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A Kabul, USA contro NATO
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Lo sussurrano a Bruxelles: l’attuale capo dell’ISAF in Afghanistan, l’americano David McKieman, non obbedisce più alla catena di comando NATO (1); adesso risponde direttamente al generale Petraeus, il nuovo capo del Central Command statunitense. Quanto a Petraeus, detesta notoriamente il collega generale Bantz J. Craddock, supremo comandante in capo della NATO, benchè (o forse perchè) come lui americano della US Army.

Risultato: gli alleati occidentali sono chiusi fuori, la NATO è marginalizzata e non partecipa alle decisioni operative, anzi ne è lasciata all’oscuro.

E’ l’americanizzazione della guerra in Afghanistan. Gli americani, soprattutto, si sono avocati tutti i rapporti coi media: mai più cattive notizie, mai più critiche sulle loro disastrose strategie, come se ne sono lette in certi giornali europei, francesi e inglesi soprattutto.

Come si sa, le cose non vanno bene per la sotto-dimensionata forza militare occidentale; i Talebani guadagnano terreno; generali britannici (che da sette anni sostengono il peso maggiore nei combattimenti, almeno in quelli utili) hanno dichiarato che la guerra non può essere vinta; e si odono voci sempre più autorevoli che suggeriscono di aprire trattative con i guerriglieri, offrendo loro dei posti in una coalizione di governo...

Per i gallonati USA, questo è tradimento. E lo dice chiaro un minaccioso editoriale non firmato apparso sul New York Times, tutto scritto al plurale majestatis (2): «Temiamo che certi membri NATO siano così vogliosi di ritirare le loro truppe, da essere disposti a  svendere il futuro afghano. E che il presidente afghano Karzai, Hamid Karzai, è fin troppo pronto al compromesso, nella speranza di aumentare le sue fortune elettorali. Egli ha innervosito i consiglieri di Obama (e anche noi) con l’offerta, avanzata questa settimana e rifiutata, di portare il capo dei Talebani mullah Mohammad Omar al tavolo di negoziati».

Si noti l’inciso: Karzai e la NATO irritano i consiglieri di Obama «e anche noi», ossia i dirigenti anonimi del giornale americano. Chi sono?

Cercheremo di capirlo. Ma per ora, vediamo il resto dell’articolo: importante perchè è una vera e propria comunicazione della «linea», quella che sarà adottata dalla nuova amministrazione. Il messaggio sotteso è: non vi aspettate, traditori, che Obama cambi strategia. Questa è la «linea».

Anzitutto, non si tratterà con i Talebani, «che hanno dato asilo ad Al Qaeda prima dell’11 settembre», e che «re-imporranno le loro poltiche repressive medievali, che negano l’istruzione e le cure mediche alle donne».

Secondo: l’invasione in Afghanistan è stata giustissima, vietato criticarla.

«Ci fu una vera gioia in Afghanistan, e nel mondo, quando gli americani e i suoi alleati afghani (si noti: non i suoi alleati europei) sconfissero Al Qaeda».

Il solo errore l’ha commesso «il presidente Bush», che ha dedicato più forze alla «disastrosa guerra all’Iraq». Ma adesso Bush «si è reso conto del pasticcio che ha creato ed ha inviato più truppe - anche se non ancora sufficienti - in Afghanistan».

«Anche Karzai è colpevole», dice il New York Times, «è stata la venalità e inettitudine del suo governo a gettare la gente nelle braccia degli estremisti».

Queste due righe sono particolarmente sinistre: si sa cosa fanno gli americani ai governanti locali loro «alleati», quando non li trovano soddisfacenti.

In Vietnam, fecero ammazzare il capo del governo vietnamita, Ngo Din Diem, cattolico, ovviamente da loro accusato di «corruzione» (loro, sempre pronti a insegnare la virtù e la trasparenza ai selvaggi del terzo mondo); in Sudamerica i casi non si contano.

Il New York Times continua: non v’illudete, adesso gli USA si impegnano massicciamente in Afghanistan. Prendono la situazione nelle loro mani, e come sapete non perdono mai, le loro tattiche sono le migliori, le loro armi assolutamente superiori; sono gli altri, gli «alleati», che certe volte li fanno perdere.

«Un impegno USA a lungo termine che include molta più assistenza economica e sostegno allo sviluppo politico» (Ahi, Ahi Karzai..), e inoltre «una miglior mistura di incentivi e pressioni per convincere il Pakistan a chiudere i santuari dei Talebani e di Al Qaeda… Karzai deve troncare tutti i legami coi funzionari corrotti, ripulire e rafforzare la sua polizia nazionale».

Ahime, Karzai, ex dirigente della petrolifera americana UNOCAL: qui ti annunciano persino chi ti liquiderà: qualche emergente capo della polizia afghana, e precisamente quello che l’avrà rafforzata e ripulita dalla «corruzione».

Ma la più rivelatrice è l’ultima frase dell’articolo anonimo: «Invece di lasciare il compito ad Obama, Bush deve rapidamente autorizzare i 20 mila uomini in più che i suoi comandanti chiedono».

Qui, è evidente la volontà di creare il fatto compiuto, quello che Obama si troverà già bell’e fatto quando entrerà nell’Ufficio Ovale, la «linea» che non potrà fare a meno di seguire.

D’altra parte, Obama ha promesso, in campagna elettorale, che s’impegnerà di più in Afghanistan; ma questi anonimi che parlano col «noi» forse non si fidano del tutto di lui, l’incauto, che s’è detto pronto a trattare con l’Iran, e che ha tergiversato sui missili che Bush sta piazzando in Polonia (non ha detto nè sì nè no): magari anche lui è un traditore come Karzai, un «renegade». Quindi, meglio che «noi» prepariamo in anticipo i fatti sul terreno: 20 mila uomini in più. Potremo sempre dire che abbiamo anticipato la sua volontà di Commander in Chief, così evidente.

L’articolo dice molto sui modi in cui Obama verrà eterodiretto, e si lascerà etero-dirigere.

Non ha confermato al Pentagono Robert Gates, l’uomo dell’establishment militare-industriale, della CIA e dell’Iraq Study Group, quel gruppo formato da Bush padre per mettere sotto tutela Bush figlio?

Ebbene: Robert Gates reclama da mesi il trasferimento di più brigate dall’Iraq all’Afghanistan (la coperta è corta). E’ quel che raccomandano i generali che contano al Pentagono (Mullen, Fallon, Petraeus), e il complesso militare-industriale che col Pentagono fa tutt’uno: in Iraq abbiamo più o meno «vinto», lasciamo le adeguate guarnigioni nelle basi che manterremo lì, e dedichiamoci meglio all’Afghanistan.

Questi sono probabilmente coloro che parlano dal New York Times come «noi»: il Pentagono attua la sua politica prima dell’insediamento del neo-presidente, ed ha deciso: il primo teatro è l’Afghanistan; la guerra si fa all’americana, ossia con incursioni di commandos eli-trasportati, mordi e fuggi, attacchi aerei, missili e droni su bersagli mirati, ancorchè produttivi di generosi danni collaterali (famigliole incenerite, ricevimenti di nozze massacrati eccetera).

La strategia che la parte americana ha sempre adottato, e che inglesi e francesi ritengono, a buon motivo, stupida, brutale e perdente.

Obama si troverà il bubbone purulento, di tipo vietnamita, e dovrà adeguarsi alla «linea».

Quanto agli «alleati» occidentali nella NATO, proprio pochi giorni fa in Canada, Gates li ha ruvidamente invitati a cambiare la loro strategia in Afghanistan. Là, ogni contingente nazionale ha la responsabilità della contro-guerriglia in una provincia;
una soluzione pezzi-e-bocconi che Gates ritiene inefficace, perchè «I Talebani non si fermano ai confini delle provincie» (3). D’ora in poi, i contingenti nazionali sarannno sotto un comando unificato. Unificato di fatto sotto gli americani.

Insomma: gli USA si sono messi fuori e al disopra della NATO, ma gli «alleati» occidentali devono restarci dentro. Devono eseguire gli ordini. E’ finita la finzione del comando congiunto e della parità fra «alleati».

Intendiamoci: criticati e disprezzati, gli «alleati occidentali» saranno richiesti - da Obama e da quei «noi» che lo dirigono - di contribuire allo sforzo. Già ai più fidati «alleati», i britannici, è stato rivolto l’invito a portare i loro soldati, che stanno ritirando esausti dall’Iraq, in Afghanistan. La guerra contro il terrorismo globale continua, Al Qaeda esiste, certo che esiste.

Questi «alleati» non hanno riposto tante speranze in Obama? Non l’hanno tutti applaudito a Berlino, gli europei, quando Obama disse che si aspetta dagli europei «molto di più» (a lot more), più truppe, più mezzi, più spese, per «vincere» in Afghanistan?

Secondo William Pfaff, il grande giornalista cattolico americano che vive a Parigi, questa idea «non è popolare; i governi europei hanno incoraggiato soluzioni diplomatiche regionali per l’Afghanistan» (ossia coinvolgendo l’Iran e il Pakistan).

«Gli americani saranno sorpresi che in Europa occidentale c’è preoccupazione, dichiarata dal ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, che la nuova amministrazione americana voglia prendere tutto in mano sua, e così rovinare i progressi ottenuti».

Questo è già avvenuto, come si vede. E per quanto l’idea «non sia popolare» nell’opinione pubblica, già i maggiordomi europei si adeguano.

Frattini Kippà ha già detto che dovremo «contribuire di più». Eppure persino Javier Solana, il kommissario agli Esteri, ha risposto che si aspetta che Obama chieda il contributo, e che in cambio «affronti velocemente le priorità trans-atlantiche, fra cui la pace in Medio Oriente, i negoziati con l’Iran, e le misure contro il riscaldamento globale».

Anche il riscaldamento globale, certo.

Data la crisi economica, è persino possibile che i maggiordomi europei, pur protestando fedeltà, continuino a defilarsi. Allora possiamo vedere il ritorno della «coalition of the willing», la rappattumata coalizione dei volonterosi inventata da Rumsfeld, che attrasse a sè gli scodinzolanti polacchi ed altri satelliti est-europei?

Anche qui possono venire delle sorprese, dice Pfaff: «Il contributo USA al fiasco in Georgia ha scosso la reputazione degli americani tra gli europei dell’Est». Questi ci mandano alla guerra, e poi non ci soccorrono, come ha imparato Saakashvili.

Vedremo. Certo è per ora che i «noi» militari-industriali stanno già facendo la politica militare che attribuiscono ad Obama.

La loro volontà di forzare la mano a Renegade è stata chiarita anche dal capo degli Stati Maggiori Riuniti Michael Mullen. Il generale ha esternato quel che pensa della promessa elettorale di Renegade, il ritiro dall’Iraq in 16 mesi.

«Abbiamo 150 mila uomini in Iraq ad oggi. Abbiamo una quantità di basi. Abbiamo una quantità spaventosa di materiali là. Quindi dobbiamo guardare a tutto questo con l’occhio alla sicurezza, date le condizioni che esistono là» (ma non hanno «vinto», in Iraq?).

Insomma, ha concluso Mullen, per un ritiro ordinato di tutta l’immane quantità di materiali occorreranno «due o tre anni». Altrimenti, fanno sapere generali anonimi intervistati dal Wall Street Journal, il disimpegno rischia di essere «una Dunquerque lunga anni».

Il che è anche vero, data l’obesa pesantezza dell’armamento americano. Ma è chiaro il segnale: il Pentagono e il complesso militare-industriale, questi divoratori del budget, non saranno docili agli ordini del neo-presidente. Ne metteranno alla prova la stoffa.

Al punto che Robert Dreyfuss, giornalista di The Nation, vede vicino «un conflitto», o un braccio di ferro, tra il potere civile e l’apparato militare (4). Forse illudendosi sulla «stoffa» di Obama.




1) En Afghanistan, la victoire sera ‘made in USA’ ou ne sera pas», Dedefensa, 22 novembre 2008. Nos sources citées plus haut résumaient l’esprit et l’organisation de la chose en observant: «En Afghanistan, les Américains ne veulent plus entendre parler de l’OTAN, ils détestent l’OTAN...»; puis, poursuivant jusqu’à la conclusion: «Ils sont en train de se préparer pour refaire ce qu’ils ont fait en Iraq».
2) «How to get out of the mess in Afghanistan», New York Times, 21 novembre 2008.
3) «Pentagon chief seeks Afghan south strategy change», Reuters, 21 novembre 2008.
4) «L’insoutenable pesanteur de Moby Dick en Iraq», Dedefensa, 21 novembre 2008.


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