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La «vittoria» vuota
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C’è un lettore a cui non è piaciuta la frase di Savino: «L’orgogliosa follia islamica impedisce loro [ai palestinesi di Gaza] di fare l’unica cosa possibile: una collettiva protesta di tipo ghandiano, scegliendo di morire, combattendo senza armi - Il destino di Gaza è scritto». Il lettore commenta: «Complimenti per il taglio sionista dell’articolo». Poi, sotto un mio pezzo, insiste: Savino è come Panebianco: entrambi «dipingono i palestinesi come folli estremisti e si consiglia loro di arrendersi incondizionatamente».

Veramente inesatto, caro lettore. Una resistenza gandhiana è esattamente il contrario della resa incondizionata: è non arrendersi mai, di fronte a nulla. Inoltre, con la strategia della non-violenza, Gandhi ha vinto. Hamas ha perso, e veramente «il destino di Gaza è segnato».

Sul piano militare, era cosa ovvia. Gaza non ha alcuna profondità strategica; è controllata dal cielo, chiusa, sigillata da terra e dal mare; sorvegliata dalle spie e persino nelle linee telefoniche; non ha alleati nè rifornimenti; l’Egitto ha tenuto bordone chiudendo i soli valichi per la fuga e la logistica.

Strane telefonate nei giorni scorsi mi chiedevano: pensa che Hezbollah interverrà? Ma Hezbollah è troppo militarmente avvertito per non calcolare il bilancio delle forze. E’ in grado di difendere il suo territorio, ma non di proiettare la sua forza più in là, contro un tale nemico schiacciante. Altre voci: «Le piazze arabe sono in subbuglio, crede che...?». Le piazze arabe sono in subbuglio da sempre, senza che questo abbia mai cambiato nulla (del resto, anche le opinioni pubbliche occidentali, scendendo in piazza, non cambiano mai nulla, se i poteri forti non lo consentono).
«Crede che l’Iran aiuterà?», chiedevano altre telefonate.

Scusate, avete in mano una carta del mondo? Avete visto la distanza che separa l’Iran da Gaza? Sapete quali mezzi richiede la proiezione di una forza a tante migliaia di chilometri? L’Iran non ha nè portaerei nè missili intercontinentali; credere alla minaccia iraniana è credere alla propaganda sionista più rozza.

Ci si aspettava magari qualche sorpresa quando il combattimento è diventato di terra, coi carri armati nelle strade e fra le macerie, vulnerabili. Ma ora vediamo che Hamas non ha mai raggiunto la qualità combattiva di Hezbollah, la rigorosa preparazione e disciplina tattica. Del resto Hamas ha 15 mila uomini sotto le armi, e solo un reparto di un migliaio con un buon addestramento. Basta un piccolo particolare: già coi bombardamenti aerei, Sion ha distrutto metà delle ambulanze di Gaza nelle prime ore.

Ciò ha un senso per la generosa «follia islamica», nel quadro della speranza apocalittica, dove non conta la vittoria ma «versare il sangue per Al-Qudsi» che guadagna il paradiso; il nostro lettore sembra piuttosto piuttosto cantare il valore della «bella morte».

Chi canta la bella morte di solito non ha mai combattuto, non ha mai visto un bombardamento moderno nè una zona di conflitto. E neppure Gaza. Io ci sono stato, e non canto la bella morte altrui.

Anche al lettore, come ai più autorevoli commentatori di questi giorni, va a pennello una frase che Zbigniew Brzezinski ha sibilato al giornalista Joe Scarbourough, che, anchorman di un talk show televisivo - mentre Zbig lamentava le inutili perdite di vite umane - gli opponeva i soliti luoghi comuni sulle «ragioni» di Israele e i «torti» dei palestinesi:

«Sinceramente, lei ha una conoscenza così stupendamente superficiale del problema, che è quasi imbarazzante ascoltarla».

Brzezinski sappiamo chi è; ma non è un disinformato nè uno sciocco strategico. Ciò che stava dicendo era del massimo interesse: che cioè il nuovo ciclo di violenza era qualcosa di vecchio, di tristemente già visto; e che era la manifestazione del tutto prevedibile della «immaturità politica, strategica e morale da entrambe le parti».

Questa valutazione colpisce Hamas, ma soprattutto Israele come uno schiaffo in faccia, ed è interessante come venga ripresa dai giornali britannici: i cui commentatori cominciano a parlare di una «vittoria vuota» per Sion, che avrà conseguenze incalcolabili proprio per Israele (1).

vittoria_vuota.jpg Il glorioso Tsahal s’è concesso una passeggiata militare, per rifarsi la faccia perduta nella campagna contro Hezbollah. Un’offensiva preparata da sei mesi in ogni particolare e con immane dispiegamento di forze, manco avesse di fronte le armate di Guderian. Con grande sfoggio di  bombe aria-terra di estrema precisione, con tanto di commandos penetrati nel «territorio nemico» a segnalare i bersagli coi puntatori-laser: ma il guaio - mal celato dall’esaltazione dei media giudaici per questi «eroi» - erano i bersagli: case, scuole, moschee e ambulanze che si possono vedere con Google Hearth; le installazioni distrutte costano probabilmente meno della bomba che le ha incenerite, e la loro importanza era altrettanto risibile.

Poi, ecco il glorioso Tsahal impegnarsi di notte, con visori elettronici, in una manovra a tenaglia che «ha tagliato Gaza in due», come se si trattasse di tagliare le armate delle Wermacht in Russia. Una  impresa a cui sarebbe bastato un plotone di nostri carabinieri, per non parlare di un reparto della Folgore o della Legione Straniera; e invece Israele ha «richiamato diecimila riservisti», ed ha ritenuto necessario fare strage di civili già indeboliti dalla fame (2).

Ha colto bene la questione, come al solito, Robert Fisk:

«E’importante ricordare che l’esercito di Israele, celebrato in canti e leggende per la sua supposta ‘purezza delle armi’ e le sue ‘unità di elite’, negli ultimi anni si è dimostrato un esercito di terz’ordine. Non ha vinto una guerra dal conflitto del 1973, 35 anni fa. La sua invasione del Libano nel 1978 è stata un fallimento, la sua invasione del 1982 è finita in un disastro, che sì riuscì ad espellere Arafat da Beirut, ma al prezzo di consentire ai suoi malefici alleati falangisti la strage di Sabra e Chatila, dove hanno commesso eccidi di massa. Nè durante i bombardamenti del Libano del 1993, o in quelli del 1996 - che finirono dopo il massacro dei rifugiati di Qana - nè nella guerra del 2006 (contro Hezbollah), la sua prestazione è stata qualcosa di più che dilettantesca. Se non fosse per il fatto che le armate arabe sono ancora più marmaglia di quella israeliana, lo Stato di Israele sarebbe veramente sotto la minaccia dei suoi vicini».

Ed ecco la conclusione di un altro commentatore, Evan Eland:

«Dopo le disastrose offensive del 1982 e del 2006 contro il Libano, in cui Israele vinse militarmente ma perse politicamente, si poteva pensare che Israele avrebbe evitato un’altra risposta militare così disastrosamente sproporzionata. Ma non c’era da sperare. Se il ripetere sempre le stesse azioni aspettandosi che gli effetti siano diversi è la definizione della pazzia, la politica di Israele va definita matta».

Barak e la Livni hanno sferrato un’offensiva del genere per guadagnare voti nelle imminenti elezioni, essendo il loro partito Kadima minacciato dal Likud; i generali, per riabilitarsi con una vittoria facile contro un avversario inerme di loro scelta; il pubblico sionista, per calmare le sue angosce esistenziali, che gli psichiatri sanno oggi trattare con adeguati anti-depressivi.

Insomma una guerra senza obbiettivi determinati, contro un nemico oniricamente totale, dove la sola realtà sono i corpi maciullati dei civili.

Ma le guerre senza obbiettivi si perdono; che Israele si sia cacciata in un vicolo cieco, lo dicono anche notevoli ebrei.

«Ha mancato un’occasione storica», per Uri Avneri. Lo scopo di tutto questo massacro sarebbe di decapitare Hamas? «Non è un segreto che è stato il governo israeliano a creare Hamas», negli anni in cui l’OLP era «considerato il nemico principale, e Arafat era il diavolo». Oggi le cose sono cambiate, e Fatah è stato arruolato alla causa sionista. Ma, dice Avneri, allora «un governo isareliano che cercasse la pace avrebbe dovuto fare larghe concessioni a Fatah: fine dell’occupazione, firma di un trattato di pace, ritiro alle frontiere del ‘67».

Israele ha fatto il contrario.

«Subito dopo l’assassinio di Arafat (assassinio, lo dice Avneri) Sharon s’è affrettato a dire che il successore Mahmoud Abbas (Abu Mazen) era un ‘pollo spennacchiato’. Non si è dato ad a Abbas nessun successo politico», anzi non s’è persa occasione per umiliarlo.

E per poter dire che Israele «non ha nessuno con cui trattare», il vero capo riconosciuto e stimato di Fatah, Marwan Barghouti, i sionisti l’hanno sbattuto in galera con cinque ergastoli, onde assicurarsi che non uscirà più.

Così, certo, si può continuare freudianamente a ripetere che «gli arabi comprendono solo il linguaggio della forza». Ma - scrive Nir Rosen, giornalista ebreo che lavora a Beirut, la scusa regge sempre meno:

«Nel 2000 la Lega Araba ha collettivamente offerto a Israele un quadro per mettere fine al bagno di sangue offrendo un accordo di pace regionale. Israele ha risposto invadendo Jenin e massacrando centinaia di palestinesi. Il mese scorso Fatah ha provato a rilanciare l’iniziativa di pace del 2002, ma anche a questo Israele ha risposto con estrema brutalità».

Insomma è Sion che non capisce altro linguaggio che la forza.

Il perchè è comprensibile (dalla psicanalisi): Israele vuole, senza dirlo, lo Stato razzialmente puro. Ma, dice Rosen, «un Israele sionista non è più un progetto vitale a lungo termine. Gli insediamenti israeliani, l’esproprio delle terre, i muri di separazione hanno da tempo reso impossibile la soluzione a due Stati». La sola prospettiva rimasta è «uno Stato in cui i palestinesi abbiano gli stessi diritti degli ebrei», oppure il genocidio, «perchè la storia ha mostrato che il colonialismo può aver successo solo quando la maggior parte degli autoctoni sono sterminati».

Lo Stato misto è precisamente l’incubo degli ebrei. Il genocidio lo stanno facendo, e sono capacissimi di continuarlo; ma vorrebbero che avvenisse in qualche modo da sè, senza mostrare apertamente la loro mano. Dopotutto, l’anno e mezzo di fame che hanno imposto al milione e mezzo di vittime di Gaza aveva questo scopo freudiano: con la speranza di svegliarsi un giorno e poter dire al mondo: «Vedete, non c’è più nessuno con cui trattare, e nemmeno da integrare».

I sogni infantili, ci ha insegnato Freud (che aveva pazienti esclusivamente ebrei, i soli sui quali la sua «scienza» funziona) realizzano desideri inammissiili nello stato di veglia. Ma nella realtà, eliminare un milione e mezzo di persone aggrappate ai loro campi e alle loro macerie, non è così semplice. Per questo i giudei ripetono che non intendono rioccupare Gaza - perchè da quel momento dovrebbero farsi carico della popolazione occupata, come minimo lasciar passare i rifornimenti alimentari - ma nello stesso tempo, «decapitando Hamas», decapitano l’unica rete di sostegno sociale funzionante a Gaza, avvicinando la cosiddetta catastrofe umanitaria.

E persino i loro sicofanti, lecchini e trombettieri occidentali, persino Napolitano, cominciano a invocare: adesso basta, tregua. E loro, i giudei, a ripetere: no, abbiamo bisogno di ancora qualche giorno, la «guerra» sarà lunga, non abbiamo ancora finito... Ma ripulire 1,5 milioni di esemplari della razza inferiore  richiede, anche con la massima tecnologia disponibile (camere a gas? Mitragliamenti davanti fosse comuni? Roghi al fosforo bianco?) parecchi mesi.

L’assassino professionale sa che la cosa più difficile è far sparire il cadavere. E un’operazione di scioglimento di un milione e mezzo di cadaveri non è fattibile, nel mondo di Al Jazeera, della BBC e di internet. Mica c’è solo il Emilio Fede e Corriere della Sera, sul pianeta.

Ma mettiamo pure che il Grande Katz raggiunga questo scopo. Ciò avvicina il momento più tremendo per l’Israele psicoanalitico, la vera prova a cui teme di non poter sopravvivere:

«Avremo un’Israele in pace; la domanda allora per la nostra generazione sarà: il popolo ebraico può sopravvivere senza un nemico esterno?Dateci la guerra, dateci i pogrom, dateci una catastrofe e sapremo cosa fare; dateci la pace e la sicurezza, e siamo perduti».

A dire questo non è uno dei soliti antisemiti. E’ Avraham Burg, ex presidente della Knesset, il parlamento israeliano. La sua intervista rilasciata al Time Magazine (3) è interessante, perchè essa mette a nudo i nodi inconfessati della psicopatia ebraica (non possiamo vivere se non vedendo nell’umanità il nemico) e nello stesso tempo segnala la frattura morale che comincia ad allargarsi nel sionismo, e nell’anima ebraica in generale.

Burg conferma fin dal principio la chiusura mentale che Brzezinski ha chiamato, caritatevolmente, «immaturità strategica e morale». Al giornalista che gli chiede un parere sulla sensazione degli ebrei, in USA ed Europa, che «Israele sia circondata da nemici mortali», risponde:

«Mi aspetto molto poco dal pensiero e dalle idee che nascono nel mondo ebraico e nell’establishment israeliano. Il loro ruolo è mantenere lo status quo. Israele non produce riflessioni di prospettiva. Siamo degli esperti nel gestire la crisi ma non di trovare alternative alla crisi. Abbiamo molti tanks, e pochi think-tanks. Uno dei motivi per cui  ho lasciato la vita politica, è che sento sempre più che Israele è diventato molto efficace, ma  manca di profezia. Dove sta andando? Sopravvivere, a che scopo?».

Burg spiega la sua visione del giudaismo, e la sua diversità da quella dell’establishment israeliano e  giudeo-americano, così:

«C’è un classico dilemma talmudico: passi lungo un fiume e vedi due persone che stanno affogando; uno è il rabbino Kahane (estremista giudaico) e l’altro è il Dalai Lama. Potete salvare  solo uno dei due: chi scegliete? Se voi scegliete il rabbino Kahane perchè è geneticamente ebreo, non appartenete al mio campo, perchè io scelgo il Dalai Lama. Non è geneticamente ebreo, ma è mio fratello nel mio sistema di valori».

Burg dichiara che l’identificazione dell’identità israeliana con la Shoah è disfunzionale, patologica:

«L’olocausto è un vero trauma... Ma quando intendo uno come Benjamin Netanyahu, che è persona intelligente, dichiarare (a proposito di Ahmadinejad e della supposta minaccia dell’Iran) che ‘siamo tornati al 1938’, io mi domando: avevamo un esercito onnipotente, nel 1938? Avevamo uno Stato indipendente, nel 1938? Nel 1938, avevamo il sostegno inequivoco di tutte le superpotenze del mondo? No, non è la realtà. E quando si dice che Ahmadinejad è come Hitler, si minimizza l’importanza di Hitler».

E ancora, udite udite:

«Ogni volta che un capo di Stato comincia una visita in Israele, non lo si porta in una università, in un centro di ricerca tecnologica o in un luogo dell’alta cultura; lo si obbliga a incontrare la realtà israeliana con la visita a Yad Vashem (il memoriale della Shoah).  ... non è il modo di battezzare la gente a un incontro con l’ebraismo... E’ un ricatto emotivo, che dice alla gente: ecco cosa ci avete fatto, dunque tacete...».

Proprio perchè gli ebrei hanno scelto che sia l’olocausto a dominare la loro identità, l’ebraismo è in crisi, aggiunge Burg:

«Immaginate cosa potremmo essere senza questa ombra che pesa ogni giorno su di noi... Perchè mio fratello e mia sorella in America sono dei grandi poeti, o dei compositori o dei medici le cui opere migliorano le sorti dell’umanità nel suo insieme, mentre io che vivo qui della spada, e sono diventato un esperto mondiale di armamenti, di spade? E’ questa veramente la mia missione, come ebreo? O è il risultato di quell’acqua nera con cui innaffio i miei fiori?».

Ma è vero che gli israeliani vivono sotto l’incubo dei razzi Kassam... Cosa risponde a chi dice che deve pur difendersi?

«Rispondo», dice Burg, «che la striscia di Gaza è un incubo, una macchia nella mia coscienza. E sono molto allarmato dall’atteggiamento degli israeliani contro gli arabi israeliani: è una vergogna. E’ un buco nero nella mia democrazia».

E racconta un episodio molto significativo:

«Mio figlio ha fatto un soggiorno di un anno e mezzo in America Latina, a fare volontariato. Cinque giorni dopo il suo arrivo, è stato richiamato per un turno di 30 giorni (con la sua unità) in Cisgiordania, in uno dei posti di blocco peggiori. E mi ha detto: ‘Quando mi guardo attorno per 360 gradi, nessuno mi ama: coloni, partigiani del rabbino Kahane (estremisti razzisti, ndr) rabbini, mullah, Hamas, palestinesi, tutti mi odiano».

Questo figlio ha raccontato a Burg:

«Un giorno, ero seduto lì, era l’ora della pausa (del posto di blocco) e bevevo del caffè con un amico. Dalla valle è salito sù un vecchio arabo: tutto curvo, canuto. Camminando lentamente, si è avvicinato a noi e ha detto: Ecco la mia carta d’identità. Noi gli abbiamo risposto che non aveva bisogno di esibirla. Ma lui ha insistito: ‘No, eccola. Voglio che la controlliate; vedete, va tutto bene, io sono Kosher, sono Kosher’. Gli ho verificato la carta e l’ho fatto passare; poi, ho cominciato a piangere a singhiozzi».

Ma perchè?, gli ha chiesto il padre. E quel figlio:

«Non puoi capire; per un anno e mezzo, in America Latina, sono andato in piccoli villaggi, mi sono seduto con uomini del tutto simili a quell’arabo, ascoltando la loro tradizione orale, la bellezza delle loro storie, la saggezza della loro cultura. E loro me ne facevano parte volentieri. Ed adesso, qui, io sono il poliziotto, il cattivo. Qui sono l’occupante, e non posso sedermi a parlare con quel vecchio: sai cosa avrebbe potuto raccontarmi, se le circostanze fossero diverse?».

Ecco il motivo profondo per cui la vittoria su Hamas è vuota. Nè Burg nè suo figlio sono più «ebrei» nel senso talmudico; sono esseri umani, destinati a mescolarsi alla comune umanità.

Altre due o tre «vittorie» così, e Israele avrà di fronte il suo vero, unico  nemico, quello che non vuol vedere e non può battere: se stesso.

A questo nemico ha costruito il Muro, che ora la soffoca; a forza di armi, ha preparato il cappio in cui rischia d’impiccarsi. Per Israele si può uccidere, ma non si può vivere.




1) Per esempio il Guardian, nel suo editoriale del 5 gennaio: «When victory is an hollow word». «Vittoria vuota»  è un concetto molto pregnante, come «guerra senza obiettivi». Una delle accezioni  la fornisce il sito Dedefensa. Esso cita una frase di Rumsfeld in conferenza stampa il 9 ottobre 2001, due giorni dopo l’inizio dell’invasione in Afghanistan. A un giornalista che gli diceva: a quanto pare la nostra aviazione non ha più obbiettivi da colpire, Rumsfeld rispose irritato: «L’Afghanistan lo è». Sette anni dopo, gli USA stanno perdendo in Afghanistan.
2) Per questa guerricciola, Israele ha per giunta mobilitato tutte le sue lobby in tutti gli Stati, tutti i suoi trombettieri e sicofanti; riuscendo en passant a sbriciolare la reputazione di Obama - ridotto a burattino muto per paura degli ebrei americani - prima ancora della sua entrata alla Casa Bianca. A forza di volere gli USA servi  suoi, Giuda li ha resi inefficaci.
3) Tony Karon, «Can the jewish people survive without an enemy?», Time, 1 gennaio 2009.


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