicembre 1979).

Andate su «YouTube» (oppure al link www.sandrodiremigio.com/blog/aborto_foto.htm) a vedere i video degli aborti praticati (cercate di resistere sino alla fine di quei terribili ed interminabili minuti): capirete cos’è l’omicidio di Stato che, ogni giorno, viene perpetrato per mezzo degli aborti.

Potrete vedere il trionfo di Satana, la danza macabra dell’autodistruzione del genere umano: vedrete, soprattutto, bambini già formati, fatti a pezzi e triturati da medici criminali che, all’inizio della loro professione, hanno promesso di onorare il giuramento di Ippocrate («Non somministerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale, e non prenderò mai un’ iniziativa del genere; e neppure fornirò mai a una donna un mezzo per procurare l’aborto. Conserverò pia e pura la mia vita e la mia arte»).

Mi chiedo: chi può tollerare che questa farneticante pseudo-cattolica possa insozzare le pagine dell’Osservatore Romano con le sue scemenze infondate, soprattutto spacciando i suoi pensierini fantasiosi per un autorevole intervento di livello storico-scientifico?
Chi l’ha chiamata a scrivere queste sciocchezze per l’Osservatore Romano?
La pagano per questo?
La Santa Sede si associa o si dissocia da queste affermazioni, che esulano dall’etica cattolica e dal Magistero ecclesiale?
Non c’era nessuno tra i goyim, magari teologo, giurista o filosofo di fama, meglio preparato della confusa Lucetta che potesse scrivere questo articolo, ad esempio, monsignor Sgreccia, D’Agostino, Casini, ecc.?

Quando Vian-Di Cicco avranno il coraggio di dimettersi per manifesta incapacità a redigere il quotidiano della Sede Apostolica, 8 pagine che, con fotografie che paiono gigantografie per fondali teatrali, riescono a riempire, ogni giorno, con le «ribollite» accademiche dei colleghi di facoltà di Vian ed i pezzi allucinanti e privi di fondamento scientifico di pseudo- giornalisti-professori universitari che dimostrano di non avere alcuna competenza nella materia sulla quale scrivono?
Scaraffia conclude le sue fantasticherie in libertà, affermando che «la liberalizzazione dell’aborto è storicamente legata a due nefasti sistemi totalitari come quello sovietico prima e quello nazista poi».

Ciò è falso o, per lo meno, del tutto impreciso: l’aborto era consentito solo alle donne non tedesche (non «ariane»).
Nella Germania pre-nazista l’aborto era regolato dall’articolo 218 del Codice introdotto dalla Repubblica di Weimar.
In esso si prevedeva la liceità dell’aborto nel caso in cui il parto avesse messo in pericolo la vita della madre.
I nazisti non modificarono la legge, se non consentendo l’aborto nel caso in cui la nascita del bambino fosse un pericolo «per l’igiene razziale tedesca»: l’aborto veniva consentito per sopprimere incroci razziali non desiderati; per il resto l’aborto era strettamente vietato.
Nel 1937 i medici che praticavano aborti venivano puniti con 10 anni di prigione; nel 1939, l’aborto non autorizzato venne considerato tradimento contro il popolo tedesco punibile, con la pena di morte.
Non era consentito, in parallelo, alla donna alcuna pianificazione familiare scientifica, essendo fuori legge tutti gli strumenti anticoncezionali.
L’aborto, per i nazisti, era legato non tanto alla donna in quanto tale, bensì alla sua appartenenza razziale: mentre si vietava alle donne «ariane» tedesche ogni possibilità di decidere sulla propria maternità, si autorizzavano, per legge, le donne ebree ad abortire senza dover richiedere autorizzazioni ai tribunali tedeschi.
Nel 1943 veniva concesso ed incoraggiato l’aborto per le lavoratrici straniere coatte impiegate nelle fabbriche tedesche.

Il problema dell’aborto veniva dunque legato alla «razzialità» della donna: negato alla donna ariana tedesca, alla quale si chiedeva di generare il più possibile; autorizzato ed incoraggiato per le donne che venivano ritenute, da questa ideologia pagana e luterana, «razzialmente inferiori».
Le motivazioni naziste contro l’aborto non furono né morali né etiche, quanto piuttosto demografiche e razziali.
La donna tedesca aveva un potere decisionale limitato sulla propria maternità: i figli non erano il frutto esclusivo della maternità, quanto piuttosto una «proprietà» dell’intero popolo tedesco.
Non avere figli o, peggio, abortire significava privare il popolo del suo futuro.
La donna che si opponeva alla propria maternità, di fatto, era colpevole di tradimento verso il popolo tedesco e lo Stato.

Allo stesso modo, mentre Maimonide ammette l’aborto solo in caso di grave pericolo per la madre, moderni rabbini istigano all’aborto ragazze rimaste incinte da un non-ebreo, mutuando, quindi, per motivi razziali, il rescritto del più grande talmudista di tutti i tempi (Ariel S. Levi di Gualdo, «Erbe amare. Il secolo del sionismo», Bonanno Editore, 2007; citato in un articolo di Maurizio Blondet).
Del resto, anche il solo matrimonio «misto» con un «gentile» conduce all’assimilazione ed è considerato come l’abbandono della religione d’Israele.
La famiglia di una persona che ha contratto un matrimonio misto usava osservare una settimana di lutto per lei, come se fosse morta.
Ciò conferma che, insieme ad Hitler, l’etnia più razzista del mondo, in coerenza con l’insegnamento talmudico, è quella ebraico-sionista.

Professor Marco Arosio, Ph.D.

Post Scriptum: Le informazioni riguardo al diritto romano e l’aborto sono state riprese, alla lettera e nella loro completezza, dal testo di un’intervista rilasciata all’Agenzia ZENIT dalla professoressa Maria Pia Baccari Vari, docente di Diritto Romano presso la Libera Università Maria Santissima Assunta (LUMSA).

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