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Smascherati i mediatori di pace israeliani
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I Palestine Papers sono documenti spifferati alla maniera di Wikileaks (ma da altra fonte), che Al Jazeera sta pubblicando con il Guardian, sul cosiddetto processo di pace israelo-palestinese e americano. Essi rappresentano un muro di vergogna, con i palestinesi che fanno concessioni importantissime e gli israeliani che dicono sempre no. Data l'importanza del testo pubblichiamo direttamente il pezzo di Jonathan Cook, da noi tradotto.

Maurizio Blondet



Jonathan Cook
The National

Per più di un decennio, fin dal fallimento dei negoziati di Camp David nel 2000, il mantra della politica di Israele è stato sempre lo stesso: «Non esiste un partner palestinese per la pace».

Questa settimana, la prima parte delle centinaia di documenti riservati palestinesi che sono trapelati, ha confermato i sospetti – da parte di un numero crescente di osservatori – che i rifiuti nel processo di pace, sono da ricercarsi da parte israeliana, non palestinese.

Alcuni tra i documenti più significativi – pubblicati da Al-Jazeera television insieme al quotidiano inglese Guardian – sono datati 2008, un periodo relativamente promettente nei recenti negoziati tra Israele e i palestinesi.

A quel tempo, Ehud Olmert era primo ministro di Israele e si era pubblicamente impegnato a perseguire un accordo per uno Stato palestinese ed era sostenuto dal governo degli Stati Uniti di George W. Bush, che aveva ripreso il processo di pace alla fine del 2007 ospitando la conferenza di Annapolis.

In tali circostanze favorevoli – come mostrano i documenti – nei mesi successivi all'incontro di Annapolis, Israele respingeva una serie di importanti concessioni che il team palestinese per la negoziazione aveva offerto sui temi più delicati presenti nei colloqui.

Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese, ha cercato in maniera poco convincente di negare la veridicità di questi documenti, ma non è stato aiutato nel suo intento dai funzionari israeliani che hanno fallito nel loro tentativo di correre in suo aiuto.

Secondo i documenti, il compromesso palestinese più significativo – o «svendita totale», come lo hanno soprannominato molti palestinesi – era su Gerusalemme.

Nel corso di una serie di incontri durante l’estate del 2008, i negoziatori palestinesi avevano concesso l’annessione da parte di Israele di vaste aree di Gerusalemme Est, inclusi quasi tutti gli insediamenti ebraici della città e anche zone della Città Vecchia.

E’ difficile immaginare come il collage di enclavi palestinesi presenti a Gerusalemme Est, che ne era risultato, – circondati da insediamenti ebraici – avrebbe mai potuto funzionare come capitale del nuovo Stato palestinese. Ma tant’è.

Durante i precedenti colloqui di Camp David, in base ai documenti ufficiali israeliani fatti trapelare dal quotidiano Haaretz nel 2008, Israele aveva proposto qualcosa di molto simile per Gerusalemme: il controllo palestinese su quelle che venivano al tempo chiamate territori «bolle».

Nei colloqui successivi, i palestinesi avevano inoltre dimostrato la volontà di poter rinunciare alla loro rivendicazione di sovranità esclusiva su Haram al-Sharif, l’esplosivo punto della Città Vecchia, il complesso sacro che include la moschea di Al-Aqsa, fiancheggiato dal Muro del Pianto. Al suo posto è stato invece proposto dagli israeliani un comitato internazionale di supervisione dell’area.

Questa è probabilmente stata la più grande concessione tra tutte quelle effettuate dai negoziatori palestinesi, mentre – secondo un funzionario israeliano che era presente – proprio il controllo di Haram aveva fatto saltare i colloqui di Camp David.

Saeb Erekat, capo e principale negoziatore durante i colloqui, si dice abbia promesso ad Israele «la più grande Yerushalayim della storia» – usando la parola ebraica per Gerusalemme – considerato che il suo team aveva effettivamente ceduto i diritti dei palestinesi sanciti dal diritto internazionale.

Le concessioni non finirono lì, comunque. I palestinesi accettarono uno scambio di terra per ospitare il 70% del mezzo milione di coloni ebrei presenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e rinunciarono ai diritti di tutti, tranne a quelli di poche migliaia di rifugiati palestinesi. Lo Stato palestinese doveva inoltre essere smilitarizzato.

In uno dei documenti registrati durante i negoziati nel maggio 2008, Saeb Erekat domanda ai negoziatori israeliani: «Senza considerare i vostri caccia nel mio cielo e il vostro esercito sul mio territorio, posso scegliere dove collocare la mia difesa esterna?». La risposta israeliana fu un enfatico: «No».


Simon Peres e Saeb Erekat al World Economic Forum del 2007


È interessante notare che i negoziatori palestinesi pare abbiano accettato di riconoscere Israele come «Stato ebraico» – una concessione che adesso Israele sostiene sia uno dei principali ostacoli ad un accordo.

Israele aveva anche insistito affinchè i palestinesi accettassero uno scambio [di territori] che avrebbe visto la cessione di una piccola area di Israele al nuovo Stato palestinese insieme a ben 1/5 dei 1,4 milioni di cittadini palestinesi israeliani. Questa pretesa fa eco ad un controverso «trasferimento di popolazione» a lungo proposto da Avigdor Lieberman, ministro degli esteri israeliano.

I Palestine Papers, come vengono adesso chiamati, esigono dunque una seria ri-valutazione di due persistenti – ed erronee – ipotesi formulate da molti osservatori occidentali attorno al processo di pace.

La prima riguarda il ruolo degli Stati Uniti auto-proclamatosi mediatore imparziale. Quello che in verità traspare dai documenti è la riluttanza dei funzionari degli Stati Uniti ad esercitare pressioni sui negoziatori israeliani, considerando che era lo stesso team palestinese a proporre importanti concessioni su questioni fondamentali per i colloqui. Invece, le richieste di Israele erano sempre trattate come fondamentali.

Il secondo è il presupposto che i colloqui di pace siano stati congelati soprattutto a causa dell’elezione, avvenuta ormai quasi due anni fa, del governo israeliano di destra di Binyamin Netanyahu che ha attirato critiche internazionali per il rifiuto di impegnarsi per uno Stato palestinese, oltre alle solite promesse fallaci.

L’obiettivo degli americani, attraverso una forte pressione su Netanyahu – almeno nelle fasi iniziali della sua premiership – era quello di far entrare nella sua coalizione Tzipi Livni, leader del partito centrista Kadima all’opposizione. La Livni è ancora ampiamente considerata come il difensore israeliano più credibile per la pace.

Tuttavia, la signora Livni – in precedenza ministro degli Esteri di Olmert – dai documenti trapelati appare come negoziatore inflessibile e sprezzante delle enormi concessioni fatti dai palestinesi.

In un momento chiave durante i negoziati, ad esempio, respinge un’offerta palestinese, dopo aver dichiarato: «La apprezzo molto»


Tzipi Livni e Saeb Erekat durante i colloqui


Il punto critico per la signora Livni furono una manciata di insediamenti in Cisgiordania che i negoziatori palestinesi si rifiutarono di cedere ad Israele. I palestinesi avevano da tempo denunciato che i due insediamenti più significativi – Maale Adumim, fuori di Gerusalemme, e Ariel, vicino alla città palestinese di Nablus – avrebbero effettivamente tagliato la Cisgiordania in tre cantoni, minando le speranze di contiguità territoriale.

L’insistenza della Livni di non voler cedere questi insediamenti – dopo tutti i compromessi offerti dai palestinesi – suggerisce che non c’è nessun leader israeliano preparato, o in grado di raggiungere un accordo di pace – a meno, ovviamente, di una resa palestinese su quasi tutte le richieste israeliane e l’abbandono delle loro ambizioni di statualità.

In uno dei Palestine Papers viene riportata una frase risalente all’anno scorso di un esasperato Erekat che domanda ad un diplomatico statunitense: «Che cosa posso offrire di più?».

L’uomo con la risposta può essere il signor Lieberman, che questa settimana ha presentato la sua personale mappa di uno Stato palestinese, dove viene ammesso uno Stato – provvisorio – in meno della metà della Cisgiordania.

Jonathan Cook, Nazareth

Traduzione per EFFEDIEFFE.com a cura di Lorenzo de Vita


Fonte > The National


La presente traduzione è effettuata appositamente per EFFEDIEFFE da traduttori di nostra fiducia


 
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