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Libertà religiosa e segno dei tempi
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Giusta l’affermazione di Ortega y Gasset che la cortesia del filosofo è la chiarezza.
Io non sono filosofo, ma giacché ho scritto su questioni filosofiche, su cui spesso non sono compreso, devo chiedere scusa per la mia «scortesia».
Torno allora alla lettura della Philosophia perennis del cortesissimo San Tommaso d’Aquino, la cui Somma intendeva essere un catechismo che spiegasse il pensiero cattolico a tutti livelli.
Se non lo comprendiamo, non sarà forse a causa della nostra scarsità cattolica, di un comprendonio tarlato da tanto falso filosofare e scientismo?
Vediamo.

Non mi ricordo se il Santo filosofo parla di galline, ma sulla domanda - cosa viene prima l’uovo o la gallina? - la sua risposta è inequivoca: nel pensiero creativo di Dio c’era la gallina; l’uovo ha per ragione il suo sviluppo.
Saliamo alla persona umana, che è soggetto di doveri e di diritti: - quale di questi viene prima?
Per rispondere si deve risalire alla «ragione» dell’esistenza dell’uomo, persona fatta ad immagine e somiglianza di Dio: «substantia individua, rationalis, sui juris».
Quindi, l’essere umano è creatura dotata dal Creatore d’intelligenza e volontà libere, facoltà donate per il privilegio della «ragione» di conoscere il Vero, praticare il Bene=Vero, intendere il Bello= Vero=Bene.
E poiché questa «ragione» implica il dono dell’intelligenza e della volontà libere, il primo uso di queste facoltà è riconoscere il Donatore ed essere riconoscente del Suo dono; rispondere col credere e rendere culto all’Autore del dono vero, buono e bello della vita umana.
Dovere di risposta che è «responsabilità» di fronte alla vita personale e all’immensa famiglia voluta dal Padre eterno.
A questo punto la domanda su cosa deve venire prima per l’uomo, soggetto di doveri e di diritti, ha una risposta chiara: il dovere verso Dio e la Sua Parola.

E’ questo un «concetto» cattolico che vige solo nell’era della Chiesa? No.
E’ il pensiero dell’immenso mondo religioso umano di miliardi di anime, dai popoli primitivi ai più progrediti, è il pensiero che pende e penderà sempre da ogni parola e segno venuto da Dio; è il concetto universale dell’impero di Dio sugli uomini e sulle loro società; concetto alla base d’ogni coscienza, che è e sarà fino alla fine del mondo il vero pegno di salvezza per quanti hanno cercato di conoscere il Vero, il Bene e il Bello che è il Verbo di Dio.
Quindi, a tale pensiero è vincolata la vera essenziale ragione e responsabilità d’ogni vita umana.
I propri diritti e libertà esistono in funzione di tale ragione e non il contrario, per cui ogni libertà di limitarli o ostacolarli è falsa e malvagia; è il contrario del vero diritto di fronte alla Verità oggettiva.
Qui cominciano, però, i problemi e i dubbi d’ogni tempo.

Filosofie e scienze della certezza


Fino a non molto tempo fa lo studio della filosofia e della scienza erano, nel loro campo proprio, diretti alle certezze.
Solo più di recente è comparsa la «Epistemologia», come ramo della filosofia analitica; filosofia della stessa conoscenza.
Essa si prefigge di stabilire la differenza tra il «credere» che si poggia su una giustificazione genuina e altro che dipende solo da opinioni.
Allora l’Epistemologia può essere vista come l’investigazione di quanto costituisce tale giustificazione, e di come raggiungerla.
I suoi nemici non sono solo gli scettici moderni, negatori della possibilità di tale conoscenza e giustificazione, ma antichi quanto la stessa filosofia.
Già per il greco Gorgia, maestro di retorica; - nulla «é»; se qualcosa è, è incomprensibile; se è comprensibile è incomunicabile.
Quindi, maestro della più vana e disperata «arte del logos».
Poi le teorie conflittuali sulla conoscenza, sia del razionalismo, per cui la giustificazione ultima per le nostre credenze si trova nella ragione (a priori), sia dell’empirismo, per cui essa si trova nell’esperienza dei sensi.
Recentemente, però, l’attenzione si concentrò sulla struttura della conoscenza, ossia come, a partire da un pensiero iniziale, si intreccia quanto si crede.
Ma quale è la vera questione.
E’ il cervello che pensa?
Esso ha la capacità della memoria, ma pensa?
Quanti vogliono ridurre il pensiero ad un dato fisico, devono attribuire al cervello questo principio. Riescono a farlo per negare l’esistenza dell’anima spirituale?

Le teorie moderne di Chomsky e Piaget si rifanno all’idea di una «costruzione» genetica.
Per il primo, una capacità preesistente del linguaggio, un «built in» cerebrale che Piaget nega a favore di un costruttivismo culturale («Théories du Langage, Théories de l’Apprentissage», Éditions du Seuil).
Come si vede, per la ricerca della conoscenza certa si naviga nel buio fitto.
Ma per i cattolici non si pone il problema della certezza su quanto è essenziale alla vita spirituale.
Per questo il Signore ha istituito la Chiesa e l’infallibilità papale e Alessandro Sanmarchi può dimostrare qui correttamente la sua necessità (vedi articolo).
Quello che è indispensabile, però, per esercitarla è la presenza nella Sede suprema di chi possa rappresentare e mettere in atto tale «miracolo».
Sì, perché l’infallibilità non appartiene alla natura umana decaduta, se non come dono.
Passiamo, quindi a parlare dell’infallibilità per poi discutere sulla sua più assurda contraddizione moderna: accostarla ad una dichiarazione del diritto alla libertà di negarla e alla verità stessa, in foro esterno.

Il dono universale dell’infallibilità nella Fede

La Fede è la ragione per cui il fedele ubbidisce all’autorità della Chiesa.
«Ma, anche se noi stessi o un angelo del cielo venisse ad annunziarvi un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia egli anatema» (Galati 1-8).
L’infallibilità passiva dei fedeli corrisponde a quell’attiva del Papa.
Essa deriva dalla virtù della fede suscitata direttamente da Dio in tutti i fedeli.
Ecco perché all’infallibilità attiva nell’insegnamento della fede, in docendo, propria della Gerarchia, corrisponde la infallibilità passiva, in credendo, nell’apprendimento della fede, propria dei fedeli.
Si tratta del riconoscimento infallibile della voce di Dio.
«Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono Me» (Giovanni 10, 14).
Se così non fosse, San Paolo non avrebbe insegnato quanto è nella lettera ai Galati (1, 8), per cui il fedele deve rifiutare e anatemizzare chi porta un nuovo vangelo, «anche se un angelo o noi stessi».
L’autorità del Sommo Pontefice della Chiesa è vicaria, in rappresentanza di Nostro Signore Gesù Cristo.
E’ fondata sul Principio che San Pietro ha ricevuto le chiavi dal Signore che ha tutto il potere in Cielo ed in terra, potere del Sangue che Gesù Cristo ha versato nel Suo Sacrificio redentore.
Che parte può avere in questo potere chi si vuole capo di una chiesa tra le altre; chi sfigura la ragione salvatrice di questo Sangue, che diluisce la responsabilità umana di fronte alla Redenzione?
Che rende la l’infallibilità un «optional»?

L’autorità papale è necessaria nell’ordine dell’Essere; ciò insegna la Chiesa e il suo magistero, come la Bolla «Cum ex apostolatus».
Né l’unanimità dei cardinali, né tutto il consenso umano, possono far diventare papa chi non ha l’integra e pura fede cattolica.
Le idee che il potere del conclave che elegge il Papa sia assoluto, o peggio, che l’assistenza promessa dello Spirito Santo sia confusa con l’elezione del Papa da cardinali da Lui ispirati, sono smentite dal Magistero infallibile della Chiesa.
Esso è presente nella sua legge e in speciale nella Bolla di Papa Paolo IV.
Per questa ragione chi vuole seguire seriamente la questione della vacanza papale non può ignorare la chiara visione cattolica espressa infallibilmente in questa Bolla.
Il dogma dell’infallibilità non si applica alla verità divina, che non ha bisogno di conferme in sé, ma all’autenticità dell’autorità umana che pronuncia tale verità come divina.
Essa è il mezzo attraverso cui filtra la verità di fede, sia in modo straordinario che ordinario, e perciò la condizione della sua autenticità è la sua trasparenza nella fede.
Papa Paolo IV ribadisce questo concetto ed invita i fedeli a resistere a chi esprime una fede deviata, specialmente se è molto in alto.
Non fa che ricordare la verità evangelica.
San Giovanni, il più mite degli apostoli, subito dopo aver parlato del comando della carità, insegnava riguardo a quelli che non portano la retta dottrina: «Se qualcuno viene a voi e non porta questa dottrina, non ricevetelo in casa e non salutatelo; poiché chi lo saluta partecipa alle sue opere
perverse
» (2Giovanni 10).
Nell’Apocalisse (18, 4) una voce dal cielo dice: «Uscite, popolo mio, da Babilonia per non partecipare ai suoi peccati e non ricevere parte dei suoi flagelli».

Il Diritto Canonico è fondato sulla dottrina cattolica.
Chi lo segue poggia sull’ortodossia evitando errori dottrinali.
Ora, secondo la Tradizione, il Magistero e il Codice Canonico (1917) canone 188: A causa di rinuncia tacita, qualsiasi ufficio si rende vacante ipso facto, senza necessità della relativa dichiarazione, qualora il chierico: 4) abbia pubblicamente disertato dalla fede cattolica.
C’è dunque incompatibilità assoluta tra giurisdizione cattolica ed eresia; fatto talmente evidente alla Fede cattolica che non richiede dichiarazione.
Per non parlare della logica giuridica: «non può essere capo chi non è membro» (San Roberto Bellarmino).
Il giuramento antimodernista è una professione di fede voluta da San Pio X.
Se il consacrato infrange uno solo degli articoli su cui ha giurato fedeltà, non solo è spergiuro, ma ha rinunciato alla Fede ed è ipso facto scomunicato dalla Santa Chiesa.
Ora, per un modernista che vuole cambiare la Fede della Chiesa dal suo interno, questo giuramento è una «pietra d’inciampo» da rimuovere.
E’ il primo cambiamento che deve operare per agire indisturbato.
La rimozione di una professione di Fede della Chiesa per i nostri tempi è già un cambiamento della fede.
«Dai loro frutti li conoscerete».
Ebbene, i papi conciliari hanno fatto cadere la professione di fede antimodernista.
Ciò implica un’autoscomunica.

Una «resistenza tradizionalista», che pensi di poter fare a meno del diritto canonico, crede che la legge della Chiesa sia insufficiente per sconfiggere l’eresia, e perciò imperfetta.
Inutile addurre che manca un’autorità per giudicare: proprio essa è in causa.
E qui cominciano i compromessi «clericalisti» in cui è riconoscibile l’hegeliana «gestione degli opposti», che è una variazione della stessa deviazione del Vaticano II.
Norme giuridiche di diritto ecclesiastico non possano essere applicate se manca l’autorità competente, il giudice con la sentenza e la forza per renderla esecutiva nella pratica.
Ma non vi è nemmeno dubbio che questa carenza non possa rendere inapplicabile una legge di diritto divino.
Allora il problema riguarda soltanto la difficoltà della giustizia umana.
E perciò quanto non si può accettare alla luce della Fede, che è il fondamento della legge, rimane inaccettabile.
Non diviene obbligatorio accettare un lupo per pastore perché mancano le forze umane per cacciarlo. Dio non chiederà mai l’impossibile agli uomini.
Ma una cosa chiede, ed in essa saremo vagliati: che non si dica che il falso pastore, con la sua falsa fede, abbia l’autorità di Dio; che sia legittimamente inviato da Lui, perché eletto in un conclave dove sono prevalsi inganni e manovre umane.
La falsa fede dell’eletto si svelerà prima o poi nei suoi frutti deleteri contro la Fede.
Pensare che costui abbia ricevuto direttamente da Dio il potere di produrli significa accusare Dio, o di ignorare i moti dei cuori e i fatti velati, o di autorizzare chi devierà il gregge che Cristo ha salvato col Suo sangue.
Una grave incongruenza riguardo alla ragione, alla legge della Chiesa e al Magistero papale, che è
anche blasfema.

Quale il problema sollevato dalla Bolla di Papa Paolo IV?

Il problema in questione, che è anche logico ed evangelico, consiste nella possibilità che un chierico faccia carriera nella Chiesa per raggiungere le sue cariche più alte conforme il piano del Nemico: delle sette e delle ideologie che vogliono un papa per cambiare la fede.
Come difenderla?
Il controllare le loro carriere ha un limite.
Si è visto con Roncalli.
In tal senso la Bolla di Paolo IV solo conferma quanto stabilito dalla Chiesa, per cui la condizione ontologica per essere candidati a quella carica è di avere la Fede.
Se questa è deviata dal modernismo, a riconoscere l’inganno saranno i cattivi frutti dell’eletto, dopo che questi si manifestano.
Se questo giudizio fosse soltanto soggettivo, un «difetto, paradossalmente di matrice protestante», allora la norma di San Paolo sull’eretico, (Tt 3, 9-10) «Non lo ricevete né lo salutate. Chi lo saluta partecipa alle opere malvagie di lui», (2 Giovanni 10-11) sarebbe falsa!
Chi altro è il titolare del giudizio di adeguatezza alla vera fede se non i fedeli testimoni che: «anche se voi stessi (apostoli) o un angelo del cielo venisse ad annunziare un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia anatema» (Galati 1- 8).
Un Papa non può essere anatema e chi è in quella condizione si giudica da solo, si auto condanna ipso facto.
Lo dice la Bolla e la legge della Chiesa, che è disponibile e va conosciuta.
Qui mi limito a fare un esempio.

Se un presunto papa proclamasse che le anime si salvano professando qualsiasi fede, oltre alla falsità nella fede che è eresia pronunciata direttamente, deroga tacitamente dalla sua carica, resa senza senso. Qui non ci vuole alcuna autorità umana superiore al presunto papa, basta il principio d’identità e non contraddizione che è universale, per dimostrarlo nel disegno della Provvidenza.
In sintesi, sostenere che la validità dell’elezione papale e il conseguente magistero, dipenda dalla fedeltà di questo al depositum fidei, non solo afferma un sacrosanto principio, ma pone attraverso questo il gregge al riparo dei falsi pastori.
Un loro «diverso atteggiamento nei riguardi di un’eresia», a parte l’eufemismo, è condizione  sufficiente per squalificare un chierico sotto la grave accusa di «favorire l’eresia», delitto che non esclude ma indica chi manca di fede e, invece di difenderla che è la ragione della sua carica, la espone a pericoli riciclati dalle mutate forme dei virus, che cambiano per sopravvivere.
La cura può solo venire da un vero pastore con un magistero adeguato, cioè fedele, che rimpiazzi quello falso.
Ecco il senso dottrinale della Bolla.
Eppure oggi si accusa di sedevacantismo chi accusa eresie proposte dal Trono!

Il Conclave per l’elezione papale è infallibile?

Per essere logico la stessa domanda può essere formulata in un altro modo: ha il conclave che elegge un Papa un valore assoluto?
La risposta logica è negativa: no, perché esso dipende dalla fallibile conoscenza umana dei candidati papabili
Come escludere l’idea che un chierico possa aver perseguito la sua carriera spinto dall’intenzione di «migliorare» la Chiesa dove essa sembra aver fallito?
L’idea dell’assolutezza del conclave porta a dire che è lo Spirito Santo che elegge il Papa; non che assista l’elezione se davvero invocato, ma che elegge anche un modernista che con le idee sopra è spergiuro del suo voto.
Con l’argomento logico come con quello teologico e canonico la conclusione è la stessa.
Basta leggere la Bolla «Cum ex di Papa» Paolo IV.
Eppure, su questa si riesce a sollevare polveroni fantasmagorici, per cui il diritto su cui si poggia il Vicario di Dio per preservare la Chiesa di Dio dalle grinfie di un eretico occulto, non riguarda il Diritto di Dio!
Forse riguarda il diritto fiscale!
Gli attacchi o deformazione del Magistero papale aprono la strada all’autorità umana sul «Trono divino» (II Tesssalonicesi, 2).
Riguardano l’avanzata di idee deviate, per non dire idolatriche sulla figura del Papa.
Provengono, non da difensori del Papa cattolico, ma da quanti si sentono di dover difendere le vesti talari di chierici che occupano quella carica per aggiornarla ai tempi in questioni di fede.
Lascio questa grave riflessione, che coinvolge il mondo delle anime, a chi vorrebbe difendere anche un diritto modernista di presiedere la fede se eletto da un conclave.
Si aprirà allora l’opportunità per un’altra fede in un’altra chiesa!

Per tornare al serio, propongo la lettura ora di un brano dell’importante enciclica papale sulla materia, nel senso del potere delle chiavi in mani liberali.
Siamo al tema cruciale dei Segreti di La Salette e Fatima: l’apostasia, il Papa eliminato, l’Anticristo, temi sollevati con lo spaventoso avviso: «Roma perderà la fede e diventerà la sede dell’Anticristo».
L’ora della scalata nemica è segnata dall’apostasia e della levata di mezzo del «katechon», ultimo ostacolo all’ascesa dell’Anticristo nella sede romana.
E non si dica che è farneticante tale visione prospettata dai Papi Gregorio XVI e Leone XIII: nella
enciclica «Mirari vos», di Papa Gregorio XVI, contro il delirio dell’indifferentismo e di certe libertà è detto: «Tolto infatti ogni freno che contenga nelle vie della verità gli uomini già volgentisi al precipizio per la natura inclinata al male, potremmo dire con verità essersi aperto il pozzo dell’abisso... Allude alla visione dell’Apocalisse (9, 1-2): ...un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell’abisso; egli aprì il pozzo dell’abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l’aria».
Dove e chi ha la chiave che frena le libertà deliranti?...
Proprio dove fu costituita la sede del beatissimo Pietro e la Cattedra della verità ad illuminare le genti, li hanno eretto il trono della loro abominazione e... colpito il pastore è disperso anche il gregge (confronta Leone XIII, «Esorcismo per invocare l’aiuto di San Michele Arcangelo»).
Poiché la Sede romana è legata all’autorità di Dio, se da essa si dichiara il diritto alla libertà dell’umana scellera¬tezza proprio quando gli uomini abusano della libertà, è chiaro che l’Anticristo deve aver varcato la soglia della Chiesa.
Come è stato possibile?

A causa di conclavi vittime di violazioni «orripilanti», seguiti dall’apostasia consistente nell’inversione del riconoscimento di un’autorità per proclamare la Legge eterna di Dio, a favore di un’altra che, nella stessa sede proclama il diritto alla libertà di scelta della propria verità.
Il Segno di Fatima diviene allora aiuto ineludibile per affrontare tale crisi della Cristianità, indicando l’abbattimento epocale della voce apostolica del Papato.

A questo punto è utile citare un lettore ben formato e informato: «La Verità non è un qualcosa di relativo che chiunque può contraddire, la Verità è Cristo e chi la nega si pone automaticamente fuori dalla Chiesa. Ancor prima del Concilio, Giovanni XXIII aveva fatto dichiarazioni eretiche, vedi a proposito: ‘Giovanni XXIII e il Concilio Ecumenico Vaticano II’, di Paolo Pasqualucci, i suoi successori non hanno fatto altro che proseguire su questa strada. Come si fa a capire dov’è l’errore: semplice basta confrontare i documenti pontifici sino a Pio XII, tutti tra loro dottrinalmente coerenti, con quelli seguenti, spesso esattamente contrari, come ad esempio per ciò che riguarda la libertà religiosa e l’atteggiamento verso protestanti, ortodossi e le altre religioni. Sicuramente un bambino ci vedrebbe più chiaro di tanti ‘moderni’ cattolici. La vera tragedia è però stata quella che nessun vescovo, nemmeno Lefebvre, ebbe il coraggio di denunciare il Papa come eretico secondo la bolla di Paolo IV, dichiarando perciò la sede vacante; tant’è vero che ancora oggi la Fraternità San Pio X ritiene tutti i Papi legittimi e ha sempre celebrato in comunione con loro. Quanto poi al fatto che nostro Signore permetta ciò, basti dire che lui stesso l’aveva predetto parlando degli ultimi tempi» (M. Flavio, Genova).

Non riguarda tutto questo il segno dei tempi che deve interessare i cattolici al disopra di ogni altra preoccupazione?
Se non interessa non vuol dire che non è cruciale; vuol dire che la deresponsabilizzazione umana e cristiana di fronte alla Verità è a quel punto cruciale rivelato come la «grande apostasia» a cui i sacramenti da soli non possono rimediare.

Arai Daniele


Obiezioni alla Bolla di Papa Paolo IV
di Carlo Alberto Agnoli

I) La principale tesi che si adduce contro chi invoca la Bolla di Papa Paolo IV è che si tratterebbe di una disposizione a carattere puramente legislativo e non dogmatico e che, di conseguenza, essa, non essendo stata riprodotta nel Codex Juris Canonici del 1917, dovrebbe intendersi decaduta a mente del canone 6 del medesimo Codex.
Ora, a parte l’obiezione, pur fondamentale e dirimente, che si tratta invece di una pronuncia a carattere dogmatico come risulta chiaramente sia dalle espressioni tipiche con cui viene formulata «de apostolica potestatis»; «plenitudine sancimus, statuimus, decernimus et definimus» «in perpetuum  valitura...» sia dal fatto che essa si riporta, come risulta dai suoi precedenti già citati in questo lavoro, alle parole scritturali e quindi all’insegnamento divino «qui non credit jam judicatus est» (Joan. III), va detto che tale tesi è palesemente infondata anche per i motivi che qui di seguito si espongono.
Prima di tutto, non è affatto vero che il Codex non riporti tradotto in termini appunto codicistici il contenuto della bolla.
Esso, al contrario, la riproduce integralmente al Canone 188 paragrafo 4, che testualmente recita:
«Ogni  ufficio rimane vacante per tacita rinuncia ‘ipso facto’ e senza alcuna dichiarazione se il chierico pubblicamente si sia allontanato dalla fede cattolica».
Ora, è indubitabile che il Papa ricada nella categoria dei chierici perché il Canone 108 paragrafo 3, definendo tale categoria, espressamente lo ricomprende.
Questo richiamo è già sufficiente a stabilire la piena e totale validità e attualità della bolla, anche perchè il precedente canone 6, a sproposito invocato per sostenere la tesi contraria, al paragrafo 4 espressamente stabilisce: «in dubium aliquod canonum praescriptum cum veteri jure discreper, a veteri jure non est recedendum»; e la bolla di Paolo IV faceva parte del «Corpus Juris Canonici».
Non si deve quindi discostare da tale diritto.
Un altro argomento, pure decisivo, a sostegno del nostro assunto è dato dal fatto che il documento in questione è iscritto tra le fonti del Codex.
In questo contesto normativo è evidente che la tesi qui oppugnata è frutto di una scarsa dimestichezza con le regole dell'ermeneutica e con i testi giuridici.

Come ultima e disperata «ratio»: ci si aggrappa al disposto del canone 2314 che, nello stabilire la scomunica «latae sententiae» a tutti gli eretici e scismatici e quindi anche a chi, appartenendo a una di tali categorie, sedesse sul Soglio di Pietro, statuisce anche che essi vengano deposti dall’ufficio da loro ricoperto se, dopo duplice ammonizione, non si siano ravveduti.
Senonchè è principio fondamentale di ermeneutica giuridica che non vi può essere contrasto fra due proposizioni di una medesima legge.
Ora, l’apparente discrepanza si risolve agevolmente considerando che il canone 188 paragrafo 4 si inquadra nella normativa generale del Codex, mentre il canone 2314 rientra nella normativa speciale inerente alle sanzioni contro i delitti (pars tertia, titulus IX) e quindi alle modalità di erogazione delle  sanzioni, cioè ad una fase per così dire procedurale che, come tale, è subordinata a quella sostanziale ed opera se ad in quanto la procedura possa essere seguita.
Ora, è evidente che la procedura di cui al canone 2314 si riferisce alle modalità con cui un organo gerarchicamente superiore giudica e punisce le infrazioni di un inferiore e non sarebbe quindi applicabile a chi, anche solo apparentemente, detenesse nella Chiesa la «plenitudo potestatis» il  quale, non potendo essere ammonito da nessuno «ratione jurisdictionis» lo può essere invece da chiunque «ratione charitatis».

Si può inoltre argomentare che il canone 2314 è composto da due parti distinte:
a) imposizione della pena di scomunica «ipso facto» a tutti i delinquenti in materia di fede;
b) distinzione dell’erogazione delle sanzioni secondo la forma del delitto:
1) se non è pubblico, stabilisce le ammonizioni necessarie perchè lo diventi e non sia inoltre frutto di ignoranza della dottrina della Chiesa.
Se queste ammonizioni non sortono alcun effetto di ravvedimento nel delinquente, viene dichiarata la deposizione dall’ufficio o dal beneficio.
2) se è pubblico («publice adheserint») mantiene la vacanza ipso facto stabilita dal canone 188 paragrafo 4 («firme»).
In ogni caso, l’«occasio legis» e cioè il timore da parte di Papa Paolo IV che nel conclave convocato successivamente alla sua morte potesse essere eletto il cardinale Morone - sospettato di eresia, ma che mai era stato ufficialmente riconosciuto come eretico - dimostra l’evidenza che la Bolla intendeva colpire chiunque versasse in eresia anche se non in precedenza riconosciuta.
L’interpretazione qui patrocinata del resto (e cioè l’invalidità «ipso jure» dell’elezione a pontefice romano di un eretico o scismatico è pacifica in dottrina, tant’è vero che l’Enchiridion Juris Canonici già citato nelle note afferma: «Eligi potest quolibet masculum, usu rationis pollens, membrum Ecclesiae. Invalide ergo eligerenfur feminae, infantes, hahituali amentia laborantes, non baptizati, haeretici, schismatici» (1).

A conclusione di queste asserzioni, osserviamo «ad abundantiam» che:
1) che la BoIla di Paolo IV è stata ribadita anche da S. Pio V con il Motu proprio «Inter multiplices curas».
2) che il Codex del 1917, lungi dallo svalutarla, ne ha addirittura ampliato la portata chiarendo ciò che in essa era solo implicito, e cioè che anche l’eresia superveniens causa la decadenza del Pontefice Romano come da ogni altro ufficio ecclesiastico.
Tra le obiezioni che vengono ulteriormente sollevate per inficiare la validità della Bolla di Papa Paolo IV, ricorre sovente, quella secondo cui Pio XII con la costituzione «Vacantis Sedis apostolicae» dell’8 dicembre 1945, ha derogato l’applicazione del documento paolino in oggetto.
Pio XII infatti, ha dichiarato che: «Nessun cardinale può essere escluso dall’elezione attiva e passiva del Sommo Pontefice, con il pretesto o il motivo di non importa quale scomunica, sospensione, interdetto o impedimento ecclesiastico. Queste censure infatti, restano sospese solamente per questa elezione e conservano il loro effetto per il resto» (2).
La lettura di questa frase dimostra in modo evidente che l’obiezione è priva di fondamento.
Non si tratta infatti come nella Bolla di Paolo IV di eresia, ma di censure disciplinari.
L’eresia come l’apostasia, non si oppongono alla disciplina della Chiesa, bensì alla fede, e non entrano quindi, nella categoria degli «impedimenti ecclesiastici», di cui parla Pio XII nella costituzione sopra citata.

Bisogna inoltre ancora ricordare che non è la Chiesa che scaccia dal suo seno gli eretici e gli apostati, come invece accade per coloro che danno pubblicamente scandalo.
Sono gli eretici e gli apostati che l’abbandonano e che da allora non gli appartiene più e non a causa delle pene (anatema o scomunica), di cui essa li colpisce a volte ulteriormente, ma per effetto della loro diserzione.
La differenza tra la nozione di eretico e quella di scomunicato ci è data a conferma di ciò dal Catechismo del Concilio di Trento (3).

Carlo Alberto Agnoli



1) Sipos - Galos, opera citata, pagina 187.
2) Pio XII, «Acta apostolicae sedis», Roma, annata 1945, Titolo II, capitolo 1, paragrafo 34.
3) Catechismo del Concilio di Trento, capitolo X, paragrafo 3.


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