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L’analogia: ancora sul «Sedevantismo»
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Introduzione

Il fatto: Una predica e una conferenza

Dopo aver chiesto (6 luglio 2008), pubblicamente e per iscritto, una risposta alla redazione di Sodalitium, riguardo al numero 62 del giugno 2008, ho atteso inutilmente più di due mesi, ma non ho ricevuto nessun riscontro.
Quindi ridomando - sinteticamente - se Pio XII non è Papa formalmente ma solo materialmente.
Inoltre Benedetto XVI, non essendo neppure papa «materialiter» (secondo padre Guérard) i «tesisti», per essere coerenti con la «Tesi» dovrebbero o consacrare un Papa, o dimostrare di essere loro stessi i «legati diretti [rappresentanti aventi eguale valore del soggetto rappresentato, N. Zingarelli] di Cristo».
Quale delle due opzioni intendono scegliere?

Lo devono dire pubblicamente almeno ai loro fedeli.
Non possono eludere il problema, scrivendo che la Tesi di Cassiciacum è ancora oggi la sola soluzione al problema della crisi di autorità nella Chiesa (Sodalitium, numero 62, pagina 4).
Inoltre devo specificare, più dettagliatamente, che anche per quanto riguarda l’analogia tra Stato e Chiesa Sodalitium esce fuori dal seminato.
L’8 dicembre 2006, feci una predica a Roma, in cui spiegavo i motivi che mi portavano ad allontanarmi dall’Istituto Mater Boni Consilii.
Dicendo - tra l’altro - che tra Stato e Chiesa vi è un’«analogia» e che quindi la questione della mancanza di autorità nel Papa, doveva essere approfondita (e sfumata) «analogicamente», secondo quanto gli scolastici (con San Tommaso d’Aquino in testa) avevano scritto sul Principe tiranno.
Infatti mi preoccupavano le conclusioni giuridico-canoniche che i «tesisti» tiravano dalla «Tesi di Cassiciacum», annullando essi «canonicamente» tutti gli atti della Chiesa ufficiale e arrivando, così, a delle conclusioni pratiche ma «universali», evidentemente prive di buon senso e di «diritto»; i Romani antichi dicevano: «Summum jus, summa injuria» (la legge troppo stretta, produce le più grandi ingiustizie).

La «tesi» di padre Guérard seguiva, non la via del Papa eretico, (che era stata affrontata da monsignor Antonio De Castro Mayer assieme ad Arnaldo Xavier Da Silveira), ma una duplice strada:
a) In atti magisteriali del Concilio Vaticano II («Dignitatis Humanae»), in cui il Papa dovrebbe essere infallibile si trovano degli errori, quindi Paolo VI non è Papa in atto ma solo in potenza;
b) l’autorità ha come fine il bene comune della società.
Ora se un’autorità pone atti oggettivamente contrari al bene della società è una tirannia e non è più l’autorità.
Quindi Paolo VI non è formalmente Papa, ma solo materialmente.
La constatazione che facevo (analogia tra Stato e Chiesa/principe e Papa) è stata negata da un sacerdote «tesista», (DR dell’Istituto Mater Boni Consilii), in una conferenza registrata, che ha tenuto a Roma il 14 gennaio 2007 presso l’Oratorio San Gregorio VII, in via Pietro della Valle.
Non avrei voluto rispondere pubblicamente e per iscritto, ma siccome il numero 62 di Sodalitium (luglio 2008) ha ripreso l’argomento, nella stessa maniera scorretta in cui DR lo presentò, nel gennaio 2007, devo rettificare pubblicamente.

Il principio: L’analogia

1) Tra un re e un Papa esiste «analogia»
Un termine (per esempio, essere), si attribuisce a vari soggetti (Dio, angelo, uomo, cane, pino, sasso), secondo un significato «essenzialmente diverso» (per esempio, Dio è l’Essere per sé sussistente ed infinito; le creature - dall’angelo sino al sasso - ricevono l’esistenza da un altro e sono finite).
Mentre la «somiglianza» (tra i soggetti dei quali si predica l’essere) è solo «relativa» (per esempio, Dio e le creature sono simili, solo relativamente al fatto di esistere).
Ma il re e il Papa, hanno «qualcosa di relativamente simile», governano per il bene comune che è il fine della società; mentre sono «sostanzialmente diversi», in quanto il re governa temporalmente e il Papa spiritualmente ed è infallibilmente assistito da Dio (a certe determinate condizioni) nelle questioni di fede e di morale.
Onde, re e Papa sono concetti «relativamente simili» («quanto al fatto» di governare) ed «essenzialmente diversi» («quanto al modo di governo»); uno regna nelle cose temporali, l’altro in quelle spirituali.
Quindi, tra re e Papa vi è «analogia» (non piena «identità», né totale «diversità»), non essendo della stessa specie (uno è soprannaturale e l’altro è naturale), ma avendo qualcosa in comune, governano entrambi una società perfetta nel suo genere (Stato e Chiesa), anche se di ordine (naturale e soprannaturale) essenzialmente diverso.
Secondo DR nell’analogia ci si deve fondare solo «sulla somiglianza» (sic! Non volevo crederci, ho dovuto riascoltare la registrazione tre volte per poterlo ammettere, tanto grave è l’errore, anzi l’orrore filosofico in cui DR è incappato) e non sulla dissomiglianza, altrimenti (secondo lui) la conclusione del ragionamento è errata.
Inoltre, l’analogia a differenza dell’«equivocità», che riguarda solo la dissomiglianza (come tra il «riso» che si mangia e il «riso» dell’uomo), e dell’«univocità» la quale si fonda solo sulla somiglianza o identicità (Antonio, Marco e Giovanni, sono tutti uomini, allo stesso identico modo); l’analogia, come dicevo, si basa su somiglianza e dissomiglianza.
Pretendere di parlare «solo» di dissomiglianza nell’analogia, significa distruggerla e farne un equivoco.
Se tra Dio e il sasso c’è analogia, a maggior ragione c’è tra Stato e Chiesa, tra re e Papa, in quanto la dissomiglianza tra un sasso e Dio è infinitamente maggiore di quella che vi è tra il re e il Papa, lo Stato e la Chiesa, pur tuttavia vi è una certa somiglianza, relativamente o quanto al fatto di esistere (Dio-sasso, esistono) e quanto al fatto di essere società (Chiesa-Stato) o autorità (Papa-re).
Questa è la prima ragione che mi consente di non attribuire alla «Tesi di Cassiciacum» come è presentata da DR (= «Antitesi di Verrua») alcun valore.
Quanto a quella di padre Guérard, essa ha ben altro spessore.

Infatti,
2) monsignor Guérard des Lauriers, nell’intervista rilasciata nel maggio 1987 a Sodalitium numero 13 e ristampata in «Il problema dell’Autorità e dell’episcopato nella Chiesa», CLS, Verrua Savoia, 2005, insegna (contrariamente a DR) che:
Una delle due vie per dimostrare che Paolo VI non è formalmente papa, è quella che egli non aveva la volontà oggettiva di governare per il bene della Chiesa.
«Gesù Cristo, istituendo la sua Chiesa come società umana visibile. (…) Una persona… che in seno ad una società, perseguirebbe abitualmente (…) l’annientamento del bene comune (…), una tale persona dunque non può essere l’autorità (…). Ora, in ogni società, l’esistenza stessa dell’autorità richiede di essere fondata sul proposito di realizzare il bene comune che è il fine della società» (pagina 35).
Ma, questa non-volontà di fare il bene della società ecclesiastica, lo rende una «persona fisica che ‘occupa’ almeno apparentemente la Sede episcopale di Roma» (pagina 33).
Però, questa è esattamente la definizione di tiranno.
Monsignor Guérard aggiunge: «occupa la Sede in una maniera ‘illegittima’ e sacrilega» (pagina 34).
Qui monsignor Guérard non parla del re temporale ma del papa-tiranno ‘spirituale’, che occupa la (santa) Sede con la «esse» maiuscola, ma in maniera «sacrilega», poiché la Sede è santa ed è il trono spirituale e, quindi, «implicitamente» egli fa un’analogia tra Papa e re (anche se sembrerebbe che affermi ogni tiranno - di titolo o di esercizio - è sempre illegittimo «de jure et de facto».
Mentre tutti gli scolastici fanno le dovute distinzioni.
Dunque, per monsignor Guérard vi è analogia tra re-tiranno e papa-usurpatore.
Lo stesso si può dire per don Sanborn, che ne «Il papato materiale», CLS, Verrua Savoia, 2002, (Sodalitium, numeri 47, 48, 49) giustamente paragona «esplicitamente» Papa e re; infatti scrive: «L’autorità considerata in concreto, cioè in un Papa o un re» (pagina 38). Inoltre scrive: «L’autorità considerata concretamente consta di un elemento formale e di uno materiale.
L’elemento formale dell’autorità è (…) il diritto di legiferare. In altre parole è il Papato stesso. L’elemento materiale (…) è l’uomo stesso che riceve questo diritto di legiferare. ‘L’autorità in concreto, cioè il Papa o il re’, nasce da questi due elementi» (pagina 53).

3) Quanto alla obiezione di DR secondo cui:
Il Papa è infallibile e il re no, perciò tra loro non vi è analogia.
Rispondo che, innanzitutto, la ragione ci dice che Dio è infinito, il sasso no, ma tra loro c’è analogia, quindi anche tra re e Papa sussiste l’analogia, pur se il Papa non è infinito ma solo
infallibile.
Inoltre il Papa è infallibilmente assistito, se manifesta chiaramente la sua volontà di obbligare a credere come rivelato (sotto pena di peccato) ciò che egli insegna.
Inoltre  monsignor Guérard, scrive: «L’occupante della Sede apostolica [il cardinale Montini, almeno dopo il 7 dicembre 1965] non è papa formaliter.
Quindi, monsignor Guérard fa un’analogia tra papa occupante la santa Sede e re occupante il trono, indipendentemente dall’infallibilità, essendo l’analogia un rapporto tra due soggetti (per esempio, Papa/re), in cui la dissomiglianza (infallibilità - soprannaturale - nella fede e morale) supera la somiglianza (governare una società - Chiesa/Stato - per il bene comune).
Ecco, perché ritengo che la «Tesi di padre Guérard» sia stata mal presentata e applicata da alcuni «tesisti» tra i quali DR spicca, sino a trasformarla in un’«Antitesi di Verrua».
Infatti la «Tesi di Cassiciacum» è fondata sull’analogia, ma l’«Antitesi di Verrua» è presentata in maniera «univoca» da persone assai «equivoche» che non vogliono emendarsi; capita a tutti di sbagliare, ma non si può giustificare, a forza di sofismi, i propri errori.
Certamente è difficile ammettere «mi sono sbagliato», ma quando se ne ha l’evidenza è necessario.

4) Il Papa è «sovrano in senso spirituale, politico e temporale nello Stato del Vaticano. (…) Poiché la Chiesa è una società giuridicamente perfetta, ossia un membro della società internazionale, il suo Capo è sovrano anche in senso internazionale e politico» (F. Roberti - P. Palazzini, «Dizionario di Teologia morale», Roma, Studium, 1955, voce «Pontefice»).

5) Non ho mai negato l’elemento soprannaturale della Chiesa, ma «come i Docetisti e gli Gnostici negano l’esistenza del corpo fisico e reale di Cristo, così i Protestanti e i Pneumatologi negano l’elemento visibile e giuridico-umano della Chiesa» [Hugo. Aemilius Lattanzi, «De Ecclesia Societate atque Mysterio», Roma, Pontificia Università Lateranense, 1956 (1969), pagina 378].
Onde Sodalitium deve fare attenzione a non trascurare l’elemento umano della Chiesa; infatti lo stesso monsignor Lattanzi spiega che «la Gerarchia è l’organo ordinario della ‘salus animarum’.
Quindi senza il ministero della Gerarchia l’uomo non entra nella Chiesa» (ibidem, pagina 229).
Inoltre «l’Autorità è causa formale della Chiesa, sua essenza o natura» (ibidem, pagina 234).

San Tommaso d’Aquino insegna che «il Vicario di Cristo non è per nulla accidentale, ma appartiene all’essenza del Corpo Mistico» (C. Gent., IV, c. 76).
Onde: «La personalità della Chiesa Corpo Mistico di Cristo, non si può concepire senza un Capo visibile: San Pietro e il Papa attualmente regnante» (H. Clerissac, citato da Lattanzi a pagina 390).
Durante l’interregno che trascorre dopo la morte di un Papa e l’elezione del successivo, la Chiesa è retta collegialmente dai cardinali.
Onde vi è una Gerarchia (materiale e formale) che governa la Chiesa «pro tempore».
Mentre nel caso della «Tesi di Cassiciacum» la Chiesa non ha Gerarchia «per nulla», a partire dal 2005 (elezione di Benedetto XVI) e solo «materiale» da (Pio XII/Giovanni XIII?) Paolo VI sino a Giovanni Paolo II.
Ora il Papa è «essenziale» alla Chiesa, quindi la mancanza «totale» di Autorità pontificia è incompatibile con la natura della Chiesa fondata da Cristo su Pietro sino alla fine del mondo e nel caso del «materialiter papa», avremmo una successione puramente materiale che è come quella degli scismatici, la quale non salvaguarda l’apostolicità della Chiesa, che deve essere formale, è una sua nota e quindi la sua essenza.
In entrambi i casi alla Chiesa mancherebbe la natura di Chiesa (sarebbe Chiesa pur non avendo la natura o l’essenza di Chiesa), il che è contraddittorio e assolutamente impossibile: «Una stessa cosa non può essere [Chiesa] e non essere [Chiesa] nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto» (principio di non contraddizione).
Confronta anche Dario Composta, «La Chiesa visibile», Roma, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1985, pagine 151, 440 e 441).

Uno scritto

Ora, Sodalitium, numero 62, riprende l’enunciato orale di DR e lo aggrava («si fieri potest») per iscritto.
Infatti a pagina 26 (citando Pio XII) scrive giustamente: «La Chiesa pur avendo in comune con la società civile degli elementi sociali e giuridici (…), le è superiore per lo spirito soprannaturale». (Questa è la definizione dell’analogia, si paragona Chiesa e Stato in quello che hanno «in comune» e si afferma la diversità che intercorre tra loro, essendo la Chiesa superiore, dacché sovrannaturale, allo Stato).
Poi nella pagina seguente, l’articolista, scrive («de suo») erroneamente che la Chiesa: «Non può essere paragonata alla società civile».
Ecco di nuovo l’equivoco, negare l’analogia, anzi confondere l’analogo (somiglianza relativa o paragone tra Chiesa e Stato, quanto al fatto di essere società perfette) con l’univoco, identità assoluta tra Chiesa e Stato, che non sussiste e di cui mai ho parlato.
Quello che stupisce è la facilità con cui ci si contraddice («Chiesa e Stato hanno qualcosa in comune», però «non possono essere paragonate») non solo più oralmente in una conferenza, ma tra una pagina e la successiva, per iscritto, quindi dopo aver «riflettuto» e corretto.
Inoltre, a pagina 28, nota numero 7, citando Maquart («Elementa philosophiae»), si scrive giustamente che «l’analogo è un predicato che conviene a molti secondo una ragione essenzialmente diversa, tuttavia simile sotto un certo rapporto».
Ora come è possibile non accorgersi di contraddirsi, tre volte, nel corso di tre pagine?
Quando si citano degli autori approvati (Maquart o Pio XII) si dice giusto, quando si parla da sé si erra.
Bisognerebbe fermarsi un momento e riflettere seriamente, prima di parlare e scrivere, e poi tacere, astenersi e correggersi, infatti «errare è umano, ma perseverare diabolico».
Poi se fosse il caso di ignoranza, non ci si mette a «pontificare errando» soprattutto per iscritto e pubblicamente.
Nulla è più disdicevole dell’ignoranza presuntuosa e arrogante.
L’equivoco continua, a pagina 29 un altro valente articolista scrive che l’obiezione [analogia tra Stato e Chiesa] mossa contro «La Tesi» «immagina che la medesima cosa stia accadendo attualmente nella Chiesa».
Nossignore, per definizione l’«analogo» non è «identico» o medesimo, ma sostanzialmente diverso e solo relativamente simile.
L’identico o medesimo è univoco, non analogo.

Vi è anche l’aggravante del voler perseverare nell’errore; infatti nel gennaio 2007, mandai in privato al direttore della rivista Sodalitium la prima parte di questo scritto, in cui cercavo di spiegare che nella predica dell’8 dicembre 2006 avevo fatto un’analogia e non un’identità (come lui mi aveva fatto dire, nella sua conferenza del 14 gennaio 2007) tra Chiesa e Stato; chiesi una risposta, pronto a correggermi se mi avesse dimostrato che mi ero sbagliato in qualcosa, mai essa è venuta, anzi la si ripresenta per iscritto un anno e mezzo dopo, tale e quale («perseverare è diabolico»).
L’articolista continua asserendo che l’obiezione dell’analogia tra Papa/principe: «Vuol dire attribuire alla Chiesa soprannaturale esattamente quelle cose che appartengono formalmente a una società umana e naturale».
Nossignore, non ho mai obiettato l’«esatta(mente») identità tra Chiesa e Stato.

Inoltre si notano diverse «altre contraddizioni» in cui cade la rivista Sodalitium tra una pagina e la seguente, per esempio: la nuova preghiera del Venerdì Santo, promulgata da Benedetto XVI, a pagina 57 è presentata («sic et simpliciter») come la negazione dello stato di privazione di verità in cui si trova il giudaismo, mentre a pagina 60 si scrive che: «La preghiera di Ratzinger è ancora intitolata ‘Per la conversione dei Giudei’, come lo era nel Messale del 1962».
Ora, se qualche prelato (Kasper) ha cercato di interpretarla in senso escatologico, ciò che conta è la preghiera in sé come è stata promulgata da Benedetto XVI; nel caso nel testo si potrebbe ravvisare un accenno alla fine dei tempi (Romani XI, 26), nel titolo si scrive: «preghiamo [al presente] per la conversione dei Giudei».
Onde l’interpretazione di questa preghiera non può essere univoca: solo escatologica, (ad esempio, i rabbini l’hanno intesa come significante lo stato «attuale» di errore in cui si trova «ora» Israele per il quale si prega «adesso» affinché si converta da esso.
A chi obiettava che la preghiera è solo escatologica rabbi Riccardo Di Segni rispondeva: «adesso oltre ad essere ‘accecati’ noi ebrei saremmo pure ‘deficienti’…), ma deve essere sfumata e soprattutto bisognerebbe «accordare i violini» degli articolisti, altrimenti dal loro «Sodalizio» non ne esce una melodia, ma una cacofonia e diversamente da rabbi Di Segni potrebbero risultare oltre che ciechi anche «mancanti»...

Infine vi sono degli «equivoci» che andrebbero chiariti: a pagina 59, si scrive che il Messale Romano del 1962 è «sostanzialmente, anche se molto imperfettamente il Messale tradizionale».
Ora se è «sostanzialmente» tradizionale è «sostanzialmente» buono e non lo si può rifiutare.
Ma a pagina 62, l’articolista spiega che il Messale del 1962 lo costrinse ad abbandonare la Fraternità Saserdotale San Pio X nel 1983, dacché lo si voleva obbligare a celebrare con esso e lui non lo poteva accettare.
Allora significa che il Messale del 1962 non è neppure «molto imperfettamente» tradizionale, ma modernista e intrinsecamente cattivo?
L’autore non si spiega sufficientemente e lascia aperta la porta all’equivoco.
La sua frase è suscettibile di due diverse interpretazioni.
Dovrebbe specificare.
Soprattutto se si guardano col microscopio le ambiguità altrui (addirittura quelle di Pio XII, anche se si cerca - scorrettamente - di attribuirle a Bugnini, come fanno generalmente i modernisti, per evitare la negazione dell’autorità del Papa, la condanna e restare così nella Chiesa), altrimenti si rischia di «vedere la pagliuzza nell’occhio dell’altro e non la trave nel proprio».
La Chiesa di cui parlano i «tesisti» è quella della pura ragione, rinchiusa nell’enunciato di un «sillogismo imperfetto» e non quella reale e della storia.

Un ultimo appello

Rivolgo, quindi, un duplice appello:
1) ai sacerdoti: Che siano un po’ più «sfumati», senza condannare tutti quelli che non la pensano esattamente come loro; soltanto allora si potrà discutere con essi (1).
2) ai fedeli (che si sonO lasciati abbagliare da tanto sfoggio di scienza apparente): qualora i sacerdoti «tesisti» perseverassero in questo spirito di pretesa infallibilità (propria), fuggano poiché «se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadono nella fossa».
Fuggite i falsi riformatori degli altri (e non di se stessi).
Infatti le contraddizioni, gli equivoci, le falsificazioni scientemente volute, in cui cadono con perseveranza, li rendono evidentemente (ma non irreversibilmente) «guide cieche» e «mancanti».

Don Curzio Nitoglia



1) San Pio X, il 29 giugno 1914, nel «Motu Proprio» («Doctoris Angelici»), ordinava che la filosofia la quale si insegnava nei seminari e nelle università pontificie, dovesse porgere i principi della dottrina di San Tommaso d’Aquino e che il testo degli studi ecclesiastici fosse la Somma Teologica. Ma alla domanda: «Quale è la vera dottrina tomista?» San Pio X rispose che essa si trovava condensata nelle XXIV Tesi del Tomismo, composte da padre Guido Mattiussi s. j., nell’inverno del 1914 e approvate dalla Santa Sede il 27 luglio 1914. La Sacra Congregazione degli Studi e dei Seminari (febbraio 1916) definì le XXIV Tesi «regole sicure («tutae») di direzione intellettuale. Il Papa Benedetto XV approvava (7 marzo 1916) la decisione della Sacra Congregazione degli Studi e ordinò (nel 1922) a padre Edoardo Hugon o. p. di fare un commento in francese alle XXIV Tesi del Mattiussi (che le aveva già commentate in italiano). Papa Giacomo Dalla Chiesa le proponeva come «dottrina preferita dalla Chiesa, ma non le impose obbligatoriamente all’assenso interno» [confronta padre R. Garrigou-Lagrange o. p. , «Les 24 thèses th.», in «Angelicum», Roma, 1945 e in «La Synthèse Thomiste», Paris, 1950. Padre Tito Sante Centi o. p. , «La Somma Teologica. Introduzione generale», Firenze, 1950]. Ora se le XXIV Tesi sono «tutae» (certe o sicure), la filosofia suareziana o quella scotista sono non certe e non sicure, ma la Santa Sede non ha proibito di insegnarle pur mostrando la propria preferenza per la filosofia tomistica. Per quanto riguarda la differenza tra Suarezismo e Tomismo, confronta padre Cornelio Fabro, «Neotomismo e Suarezismo», (1941), EDIVI, Segni, 2005. Il filosofo dimostra comparando le due filosofie che tra esse vi è un’opposizione di contraddizione. Dunque o è vera l’una o l’altra. Ma la Chiesa pur avendo qualificato come certo il Tomismo lascia libertà al Suarezismo.
Ora non si può accusare San Pio X, Benedetto XV di essere relativisti, eppure hanno saputo distinguere e sfumare per unire, senza confondere.
Mi sembra che la stessa attitudine dovrebbe animare, sul problema della mancanza (materiale/formale) o meno di autorità nella Chiesa, i sacerdoti cattolici legati alla dottrina tradizionale della Chiesa. Senza dover gridare al relativismo o al liberalismo.

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