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Bush dittatore a vita?
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Un pubblico appello al presidente Bush perchè non lasci la carica al termine del mandato, e si faccia dittatore era stato elevato a suo tempo in USA. Leggere per credere:

«Il presidente Bush può venir meno al suo dovere verso se stesso, la sua patria e il suo Dio, diventando l’ex-presidente Bush, oppure può diventare il “presidente a vita” Bush: il conquistatore dell’Iraq, colui che porta la ragione al Congresso e il buon senso alla Corte Suprema. E allora, chi potrebbe fermare Bush dall’emulare Cesare Augusto e diventare il governatore del mondo? Perchè solo un’America unificata sotto un solo dominatore ha il potere di salvare l’umanità dalla minaccia di una nuova Età Oscura dominata da terroristi armati di ordigni nucleari».

L’autore di queste righe è Philip Atkinson, un pensatore sui generis, studioso del declino della civiltà americana (ha pubblicato un saggio dal titolo «Study of our decline»). Ma il lato allarmante è che Atkinson ha rivolto il suo appello dalla pubblicazione di «Family Security Matter», una fondazione culturale neoconservatrice ispirata da Frank Gaffney, israelo-americano ed ex vice-segretario di Stato. Family Security Matter - che ha condotto campagne di boicottaggio contro aziende che fanno affari con gli «Stati terroristi» (sgraditi cioè a Sion) - è un’emanazione del Center for Security Policy, di cui è socio anche il vicepresidente Dick Cheney (1).

Se quello di Atkinson è un delirio, è dunque un delirio ben appoggiato; e, come minimo, un indizio dell’angoscia che ha preso gli ambienti di governo e i neocon mentre si avvicina la fine della «loro» presidenza.

Sì, ammette Atkinson, oggi Bush «è disprezzato da molti cittadini della civiltà occidentale che esprimono biasimo per lui e le sue politiche», ma questo è solo «l’inevitabile risultato del governo delle maggioranze, ossia della democrazia. Se il presidente Bush copiasse Giulio Cesare ordinando al suo esercito di svuotare l’Iraq di tutti gli arabi e ripopolasse il Paese di americani, otterrebbe dei risultati immediati: popolarità nell’ambiente militare; arricchimento dell’America con la conversione di un Iraq arabo in un Iraq americano (così trasformando un passivo in un attivo); e l’aumento del prestigio americano, terrorizzando al contempo i suoi nemici».

Delirio lo è. Ma non c’è dubbio che queste idee (chiamiamole così) sono condivise dal protettore di Atkinson. Frank Gaffney, una creatura di Richard Perle che lo fece elevare a vicesegretario di Stato nell’amministrazione Reagan (ma la sua nomina non fu confermata dal Senato, per la sua fama di falco pericoloso), collaboratore fisso della Jewish World  Review, è membro del «Project for a New American Century» (PNAC) da cui firmò, insieme a Cheney e a Rumsfeld, il famoso invito a ricostruire la difesa americana, cosa possibile solo dopo «una nuova Pearl Harbour».

Nel 2003 ha invocato la «eliminazione di Al Jazeera, in un modo o nell’altro», progetto che poco dopo fu ventilato dallo stesso Bush. Da allora si dedica a tempo pieno a diffondere materiale anti-islamico e a «promuovere la leadership globale americana». Resta vicinissimo al potere, nella cerchia interna di Cheney.

L’inquietudine di quella cerchia, al momento di lasciare la Casa Bianca e le immunità relative, sono fondate. Circola un rapporto riservato della Croce Rossa Internazionale che, dopo aver visitato Guantanamo e parlato a lungo con i prigionieri,  ha accusato la CIA di condurvi torture e maltrattamenti abituali; abusi che «costituiscono crimini di guerra, e che mette i più alti responsabili del governo USA a rischio di essere perseguiti» (2).

Di questo rapporto, che l’amministrazione è riuscita a tener insabbiato da un anno, parla diffusamente un libro di prossima uscita in USA: «The Dark Side – The inside story of how the war on terror turned into a war on american ideals», scritto da Jane Meyer, giornalista esperta in contro-terrorismo che scrive sul New Yorker. Lo stesso New York Times ha anticipato la notizia del rapporto incriminante della Croce Rossa. Peggio, anche alla MSNBC la opinionista Rachel Maddow ha definito Bush «l’approvatore di torture in capo che non è stato ancora chiamato a rispondere di nulla».

La cappa di censura preventiva sui media sembra lacerarsi qua e là, nell’approssimarsi del tramonto della presidenza Bush, e le conseguenze possono essere fatali.

Il parlamentare Dennis Kucinich ha ri-proposto una sua proposta di impeachment (fino ad oggi liquidata dai democratici, ossia dalla maggioranza), e il rapporto della Croce Rossa può rendere difficili ulteriori insabbiamenti. Un super-decorato del Vietnam, il colonnello dell’aviazione Robert Bowman, ha pubblicamente dichiarato che l’11 settembre è «un lavoro interno» e che il primo sospetto dell’operazione è Dick Cheney (3).

Un costituzionalista, Jonathan Turley, ha persino avanzato esplicitamente  la possibilità che Bush possa essere perseguito, dopo lasciata la carica, da un tribunale internazionale, ed ha fatto il paragone con Milosevic, processato all’Aja. «Non ho mai pensato che avrei potuto dire questo», ha concluso Turley, «ma ora credo sia tempo che gli Stati Uniti stiano davanti a un tribunale internazionale. Non avrei mai creduto nella mia vita che ciò fosse possibile».

Da ultimo, persino l’International Herald Tribune (comproprietà del New York Times e del Washington Post) ha preso una dura posizione: «L’amministrazione Bush ha sempre condotto una fiera lotta per aggiudicarsi il potere di chiudere in galera la gente indefinitamente solo perchè lo dice lui», scrive il giornale commentando il caso di Ali Al-Marri, un cittadino del Katar legalmente residente a Peoria, Illinois: arrestato dapprima per reati comuni, è poi stato dichiarato un «enemy combatant» e incarcerato senza possibilità di difesa, «benchè non abbia mai portato armi nè sia stato in una zona di guerra, e sia incolpato in base a voci sul suo conto di pochissima concretezza» (4).

L’anno scorso, tre giudici della 4a Corte d’Appello avevano decretato che Al Marri non poteva essere tenuto in detenzione, come del resto qualunque altro civile, su semplice ordine del presidente; oggi la 4a Corte d’Appello in seduta plenaria ha rovesciato la sentenza, e questo allarma l’Herald Tribune: «La decisione dà al presidente un potere assoluto di detenere chiunque, anche cittadini, privandoli del loro diritto alla difesa. La definizione di “enemy combatant”, che si deve applicare solo a gente catturata sul campo di battaglia, può essere ora applicata a persone detenute all’interno degli Stati Uniti... La decisione (della Corte) rafforza la insostenibile tesi cara a Bush, che quando il Congresso lo autorizzò all’uso della forza dopo l’11 settembre, ha dato alla presidenza poteri illimitati. Se un presidente vuole arrestare americani sulla base di vaghe accuse e detenerli indefinitamente senza processo, questa sentenza gliene dà la pericolosa facoltà».

Sono difese delle libertà personali persino ovvie, ma non si leggevano da anni su un giornale importante. La novità è che ora vengano pubblicate.

Il gruppo di Cheney deve sentire che l’aria sta cambiando. E che, domani, potrebbero essere chiamati a rendere conto non solo dei crimini di guerra e delle torture, degli abusi di potere e delle leggi liberticide, ma della «nuova Pearl Harbour» e, magari, di quella vecchia storia del B-52 con sei testate nucleari bloccato appena in tempo, dopo aver sorvolato misteriosamente l’America, diretto chissà dove.

Il panico deve regnare in quelle stanze: con la prospettiva di essere giudicati come Milosevic o come il testè catturato Radovan Karadzic. Non è strano che Bush, la loro creatura, venga invitata a prendere il potere e la dittatura a vita, che li salverebbe da un possibile processo di  Norimberga. Se sono solo delirii, ce lo diranno i prossimi mesi.




1) Philip Atkinson, «Conquering the drawbacks of democracy», Family Security Matters, 18 luglio 2007.
2) Andrew McLemore, «Red Cross finds Bush administration guilty of war crimes», Raw Story, 12 luglio 2008.
3) «Former head of Star Wars program says Cheney main 9/11 suspect», PrisonPlanet, 4 aprile 2008.
4) «The White House wins a disturbing legal victory», Herald Tribune, 20 luglio 2008.


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