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Depressione e le sue allegre follie
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Una nave? E’ quasi gratis

Lo scorso giugno, se volevate noleggiare una nave per carichi secchi (del tipo più grosso, detto Capesize, ottimo per grani, cemento, minerali ferrosi e non) dovevate sborsare 234 mila dollari al giorno. Ed oggi?

Gli armatori si contentano di 7,340 dollari al giorno. Molto conveniente a dir poco. A quel prezzo, le compagnie di navigazione sono in perdita, ma le navi da carico ferme nei porti costano loro parecchio, in ogni caso. Ed ora, quelle navi ferme affollano in doppia fila le banchine di Singapore, Hong Kong e gli altri porti globali.

Prima, col boom del commercio globale, non si trovavano mai abbastanza cargos (di qui i rincari assurdi dei noli); oggi, ce ne sono troppe. Il Baltic Dry Index, che misura questo tipo di servizio, è caduto del 92% (1).

Ciò significa che il commercio mondiale di materie prime è precipitato quasi a nulla, sicuro segno premonitore di una riduzione mai vista della produzione industriale nel mondo; mai vista, s’intende, prima del 1933.

Le siderurgiche non richiedono più minerale di ferro, il settore alimentare non vuole più grano? D’accordo, ne vogliono meno perchè sanno che domani i loro prodotti finiti avranno meno sbocchi; ma proprio niente? Come mai?

E’ che gli armatori, prima ci caricare una Capesize e avviarla in alto mare, vogliono dall’importatore una lettera di credito, a garanzia che la merce e il trasporto saranno pagati. E le banche  non forniscono più lettere di credito; benchè riempite di miliardi di dollari ed euro da «salvataggi» statali (tutti soldi nostri, di noi contribuenti) restringono il credito fino a strangolare l’economia reale; che è già malata terminale.

Ci sarebbe da ridere, se non fosse da piangere. A soffrire di questa tragicomica situazione è la City di Londra, già devastata dallo scoppio della bolla finanziaria; i servizi marittimi impiegano 14.500 addetti britannici, e fino all’anno scorso lo shipping rendeva a Londra 1,3 miliardi di sterline annue. Si potrebbe accogliere questa notizia con una maligna schadenfreude verso gli inglesi, primi della classe in liberismo globale. Purtroppo, la crisi dei noli colpisce al cuore anche la Grecia.

La Grecia verso la bancarotta sovrana

Il trasporto marittimo è la massima fonte di introiti della Grecia, ha superato anche il turismo. Le celebri famiglie armatoriali elleniche controllano un terzo del commercio mondiale di trasporto di carichi secchi (voluminosi), e si appoggiano alle banche inglesi per i fidi; specialmente alla Royal Bank of Scotland e alla HSBC, recentemente semi-annichilite dalle armi di distruzione di massa dette derivati, ed ora pure aggravate dal collasso delle flotte mercantili.

Si aggiunga che le banche greche hanno prestato a man bassa nei Paesi «emergenti»  dell’area ortodossa, Serbia e Macedonia, ma anche nei Balcani in genere e in Turchia. Oggi, tutti i balcanici sono alle corde, e come debitori, di fatto insolventi.

La conseguenza è che i titoli del debito greco non trovano più tanti volonterosi compratori. Essere nell’euro non basta più, quando il credito è scarso e sospettoso: chi ha capitali diventa diffidente di nazioni che hanno un debito pubblico troppo alto, teme - a ragione - che non potranno nè pagarlo (questo, nemmeno a sognarlo) nè rifinanziarlo. E il debito pubblico ellenico è pari al 92% del PIL, poco meno di quello italiano (105% del PIL).

Con un debito così, ragionano speculatori e investitori, questi Paesi non hanno il fiato per stimolare la loro economia in recessione con tagli fiscali e politiche keynesiane di deficit spending. Non a caso, tutte le promesse anti-crisi annunciate da Tremonti e da Draghi sono bloccate: non ci sono i miliardi per entrare nel capitale delle banche e salvarle, silenzio anche sulla garanzia di Stato sui depositi (resta la garanzia interbancaria, che vale quanto valgono le promesse delle banche: zero), nulla di fatto sulla creazione di un fondo sovrano italico, trasformando a quello scopo la Cassa Depositi e prestiti.  Ragazzi, non c’è una lira.

L’effetto si vede: i BOT greci a dieci anni si vendono con un tasso che è di 123 punti (1,23%) più alto dei BOT germanici (Bund) similari. I BOT greci hanno dovuto rompere l’incollamento stretto che tenevano con i BOT italiani - i quali hanno una «forbice» di 100 punti sui tedeschi.

Magra consolazione: anche l’Austria, da sempre ritenuta un debitore onestissimo e benissimo amministrato, ha sui suoi BOT una forbice di 80 punti rispetto ai tedeschi, perchè le sue banche, meno oneste e peggio gestite, si sono esposte con i Paesi emergenti (oggi a rischio insolvenza) per l’80% del prodotto nazionale lordo austriaco.

Qui  si vede una delle occulte regole che guidano la realtà, e che vengono dimenticate durante i boom, per essere duramente constate nelle recessioni: non importa quanto costa il denaro a prestito, importa che il credito sia abbondante e fluido.

Oggi, l’Islanda - per ordine del Fondo Monetario - offre sui suoi Bot il 18%: e credete che i risparmiatori del mondo si precipitino a comprarli, attratti da quei rendimenti da sogno? Voi, lo fareste?

Allegri, inglesi.
Nel cuore della crisi, la Britannia scopre una tragedia in più. Effetto del liberismo, dei Fondi Pensione volontari che investono in azioni. Risulta che il 46% della popolazione lavoratrice non sta pagando nulla ai suoi Fondi Pensione. Di fatto, metà della popolazione attiva non risparmia in vista della vecchiaia. Poco male, visto che i Fondi-Pensione sono a zero, e comunque una pensione non l’avrebbero mai pagata.

Gli inglesi confidavano in una cosa: la loro casa. Aumentava di valore ogni giorno di più, dunque perchè risparmiare? Da vecchi, si sarebbero ipotecati la casa, o l’avrebbero venduta per andarsene in affitto nei Paesi del sole , Malta, Grecia... Le case oggi hanno perso il 17% del valore. E continuano a perdere. Addio vecchiaia serena. Grazie, Adam Smith.

Lo spettacolo della Depressione non cessa di stupire: ogni giorno una sorpresa, un fuoco d’artificio. C’è da ridere, se non venisse da piangere.

Heil Volkswagen 

Allegria! La Volkswagen è diventata la più grossa impresa del pianeta; ora è più grossa della americana Exxon, prima la multinazionale più titanica del mondo. E ciò, senza vendere un’auto in più, anzi semmai qualche decina di migliaia in meno. Il primato di VW è tutto fatto di carta. La sua azione è salita in un giorno da 210 euro a oltre 1.000.

Forse già sapete com’è andata, ma la cosa è così divertente che non si smette mai di raccontarla.

I fondi speculativi (hedge fund), avidamente alla ricerca di rifarsi dalle perdite e batoste delle scorse settimane, si sono messi a comprare titoli VW allo scoperto: ossia vendono titoli VW che non hanno ad una controparte, poniamo, a 200; contando di consegnarli quando il titolo, declinante come tutte le azioni delle fabbriche d’auto, arriva a 190. Un profitto facile e una scommessa sicura, visto che tutti le automobilistiche, in clima di recessione, scendono.

Invece no. Di colpo, Porsche  annuncia di voler acquistare la proprietà di VW; anzi, fa sapere di averne già rastrellato il 74% anzichè il 46% che si credeva prima. Le azioni della Volkswagen cominciano a salire; e i fondi speculativi, che devono onorare i contratti stipulati allo scoperto, sono costretti a comprare azioni VW mentre rincarano per consegnarle alle controparti. Il fatto che acquistino, fa ulteriormente rincarare le azioni.

Peggio: gli hedge fund hanno speculato al ribasso alla grande e tutti insieme, sicchè hanno venduto il 13% della capitalizzazione di VW, ovviamente senza avere in mano tante azioni; addirittura non ci sono tante azioni flottanti sul mercato. Sono a malapena il 5%.

La necessità degli speculatori di acquistare un’azione così scarsa ha provocato il rincaro esponenziale, rapidissimo a 1.000 euro. E’ il «mercato», ragazzi, la legge della domanda e dell'offerta allo stato più puro.

E’ stato un bagno di sangue: i fondi speculativi già devastati, e parecchie banche che credevano di fare facili profitti con la vendita allo scoperto, hanno perduto almeno 30 miliardi di euro.Chi è stato?

Dicono SocGen. Dicono Morgan Stanley e Goldman Sachs, le quail negano: ma sono pallidine, e le loro azioni sono calate parecchio, segno che non si crede alle loro smentite.

Partecipiamo al loro dolore con moderata soddisfazione, visto che sono loro e le loro consorelle ad aver provocato il nuovo ’29. Invece, ricaviamo dalle loro disgrazie un’altra lezione dimenticata nei tempi di boom.

Si tratta della spiegazione degli spasmodici rialzi, seguiti da catastrofici ribassi, delle Borse, in tempi come questi. Ad ogni rialzo, i media, per servire i loro padroni, strillano: «Superata la crisi! Torna il benessere!».

Invece sono gli speculatori senza più fiato che fanno come i giocatori alla roulette: puntano grosso, e appena c’è un rialzo vendono per rifarsi. L’ottovolante, in Borsa, è un gioco pericoloso.

A poco a poco, il numero dei giocatori diminuisce, via via che un numero sempre maggiore di loro vede vaporizzare i suoi capitali in una speculazione che doveva salvarlo, ed invece risulta sbagliata. Alla fine, sul mercato azionario restano pochissimi, e cautissimi. E le Borse assumono la dignitosa posa orizzontale tipica delle grandi depressioni: la calma del rigor mortis.

Accadde così anche dopo il ’29; tanti guizzi, e poi la quiete del cadavere (anche se fra il 1937 e il 1942, in piena ripresa dell’economia reale per la guerra, Wall Street riuscì a perdere ancora il 60%; il cadavere si mosse, ma per precipitare agli inferi).

Ora tutti danno la colpa a Porsche: ha fatto apposta, ed ha guadagnato milioni, prestando le azioni VW mentre salivano (era la sola ad averne), ricomprandole e rivendendole durante il siderale rincaro. La Porsche replica: «E’ colpa di quelli che hanno venduto allo scoperto».

Il che avvalora il sospetto primo: un colpo di coda moralizzatore contro la speculazione americana. Si sa che i tedeschi, quando vanno all’offensiva, anche se sono perdenti, fanno male. Gli americani dovevano ricordarsi: Bastogne 1944. Guderian (2).

Fermate Strauss-Katz!
L’Islanda dunque, ha dovuto alzare i rendimenti  dei suoi BOT al 18%. Gliel’ha ordinato il Fondo Monetario, come condizione per prestare al disgraziato paesetto 2 miliardi di dollari come pacchetto di salvataggio.

Evidentemente troppo occupato ad andare a letto con le sue dipendenti, Dominique Strauss-Khan, il nuovo capo del FMI (un grosso Katz, di nome e di fatto), non ha studiato il caso. Continua ad applicare la sola ed unica «ricetta di risanamento» che il FMI ha sempre applicato ai Paesi africani o sudamericani più deboli: rincaro del costo del debito pubblico per «attrarre capitali esteri», austerità per ridurre le spese interne, svalutazione (oggi ci vogliono 240 krone per un euro, contro le 152 di un  mese fa), insomma tutto per pagare i creditori.

Ma questa ricetta, anzichè risanare, ha invariabilmente devastato le economie già deboli. Ed ora Strauss-Katz minaccia di applicare la stessa ricetta anche a tutti i Paesi che fanno la fila davanti al FMI mendicando un aiuto: Ungheria, Ucraina, Bielorussia, Serbia e Pakistan (3).

Ora, obbligare tanti Paesi ad una stessa politica di contrazione, tutti insieme, sicuramente accelera la rovina deflazionistica che sempre segue allo scoppio delle bolle finanziarie (accadde anche nel ’29). E’ la ricetta più sicura per costringere questi Paesi alla bancarotta - al ripudio del debito sovrano - e con ciò trascinare nella loro rovina le banche che hanno loro prestato; banche europee, e quindi, l’Europa stessa.

L’euro, straziato fra i rendimenti diversi dei BOT (Club Med e tedeschi), rischia la rottura. La spaccatura della zona-euro stessa.

Una soluzione sinistra: l’inflazione

«Se non si agisce subito», leggo sul sito ContreInfo, «gli Stati, le economie faranno fallimento nei prossimi mesi, dato che le somme in gioco superano di giorno in giorno di più le capacità di rifinanziamento: a meno che non si faccia uscire dalla bottiglia il vecchio demone».

La recessione in atto punta al contrario, verso la deflazione. Calano i prezzi di petrolio, materie prime, noli navali. La deflazione porta dritto alla Grande Depressione. E alle bancarotte sovrane.

Quando le politiche monetarie non fanno più presa sull’economia reale (anche a tassi zero, nessuno ha voglia d’indebitarsi), o quando lo Stato non riesce più a farsi prestare denaro anche offrendo rendimenti alti, c’è ancora una soluzione: disperata. Far girare la stampatrice delle banconote per iniettare denaro fresco nell’economia agonizzante. O meglio, nelle moderne economie, si fa così: il Tesoro emette BOT, e la Banca Centrale li prende, aprendo un fido di pari importo allo Stato.

L’ufficio studi di Deutsche Bank ipotizza che gli USA faranno proprio questo. Di fronte ad una montagna di debiti che non potrà mai pagare, Washington non ha altra scelta che «dilavare» il debito con l’inflazione; ciò che pudicamente si chiama «monetizzazione del debito».

La manovra ha il vantaggio di espandere la massa monetaria senza bisogno di far cadere gli interessi primari a zero; ovviamente, per i creditori, lo svantaggio è enorme. La Cina si troverà con montagne di dollari delle sue riserve che perdono valore giorno per giorno.

Perchè solo gli USA possono «monetizzare il debito», ossia salvarsi con l’inflazione: la UE non può, perchè qui veglia la BCE e lo stitico ragionier Trichet, che tiene i tassi altissimi in piena depressione, perchè lo scopo istituzionale della BCE è combattere l’inflazione. Anche quando l’inflazione non c’è.

Dunque gli USA usciranno prima dalla crisi - a meno che non s’inneschi l’iper-inflazione - perchè il denaro inflattivo stimola l’economia; l’Europa soffrirà, grazie a Trichet, una più lunga e dolorosa stagnazione. E alla fin fine, anche l’Europa dovrà, volente o nolente, stappare la bottiglia inflazionistica.

«Un’alternativa ragionevole», scrive l’economista francese Jacques Sapir (4), «sarebbe di procedere politicamente alla distruzione di una parte dei debiti esistenti, rimettendoli alle famiglie, e attuando dei fallimenti organizzati per i debiti di imprese o di amministrazioni. Ma una tale alternativa ragionevole è improbabile, perchè esige un coraggio politico che non esiste nei sistemi occidentali». Se già la casta degli insegnanti può mettere il Paese in ginocchio, figurarsi i creditori organizzati, banche, eccetera.

Dunque, dice Sapir, «L’ultima alternativa, che sarà probabilmente adottata, consisterà in una forte crescita dell’inflazione».

Con l’inflazione, si correggono (dolorosamente) «i vantaggi inauditi accordati alla rendita e al capitale rispetto al lavoro dagli anni ‘80». L’inflazione infatti penalizza i creditori e avvantaggia i debitori; penalizza (ahimè) i pensionati, e restituisce qualcosa ai lavoratori.

«Come aveva già detto Keynes, l’inflazione permette agli imprenditori di liberarsi dalla mano-morta del debito passato per riprendere la crescita», ciò a prezzo della «eutanasia di chi vive di rendita» da capitale.

D’altra parte, come ha mostrato la sciagurata politica della BCE, «un tasso d’inflazione troppo basso ostacola la crescita», e in questi frangenti, provoca la Grande Depressione. La crisi richiede, secondo Sapir, un ritorno al protezionismo (necessario), e un ritorno dello Stato nella politica monetaria. Ma di uno Stato degno di questo nome.

Si spacca l’euro?

Se i ministri economici della UE potessero accordarsi a «prendere il controllo della BCE», sarebbe possibile monetizzare il debito, insomma creare inflazione per accelerare la domanda e scongiurare la depressione. Ma questo è politicamente impossibile, per «le diverse culture politiche» dei Paesi-membri, e soprattutto per «l’esistenza di forti eterogeneità delle economie della zona euro».

L’euro, bisogna finalmente ammetterlo, non ha portato nessuna «convergenza»: l’Italia ha continuato a folleggiare (le sue caste, per la precisione) col denaro nostro, senza mai tentare di diventare virtuosa e tecnicamente studiosa come la Germania, ben amministrata come la Francia, o fiscalmente amichevole come l’Irlanda.

Conseguenza: «il tasso d’inflazione necessario ad una crescita ragionevole dovrà  essere sensibilmente diverso per ogni Paese». Ciò è impossibile con una moneta unica.

«Una crisi dell’euro rischia di essere inevitabile».

Ma piuttosto che un’esplosione della zona euro incontrollata, Sapir propone un sistema intermedio.

«Per certi Paesi membri, l’euro diverrebbe moneta di riserva, in rapporto alla quale la loro moneta nazionale (che dovranno ristabilire) sarà convertibile ad un tasso fisso, ma revisionabile regolarmente. I Paesi del blocco più omogeneo potrebbero conservare l’euro; ci sarebbe un nocciolo duro in euro, attorniato da cerchi concentrici; ciò sarebbe più robusto e flessibile. Questo sistema permetterebbe più facilmente alll’euro attuale una coordinazione con altre monete, e dunque una zona di stabilità monetaria capace di andare al di là delle frontiere della UE».

Allegria! Sono convinto che succederà proprio così, presto o tardi. Dopo tanti sacrifici impostici da Prodi, ci ritroveremo fuori della zona euro. Sacrifici inutili.
Ci sarebbe da ridere, se non fosse da piangere.

Ma allegria, sono le «depression folies»: uno spettacolo travolgente, si ride e si piange, è meglio delle «Folies Bergères».

Ora non ci resta che decidere in quale dei «cerchi concentrici» noi italioti vogliamo essere: escluso che ci accettino nel nucleo duro, saremo posizionati vicini all’Austria, o vicini alla Romania? O magari, nel cerchio esterno, con la Tunisia?

Consideriamo la nostra classe politica, le nostre caste incapaci e disoneste, e avremo la risposta.




1) Ambrose Evans-Pritchard, «Investors shun Greek debt as shipping crisis deepens» Telegraph, 29 ottobre 2008.
2) Louise Armitstead, «Funds lose £24bn as VW shares take off», Telegraph, 28 ottobre 2008.
3) Ambrose Evans-Pritchard, «IMF may need to ‘print money’ as crisis deepens», Telegraph, 27 ottobre 2008.
4) Jacques Sapir, «Le monde qui vient»,  Ecole des Hautes Etudes de Sciences Sociales (EHESS), Parigi, 25 ottobre 2008.


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