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L’uomo che ha detto la verità
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Benchè debba essere un giorno lieto quello in cui Aleksandr Solgenitsin è tornato a Dio, la sua morte mi lascia un vuoto personale nell’anima, come la morte di mio padre, o di mia madre. Per la nostra generazione, è l’uomo che ci ha insegnato a dire la verità. Una questione che divide gli uomini in due.

La verità che ci raccontò Solgenitsin era l’enorme mostro concentrazionario, inghiottitore di milioni di vittime, che ingrossava nella pancia del paradiso dei lavoratori sovietico. Una verità immane, spaventosa, che colava sangue e gridava vendetta, e che la mia generazione non vedeva. Faceva finta di non vedere. E non solo e tanto in Russia, dove il silenzio aveva una giustificazione nel terrore; era l’Occidente a tacere, era - per quanto mi riguarda - una intera generazione di giornalisti italiani, grandi firme comprese, grandi giornali compresi.

Così capii che anche i giornalisti si dividono in due: e di quelli che tacciono la verità evidente, capii che non si deve fare parte. Che ogni generazione ha l’obbligo di denunciare il suo mostro, quello con cui l’umanità, in quella generazione, convive in silenzio.
Solgenitsin, dicevano in quella metà, non era un vero scrittore; era un pubblicista, un giornalista. Come se questo fosse un modo di sminuirlo. Come se nella nostra epoca di Gulag il primo obbligo, per chi sa scrivere, fosse quello di scrivere romanzi.

I romanzi di Solgenitsin sono effettivamente sbiaditi, in confronto alla sanguinosa potenza di Arcipelago Gulag. Era stato internato nell’orrore di cui si taceva; era stato uno di loro, uno zek; e senza carta nè penna, solo stampandosi nella memoria prodigiosa migliaia di vite, di volti, di nomi e storie di prigionieri e vittime, e dei loro persecutori, aveva scritto il reportage dell’indicibile. E non c’è stato libro, nel nostro ‘900, pari ad Arcipelago; un libro scritto con gli stracci e i pidocchi, la fame e il sangue e lo sterco dei prigionieri.

Si capì allora che l’Unione Sovietica, il grande esperimento del comunismo reale con le sue pretese realizzazioni e «conquiste»,  non era, e non era mai stato, altro che questo: un inghiottitotio di uomini, una immensa energia posta al servizio totale della burocrazia carceraria e della tortura.

Oggi i giovani possono non capirlo, ma era una cosa che negavano non solo i grandi giornalisti nè solo i politi comunisti occidentali, ma i grandi progressisti alla Giorgio Bocca, i grandi direttori avanzati, persino i Papi. Il mostro brulicante di zek morenti e congelati era lì, e nessuno se ne dava per inteso. Non faceva progressista, essere anti-comunista; non agevolava la carriera, ma questo non era il peggio. Il peggio era che denunciare il Gulag non faceva «tendenza».

Così ho imparato, grazie a quel mio e nostro padre russo, che accanto a noi vivono aguzzini potenziali, capaci di tutto. Non in Russia, ma a Milano e a Roma, gente che per non andare contro la «tendenza» di moda è capace di partecipare al massacrro silenzioso del secolo (qualunque sia), di aderirvi e - se la situazione del potere cambia qui da noi - di parteciparvi come poliziotti, delatori e secondini. So che esistono. Sono ancora tra noi.

Tutti, ancora, tacciono il mostro della nostra generazione, quello che ha cominciato ad artigliarci dall’11 settembre, e che oggi si chiama America.

Solgenitsin stava morendo di cancro nel Gulag; fu dimesso perchè andasse a morire a casa, e lo stesso giorno lo raggiunse la notizia della morte di Stalin. Il suo cancro sparì. Egli ha sempre creduto che Dio stesso gli avesse dato altri anni, con il compito di dire la verità fino in fondo. Perchè per dire la verità non si deve, anzitutto, aver paura di morire. Non di quello che possono farti gli uomini - che possono fare di tutto, e vivono accanto a te, nella tua stessa civiltà - perchè ogni ora, per chi dice la verità, è un’ora donata.

Oggi che il comunismo si è volatilizzato come un sogno/incubo, subito dimenticato dagli aguzzini e dai loro complici, sembra impossibile: ma ci volle il coraggio sovrumano di Solgenitsin e di una schiera in gran parte anonima di suoi amici, di persone sopravvissute, che gli hanno portato le loro storie, e le storie degli ingoiati e degli scomparsi, perchè le scrivesse, per fare crollare quella muraglia. E Solgenitsin, dicendo la verità, ha riabilitato i russi; ha riabilitato, lui patriota, la Russia.

Negli ultimi anni, nella tarda vecchiaia ancora prodigiosamente attiva, si è dedicato alla storia degli ebrei e alla loro parte nella costruzione del Gulag e, più in generale, del sistema di menzogna che è la modernità. Degli ebrei proprio come gruppo etnico, che in massa partecipò alla «rivoluzione» e alla sua chiusura concentrazionaria, e che oggi non si pente di nulla, non riconosce alcuna responsabilità, gettandola invece e sempre sugli altri.

Ecco un’altra cosa che non fa tendenza, che non si deve dire; che fa bollare come «antisemiti»  esattamente come trent’anni fa faceva bollare da «anticomunisti» che non avevano capito «la direzione della storia». Nella sua vecchiaia, Solgenitsin ha violato questo tabù.

Il suo libro «Due Secoli Insieme» è ciò che Arcipelago Gulag fu per gli anni ‘70-‘80 del 900. Egli aveva capito che l’obbligo di non tacere la verità, oggi, per la nostra presente generazione, significa non tacere la parte che l’ebraismo ha nel mondo, e a cui conduce il mondo. Un’altra questione che divide l’umanità in due.

L’umanità che tace l’evidenza per convenienza o per moda, che si fa complice del mostro attuale e presente fingendo di «vegliare» perchè non ritorni un nazismo, un mostro passato e defunto e che la nostra generazione non deve combattere, è anche oggi la maggior parte dell’umanità.

Ma il peso delle due umanità, ci ha insegnato Solgenitsin, non è uguale. Le poche decine che dicono la verità pesano più dei milioni che tacciono. Perciò, benchè siamo lieti che egli sia ormai al sicuro presso la Verità,  la sua morte ha aperto un grando vuoto nelle nostre anime personali.

Solgenitsin lascia il vuoto di milioni di uomini; un vuoto che i miliardi di uomini che vivono nella menzogna non riempiranno mai.

 
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