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Dovevano ribellarsi prima
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Il 9 marzo 1933, quattro giorni dopo essersi insediato come presidente, Franklyn D. Roosevelt ordinò la chiusura delle banche per 30 giorni. Servì? Non servì a nulla, i buoi erano scappati dalle stalle già da anni. Ma la decisione in quanto tale, il gesto autorevole per non dire autoritario, fece capire (o credere) agli americani che erano in buone mani.

«Se (Roosevelt) avesse dato fuoco al Campidoglio, avremmo tutti applaudito e detto: beh, almeno ha acceso un fuoco», commentò il saggista e umorista Will Rogers: «Tutta la nazione era con lui».

Questo episodio consente di confrontare quel che è successo a Bush: il «commander in chief», il «decisore in capo», dopo aver ingiunto di approvare il piano Paulson, non è riuscito a farsi obbedire nemmeno dai suoi deputati repubblicani.

Una presidenza che ha detto troppe volte «abbiate paura» fin dall’11 settembre 2001, stavolta, non è riuscita a piegare con la paura: nonostante un appello presidenziale TV alle 7.30 del mattino, già di per sè pauroso.

Hanno votato a favore di Bush più i democratici (140) che i repubblicani (133) - e anche questo è lo smascheramento «terminale di un regime falso e ambiguo».

Da otto anni la cosiddetta opposizione  ha sempre approvato tutto ciò che Bush ordinava - guerre superflue, bombardamenti, Guantanamo, malversazioni, invasioni fallimentari, Patriot Act, riduzioni delle libertà, tortura legale - ben sapendo che dietro quel commander in chief ridicolo e incapace c’era la nota lobby, pronta a punire i dissidenti.

Ora, per abitudine a servire, ha votato ancora; e l’opposizione l’ha fatta il partito del presidente.

Vedremo quanto il servilismo terminale dei democratici danneggerà il loro candidato Obama, che dopotutto ha accettato il piano Paulson; ma su questo avremo tempo di tornare. Per adesso, bisogna sottolineare che quel che accaduto a Washington è un fatto politico di enorme importanza: la rivolta del parlamento.

Più precisamente: della Camera bassa, meno importante e perciò memo controllata dai poteri forti, dove si lasciano vivere personalità anche anti-sistema, come Dennis Kuchinich (che presenta di continuo mozioni di impeachment) e Cynthia McKinney (la coraggiosa nera che pubblicamente non crede alla versione ufficiale sull’11 settembre); alla Camera, dove gli eletti hanno un rapporto più vivo e vicino con i loro elettori.

Gli elettori li hanno subissati, i deputati USA, di telefonate e mail. Chiaramente «la nazione non era con lui», stavolta. E i parlamentari, terrorizzati dalle prospettive elettorali rovinose, hanno ascoltato.

Non si salva Wall Street; non si viene meno al dogma del liberismo di mercato - di cui ogni americano è imbevuto come un catechista - perchè giova ai ricchi. Non si tassano i poveri per dare ai banchieri. In qualche modo, l’ideologia del sistema si è rivoltata contro il sistema.

Perciò la bocciatura del piano Paulson - comunque venga medicata e rimediata - è un fatto politico  impressionante. Che gli otto anni di Bush abbiano dissipato in modo totale la forza imperiale, la credibilità e il prestigio degli Stati Uniti, si dice nei discorsi fra intellettuali europei: ma ora, a Washington, s’è visto che Bush (e Cheney e i neocon) hanno dissipato la credibilità e il prestigio della presidenza persino dentro gli USA.

E’ una crisi politica di prima grandezza, con cui la «democrazia» americana entra in terra incognita.

Non s’è mai vista un’America avanzare nella storia senza il presidente. E nè Obama nè McCain hanno l’aria di esser capaci di restaurare il prestigio esecutivo. Nè l’uno nè l’altro hanno soluzioni per la crisi, entrambi ripetono le lezioni dettate da Goldman Sachs, e nessuno di loro pare capace di prendere una decisione «qualunque» come Roosevelt.

Tutto ciò è naturalmente molto pericoloso: c’è un vuoto di potere al centro dell’impero, un vuoto immenso che non sarà riempito domani. Ma è anche qualcosa di vitale. I rischi dell’imprevisto portano aria nuova, ma è smentita ancora una volta la certezza di Fukuyama. La fine della storia, che annunciava con la vittoria finale della «democrazia», è rimandata.

Con tutte le conseguenze sulla gente, certo: povertà, arretramento della vita, insicurezza crescente. Ma almeno, paure reali e vere difficoltà cominciano a sostituire le paure immaginarie, Bin Laden, Al Qaeda, Ahmadinejad-Hitler. I terroristi islamici sotto ogni letto...

C’è da rimpiangere che i deputati americani non abbiano trovato questo coraggio prima, molto prima. Avessero detto no alla guerra contro Saddam, avessero rigettato la favola delle armi di distruzione di massa, l’America avrebbe ancora la sua potenza e forse anche la crisi finanziaria sarebbe stata scongiurata. Come ogni sistema che cade, infatti, cade per la sua menzogna interna, evidente a tutti ma da tutti accettata.

Ora le difficoltà vere e che saranno durisisime - disoccupazione, pensioni perdute, depressione economica, si può sperare che almeno portino, come diceva Solgenitsyn, a voler «vivere senza menzogna». La strada sarà lunga e dolorosa. Ci vorrà molto coraggio della verità per rigettare il dogma del capitalismo globale terminale.

Per capire che i suoi trionfi si riducevano ad un trucco fondamentale: il capitale si retribuiva troppo  a spese del lavoro, che retribuiva sempre meno. Così si è creato capitale in eccesso, che ha schifato gli impieghi produttivi e si è tramutato in capitale finanziario globale, «una industria che ha affinato di continuo l’arte di far denaro vendendo e comprando altre forme di denaro», denaro-debito, pseudo-capitale. Ma per questo, ha avuto bisogno che le masse occidentali, mentre perdevano potere d’acquisto, comprassero sempre di più le merci e carabattole importate.

Con quali soldi? Con l’indebitamento crescente.  Non puoi comprarti la casa? Eccoti il mutuo subprime a tasso variabile; il «valore» della casa aumenta, sicchè tu - consumatore americano che guadagni sempre meno - puoi ricavar denaro accendendo una nuova ipoteca.

Così i consumatori sono stati spinti a consumare ricchezze che non avevano ancora prodotto; anzi che in Occidente non produrranno più, perchè i lavori sono andati in Cina. Il tutto, fra grandi inviti ad accettare «la flessibilità», a rinunciare al sogno dell’impiego a vita, all’incitamento alla «formazione permanente»: menzogna nella menzogna.

Questa menzogna ha distrutto - nelle anime, nella società - il valore umano e sociale del lavoro,
il lavoro come dignità, come completamento dell’uomo.

Tutto il degrado morale che ci è cresciuto attorno - dalle diciottenni che non hanno altro sogno che essere veline, fino al consumo forsennato di coca - vengono in fondo dalla marginalizzazione del lavoro come essenziale alla costruzione dell’uomo, come suo bisogno dell’anima.

Il capitalismo terminale, per sopravvivere fino ad oggi, ha dovuto «consumare» anche questo, dissipare anche questo, il valore non economico di un lavoro onesto. E con ciò, alla fine, il liberismo terminale si è segato il ramo su cui appoggiava.

Milioni di lavoratori precarizzati che nemmeno si definiscono come lavoratori (tanto è marginalizzato il concetto) vengono indebitati sempre più, per creare «denaro» da vendere e comprare nella «industria finanziaria». Ma la cosa deve avere un fine, viene il momento in cui gli indebitati non riescono più a pagare le rate. E’ questo il capitalismo che oggi vediamo crollare. Sicchè è inutile piangere sul piano Paulson bocciato.

Certo, ora comincia un durissimo «deleverage» con fallimenti a catena del sistema usurario. Ma anche se funzionasse, salverebbe questo sistema terminale e ormai terminato, non certo i destini dei milioni di consumatori indebitati con lavoro precario e in via di disoccupazione di massa.

Quel sistema non solo non poteva durare; non «doveva» durare. Il «benessere» che ci dava ha avuto un prezzo troppo alto; ora, ci toccherà disintossicarci da telefonini e veline, come i drogati si devono disintossicarsi dalla droga. Farà male. Ce lo siamo meritato. E’ la legge del karma. Ma che fare? Come difendere i nostri risparmi?

Temo che non sia più un tipo di domanda attuale: i deputati USA vovevano ribellarsi prima, l’hanno fatto in ritardo. Ormai, la sola cosa che quel poco di potere decisione e autorità rimasto a Washington potrebbe fare è quel che suggerisce l’economista francese Paul Jorion: una moratoria  sui debiti-crediti (1). Specie sui Credit Default Swaps (CDS), quelle pseudo-assicurazioni in cui due parti si assicurano contro il rischio di fallimento... di una terza parte. E naturalmente, oggi la parte che deve pagare non ha i fondi per pagare la scommessa perduta: la pretesa assicurazione non assicura niente.

Peggio: i CDS, che legano migliaia di ditte in un groviglio di scommesse fatte le une sulla pelle delle altre, «sono il miglior modo di diffondere la peste dell’insolvenza di una di esse alle altre, comunicando all’insieme la fragilità della maglia più debole della catena».

Il mercato dei CDS vale, in USA, 62 mila miliardi, una volta e mezzo il PIL mondiale, l’intero ammontare dei deposiri bancari del pianeta. L’arma di distruzione di massa di cui parla Warren Buffett.

Jorion propone una moratoria: non per risolvere la situazione, ma per congelarla, di prendere tempo in modo che un mercato organizzato dei CDS possa essere formato; ed eventualmente, la moratoria sarà poi trasformata in «interdizione permanente» di questi strumenti.

E’ un po’, in grande, la chiusura delle banche per 30 giorni ordinata da Roosevelt nel 1933. Ma dov’è il  Roosevelt che ci serve?

Ecco il problema. Perchè bisogna farlo subito. Altrimenti, dice Jorion, non resta che la soluzione dei marinai bretoni nel pieno della tempesta: «Fatto tutto quel che l’uomo può fare, ci prendiamo per mano e raccomandiamo le nostre anime a Sant’Anna».




1) Paulo Jorion, «La piège des Crédit Default Swaps», Le Monde, 30 settembre 2008.


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