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Osservatori UE: è l’Ucraina a bloccare il gas
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«Non c’è pompaggio di gas attraverso i gasdotti ucraini verso l’Europa, mentre la pressione nel condotto alla frontiera tra Russia e Ucraina è di 70 atmosfere»: così si legge nel rapporto firmato dagli specialisti che l’Europa ha mandato a controllare per stabilire chi ha ragione nella disputa sul gas fra Mosca e Kiev. In poche righe, insomma, si attesta che se il gas non arriva all’Ovest la responsabilità è del regime ucraino; la Russia fa pompa regolarmente, come da misure rilevate nella sottostazione di Studja (Kursk Oblast) e di Uzhgorod; gli ucraini si tengono tutta la materia prima destinata ai mercati europei (1). E non lo negano nemmeno.

Secondo Le Monde, Yulia Timoshenko, la premier ucraina, il 14 gennaio ha detto: l’Ucraina cesserà di bloccare il transito quando essa stessa sarà di nuovo rifornita di gas per il consumo interno.

L’ente pubblico ucraino responsabile, Naftogaz, ha ammesso di bloccare il traffico (che doveva riprendere martedì in base agli accordi) dando come scusa che Gazprom ha «posto condizioni di transito inaccettabili». E quali?

Secondo Kiev, Gazprom avrebbe preteso di introdurre il gas in un gasdotto non previsto per l’esportazione ma per il consumo interno; rilievo ridicolo, ovviamente smentito con irritazione da Gazprom. Per di più, non hanno consentito a osservatori russi di partecipare ai rilevamenti insieme agli europei in territorio ucraino.

Insomma: i democratici arancione traccheggiano, impapocchiano e rubacchiano con un’improntitudine che si credeva fiorisse solo nel golfo di Napoli.

Cosa farà la Commissione Europea? Smetterà di ripetere che la situazione è «inaccettabile» sia a Mosca sia a Kiev, come ha fatto finora per nascondere le inadempienze «arancioni»? Prenderà provvedimenti contro il comprovato inadempiente? E almeno, smetteranno i nostri liberi media di scrivere «Putin ci taglia il gas», come ha fatto il giornale dell’agente Betulla?

Temiamo che l’Europa non farà nulla, e i media continueranno a cantare la stessa canzone. Solo Robert Fico, il primo ministro della Slovacchia (la quale, privata del gas russo, ha dovuto rimettere in funzione una centrale nucleare tipo Chernobyl) ha debolmente protestato con la Timoscenko: «Le ho detto che l’Ucraina sta perdendo la fiducia dei partner europei».

Ma poi Fico si è affrettato ad aggiungere che la Slovacchia non vuol giudicare chi abbia torto o ragione fra Ucraina e Russia (2).

Perchè un atteggiamento così pecorile? Perchè l’Ucraina, debole, corrotta, spaccata da lotte di potere ed economicamente in rovina, si può permettere ogni arroganza, in quanto ha accettato di diventare la pedina del Grande Gioco, quello delineato da molto tempo da Brzezinski: isolare fisicamente la Russia dai mercati e partenariati  europei, e ridurla a «media potenza asiatica».

Lo ha lasciato capire Aleksandr Medvedev, il numero 2 di Gazprom: «Sembra che loro (gli ucraini) ballino su una musica che non è suonata in Ucraina», ha commentato ad Interfax. Chiesto di precisare se l’Ucraina bloccava il gas europeo su istruzioni americane, Medvedev s’è trincerato: «Sono un uomo d’affari, non un politico». Poi ha fatto un riferimento ad un accordo che USA e Ucraina avrebbero firmato a dicembre, senza meglio specificare.

Evidentemente anche i russi giudicano la situazione molto pericolosa. Qualcuno sta cercando di far precipitare il caos, con Bulgaria, Slovacchia, Moldavia e Bielorussia al freddo nel cuore dell’inverno, e la «democrazia arancione» ucraina che si è trasformata in un braccio di ferro tra il codiddetto presidente Yuscenko (sposato a Katerina Chumachenko, nata a Chicago, attiva al Dipartimento di Stato ai tempi di Reagan, e cittadina ucraina dal 2005) e la prima ministra Yulia Timoscenko; Yuscenko ha dissolto due volte il parlamento (che non ha obbedito).

Chi dei due tenga le mani sulle valvole del gas, e non abbia interesse a farlo arrivare in Europa, non è ben chiaro. Entrambi hanno più volte cambiato posizione internazionale, secondo convenienze (e chi versava mazzette miliardarie).

I nostri liberi media non hanno rilevato, ovviamente, che nella vicenda l’atteggiamento di Putin è stato cauto e non-provocatorio. Gazprom aveva offerto all’Ucraina un prezzo preferenziale di 250 dollari per mille metri cubi di gas, sperando di mantenerla nell’orbita di Mosca (il Paese ha una forte minoranza russofona, ed è integrato economicamente – anche con le pipelines – all’ex Unione Sovietica); Kiev ha rifiutato anche quel prezzo di favore, avendo «scelto la libertà» arancione e lo scontro con Mosca.

Noi europei paghiamo il gas russo al prezzo di mercato, 450-470 dollari; anche la Slovacchia, poverissima, paga lo stesso prezzo.

L’Ucraina non è in grado? Putin ha suggerito alla UE di fare un prestito all’Ucraina, in modo che potesse regolare gli arretrati con Gazprom. Mosca, ha aggiunto, ha fatto un simile prestito alla Bielorussia, con cui s’è accordata per portare gradualmente il costo delle forniture di gas al livello di prezzi europei, gradualmente, in tre anni.

«L’Europa non deve dire alla Russia che dobbiamo dare le nostre merci per niente», ha detto Putin a giornalisti tedeschi; «Purtroppo la situazione attuale è complicata dalla voglia (dell’Ucraina) di sfruttare parassitariamente la posizione di Paese di transito, e dalla crisi politica interna... E’ una lotta fra clan, dove i contendenti vogliono soddisfare le proprie ambizioni e l’accesso ai flussi di denaro, fra cui il gas russo è una fonte».

Putin si è persino detto pronto a partecipare, se necessario, alla privatizzazione della rete di trasmissione del gas in Ucraina, col consenso dell’Ucraina stessa; o meglio, di affittare la rete ucraina ad un consorzio internazionale, con un contratto a lungo termine, «in modo che il sistema resti di proprietà ucraina».

Il consorzio internazionale era già pronto e proposto a Kiev da anni, con Russia e Germania e Ucraina, a cui si sarebbero aggiunti, secondo un memorandum già firmato, «partners italiani e forse francesi».

Ma gli ucraini «hanno fatto della rete un feticcio, e lo considerano un dono venuto dal cielo alla nazione...».

Si capisce: le ricche royalty di transito sono praticamente la sola mammella a cui la corruzione «arancione» può poppare a sazietà, e senza alcuno sforzo di rinnovamento e riforma tecnologica (3).

Queste cose sono state scritte sui giornali tedeschi. Non sui giornali italiani, nè francesi. Invece, la solita solfa: «Putin ci taglia il gas».

La cautela del Cremlino e la ovina sottomissione eurcratica ha forse una spiegazione nell’accordo firmato il 19 dicembre fra Kiev e Washington, a cui ha alluso Medvedev.

E’ nè più nè meno che una Carta di Partnership Strategica, che si può leggere nel sito federale www.state.gov/p/eur/rls/or/113366.htm . In essa, i due Paesi si impegnano a «sostenere l’un l’altro» per quanto riguarda «la sovranità, l’indipendenza, l’integrità territoriale e l’inviolabilità delle frontiere»: chiara minaccia d’intervento americano in caso di crisi.

Inoltre, nella Carta si dichiara che «accrescere l’integrazione dell’Ucraina nelle istituzioni euro-atlantiche è una priorità per entrambi», e che gli USA si impegnano ad un programma per «intensificare la cooperazione nella sicurezza, inteso ad accrescere le capacità ucraine (militari, ndr) e di rafforzare la candidatura dell’Ucraina allo status di membro dlela NATO».

Insomma, a poche settimane dalla sua uscita di scena, Bush ha messo a segno questa ulteriore provocazione.

E’ il programma suprematista americano dettato dai neocon israeliani (precisamente, dal Project for A New American Century) che continua imperterrito, e che viene lasciato in eredità ad Obama.

Obama cambierà programma, o invece lo adotterà come proprio?

Hillary Clinton imminente segretaria di Stato, ha promesso di migliorare le relazioni con Mosca. Ma Mosca ha concreti motivi per essere cauta.

Per esempio, i servizi segreti russi hanno indizi che l’Ucraina sta riarmando di nascosto la Georgia, attraverso un mediatore bulgaro (4).

Una nave è arrivata nel porto georgiano di Poti con un carico di armi dall’Ucraina del valore di 5 milioni di dollari; un altro, con 6 milioni di dollari in armamenti, sta dirigendo verso il porto di Butumi. E strani «imprenditori ucraini» , secondo l’intelligence russa, stanno per perfezionare una più grossa e pericolosa consegna: sistemi missilistici anti-aerei «Igla» e missili anticarro «Fagot» del valore di 100 milioni di dollari.

Il mediatore dell’operazione, Hristo Stanimirov, ex colonnello che capeggiava il settore approvvigionamenti del ministero bulgaro della Difesa ai tempi del comunismo, avrebbe già fornito i falsi certificati necessari.

L’ex capo dei servizi ucraini, Vladimir Radchenko, con il dente avvelenato contro Yuschenko che l’ha licenziato, ha spiettellato che anche prima della crisi georgiana il presidente Yusenko aveva fatto un affaruccio fornendo armi a Saakasvili, e scremando qualcosina per sè: l’affare è finito male per l’Ucraina, che secondo lo spiattellatore ci ha perso 2 miliardi di dollari (armi consegnate e mai pagate) e ha guadagnato l’ostilità di Mosca che si riflette ora nel prezzo del gas.

Radchenko ha detto che «la determinazione psicologica di impicciarsi in intrighi non porta niente di buono», ma Mosca probabilmente si domanda: le nuove consegne alla Georgia vengono da una inclinazione psicologica all’intrigo di Yuscenko, oppure discendono direttamente dalla Carta di Partnership Strategica voluta da Washington?

Il fatto altamente pericoloso è che non si sa come rispondere a questa domanda. Obama ha promesso, a parole, un approccio meno unilateralista e più diplomatico verso le crisi create dal suo predecessore, e persino di sedersi ad un tavolo negoziale con l’Iran. Ma ci sono forze potenti che si oppongono a questo cambiamento di rotta, mandano avvertimenti e minacciano fatti compiuti.

Dopotutto, è ricomparso in audio anche Osama bin Laden, a minacciare la solita jihad.

Sul New York Times, David Sanger (ebreo e noto ventriloquo degli interessi dei falchi militari-industriali) ha scritto – significativamente – Obama «è stato abbondantemente informato delle operazioni americane (di sabotaggio, in corso e occulte, ndr) in Iran», e che «appena diventato presidente, dovrà decidere se valga la pena interrompere le azioni segrete cominciate da mister Bush» per privilegiare «un più attivo sforzo diplomatico».

In entrambi i casi, Obama corre un rischio, dice Sanger: se una operazione ereditata va male, egli farà la fine di «Kennedy nell’operazione Baia dei Porci a Cuba». Ma se interrompe le operazioni di sabotaggio, Obama «si espone all’accusa di lasciar che l’Iran corra a dotarsi della capacità nucleare».

E’ un minaccioso avvertimento «made in Israel»: non tentare di cambiare  rotta,  o avrai i media – e non solo – contro di te.

Insomma, commenta l’analista militare William Lind (uno fra i più rispettabili conoscitori dall’interno del potere militare-industriale USA), Osama, per attuare le sue promesse, «dovrebbe trovare la saggezza e il coraggio di rompere con l’establishment di politica estera del partito democratico: ma questo establishment è legato ad Israele come il sistema di politica estera della Russia era legato alla Serbia nel 1914».

Non troverà questo coraggio, prevede Lind:

«L’avvento di un nuovo presidente americano non cambia niente, perchè a Washington niente cambia davvero. Un settore dell’establishment lascia il governo e trova impiego nei think-tank e agenzie di lobbying, un altro settore torna da quegli stessi posti al governo. La gente attorno ad Obama (the Obama crowd, «la cricca») è altrettanto globalista, interventista e imprudente quanto il branco di porci di Gadara di Bush. Gates (il ministro al Pentagono, ndr) può essere un’eccezione, ma nella terra dei ciechi il monocolo è detestato. Ci sono piani per ulteriori folle avventure militari all’estero, nonostante il fatto che oggi dobbiamo stampare il denaro per pagarle» (5).

Piani per ulteriori folli avventure militari?

Ossia: pressioni per un colpo all’Iran, magari compiuto solo da Israele, per mettere Obama davanti al fatto compiuto prima che si sieda al tavolo con gli ayatollah? Possibile?

Possibile. Tony Blankley, un columnist conservatore molto addentro alle segrete intenzioni dei poteri forti, già estensore dei discorsi di Reagan ed oggi addetto-stampa di Newt Gingrich, invitato lunedì scorso alla trasmissione di Fox News, «Fox & Friends», è saltato fuori con un discorso inaudito: quello di cui gli Stati Uniti hanno bisogno nell’attuale situazione economica, la sola cosa che può garantirci la sopravvivenza come superpotenza, è «la leva obbligatoria universale»; difatti dovremo presto «impegnare centinaia di migliaia di soldati» in operazioni all’estero, non esclusa una possibile invasione del Pakistan.

Blankley è noto per avere pubblicato nel 2005 un saggio, «The West’s last chance: Will we win the Clash of Civilizations?», in cui descriveva un’Europa dominata dall’Islam estremista, e dunque da «liberare» con le forze USA.

Oggi ha scritto un libro dal titolo «American Grit», qualcosa come «il fegato dell’America», che sunteggia così: «Se non agiamo molto di più e con molta più durezza, possiamo essere sopraffatti».

Per questo motivo, egli propone che tutti i giovani americani dai 18 anni in poi siano chiamati a due anni di servizio militare, pronti a tutto.

La israelizzazione dell’America
Come dice Lind, a Washington non cambia nulla davvero: la cricca di Obama vale la cricca di Bush, Rahm Emanuel è come Dick Cheney. Ciò spiega la cautela di Putin.

Ma come spiegare l’adesione passiva e servile degli europei davanti a questi programmi? Perchè la cricca di Bruxelles ci porta ciecamente verso questa china americanista?




1) «Reports by international monitors confirm Ukraine has blocked transit of Russian gas «, Pravda, 14 gennaio 2009.
2) «EU losing trust in Ukraine over gas transit row - Slovak PM», RIA  Novosti, 14 gennaio 2009.
3) «Putin: Ukraine has a fetish about its gas transmission system», Pravda, 12 gennaio 2009.
4)  «Is Ukraine arming Georgia illegally?», Georgia Times, 12 gennaio 2009.
5)  Citato dal sito Dedefensa, «L’Iran et le president-elect», 12 gennaio 2009.


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