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Dicotomie ingannevoli: Bush/Obamo, Confindustra/CGIL
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Pro-Life e Liberal

Uno tra i primi atti firmati da Bush, appena eletto, fu quello che toglieva ogni finanziamento pubblico alle organizzazioni abortiste americane. All’epoca si udirono cori di giubilo a «destra» e lamenti funebri a «sinistra», anche in ambito cattolico. Uno dei primi atti firmati da Obama, appena eletto, è stato quello che ripristina i finanziamenti pubblici alle organizzazioni abortiste americane. Si sentono in questi giorni cori di giubilo a «sinistra» e lamenti funebri a «destra», anche in ambito cattolico.

Il pro-life Bush, come è noto, non ha poi esitato a portare la guerra, ingiusta, in due nazioni, Afghanistan ed Iraq, permettendo così alle bombe di massacrare bambini innocenti. Il pacifista Obama annuncia il ritiro delle truppe americane almeno dall’Iraq ma, novello Erode, finanzia la strage degli innocenti non ancora nati. Ciò che dovrebbe coerentemente tenersi unito, ossia, come nell’esempio sopra fatto, il rispetto per la vita, sia per quella non ancora nata che per quella già nata, è invece motivo di contrapposizione politica. Con la conseguenza del trionfo dell’ipocrisia eretta a sistema di governo della Polis.

Cosa infatti è, se non ipocrisia, quella dei pro-life, e non ci riferiamo solo a quelli americani, che combattono giustamente l’aborto ma poi tacciono sulle guerre ed i massacri u-sraeliani nel vicino oriente o sui problemi sociali che portano spesso alla disperazione, e quindi all’aborto, povere donne, sole ed abbandonate in una società violenta e cinica come quella statunitense (si ricordi che proprio nel Paese la cui costituzione inneggia al matrimonio come fondamento della società le famiglie monoparentali, per irresponsabilità soprattutto dei padri sempre più assenti, superano di gran lunga quelle biparentali: è questo l’effetto della morale a-metafisica e del soggettivismo del protestantesimo).

Cosa è infatti, d’altro canto, se non ipocrisia, il «politicamente corretto» della sinistra, e non ci riferiamo soltanto a quella americana, che si commuove per ogni albero o animale perduto ma non per i milioni di bambini innocenti maciullati dai medici abortisti.

L’umanità, in questi giorni, con l’insediamento di Obama alla Casa Bianca, sta per l’ennesima volta assistendo alla pantomima messa in atto dalle categorie politiche nate con la modernità e che siamo soliti definire con i termini di «destra» e «sinistra».

Il fondamento teologico dell’antropologia

Come diceva Donoso Cortés, dietro ogni dottrina o posizione politica si nasconde sempre una teologia. Da parte nostra aggiungiamo che da ogni teologia nasce una ben precisa antropologia che poi si traduce anche in termini politici.

Alla luce della Rivelazione, l’antropologia cattolica guarda all’uomo come ad una creatura capace del bene come del male e dunque, dopo il peccato originale, pur deviata e tentata dal male, ancora capace di Dio, Sommo Bene. L’uomo è stato creato originariamente in uno stato di Grazia che lo poneva in un rapporto particolare ed unico con il suo Creatore. Dio lo aveva colmato di doni soprannaturali. L’uomo, dunque, compare, nel mondo, originariamente buono perché colmo dell’Amore di Dio. Ma, proprio perché l’Amore non è mai imposto, l’uomo è stato creato pur sempre libero di rifiutare il suo Creatore. Ed è ciò che effettivamente egli ha fatto, e sovente continua a fare, illudendosi di potersi auto-divinizzare.

Dopo il peccato l’uomo non è però distrutto interiormente ma solo ferito. L’uomo rimane ancora capace del bene e dunque di Dio, benché ora, a causa del peccato e senza la Grazia, con grandi difficoltà perché tentato in modo suadente dal male. Il Sacrificio della Croce lo ha redento, cancellando la colpa originale, ma lo ha lasciato ancora alle prese con le conseguenze del peccato originale, dunque con la sua natura indebolita e ferita, affinché egli, attraverso una libera scelta, che comporta sempre una lotta contro le proprie tendenze al male, aderisca volontariamente al Sacrificio Redentore ed ottenga la Grazia necessaria alla Salvezza.

Quella cattolica è una teologia, ed un’antropologia, dell’«et-et».

Da questa antropologia teologica consegue una posizione politica di grande realismo che, partendo dalla considerazione che l’uomo è peccatore ma redento, respinge ogni eccesso di pessimismo come ogni ingenuo ottimismo: «Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe » (Matteo 10,16).

Nel pensiero moderno, al contrario, hanno preso piede due contrapposte antropologie, frutto di due contrapposti errori teologici e sorgente di due contrapposte posizioni politiche.

Lutero, Calvino, Hobbes e l’antropologia negativa

Riprendendo temi gnostici dei primi secoli, che insistevano su una ontologica malvagità del creato, temi che attraversarono in forma ereticale i secoli medioevali, Lutero, mediante la sua teologia della «contraria species», ossia la supposta e radicale opposizione tra «spirito» e «carne» (contrapposizione, come il Concilio Tridentino, ribadendo la Tradizione, ha affermato, assolutamente non paolina, benché molti sprovveduti, oggi anche in ambito cattolico, lo pensino), opposizione che pone tra Dio e uomo una alterità totale, e non l’«immagine» o l’«analogia», ha aperto la strada ad una antropologia negativa: l’uomo sarebbe, in questa prospettiva, pura malvagità, una cloaca immonda di peccato, una bestia che solo la ferrea catena dell’autorità può tenere aggiogata ed ammansita.

Secondo la teologia luterana la salvezza è solo un decreto esterno, ossia senza effetti interiori (per Lutero la Grazia non trasforma il cuore dell’uomo che, anche nel caso sia giustificato, rimane sempre immondo, limitandosi, la «grazia», a «coprire» tale umana immondizia) che un Dio, dai tratti dispotici ed irrazionali, concede a suo arbitrario piacimento, nulla potendo l’uomo far valere per proprio merito (anzi, essendo ogni merito umano, anche la santità, soltanto orgoglio). Ne consegue il più totale arbitrio divino: tu sei salvo anche se sei un assassino e tu sei dannato anche se sei un santo!

E’ evidente che siamo di fronte ad una teologia intrisa di «illogicità» e dunque profondamente «oscura» ed «inquietante». Chi mai può essere sicuro di camminare sulla giusta via se la Grazia non ha effetti nell’uomo e nessuna opera di carità potrà avvicinarlo a Dio? E’ difficile sostenere una tale prospettiva, che toglie all’esistenza ogni bellezza e bontà (ed infatti nei Paesi protestanti si respira un clima spirituale plumbeo e, per opposizione, la rivolta libertina).

Calvino, nel tentativo di dare rassicurazione ai fedeli in ansia, ha poi peggiorato la prospettiva luterana: c’è un segno che ci fa sicuri di essere sulla strada della salvezza ed è la riuscita professionale, l’accumulo della ricchezza, il successo sociale. La povertà, l’insuccesso professionale, economico e sociale, diventano così il segno della dannazione ed ai derelitti è tolto anche il Cielo.

Nel medioevo il povero era considerato immagine del Signore e la Chiesa cattolica insegnò a prendersene cura, nell’anima e nel corpo: insieme all’università, una delle invenzioni più grandi di quell’epoca, che al contrario di quel che si pensa fu epoca di grandi avanzamenti anche tecnologici, fu l’ospedale.

Con Calvino le condizioni dei poveri si fecero molto più dure e fu tolta a loro anche la calda carità cristiana con cui in passato erano stati assistiti. Passato, poi, il momento dell’iniziale duro «ascetismo mondano» invocato da Calvino (lavoro e solo lavoro: ogni altra attività distraendo dal successo professionale porta alla perdizione) è rimasto, come esito di tale teologia, il liberismo che, con la sua «frenesia epilettica», è il più inumano pervertimento di una sana economia.

La via inaugurata da Lutero fu proseguita sul piano della teologia politica da Hobbes: «homo homini lupus». Essendo essenzialmente malvagio e pericoloso per il prossimo, l’uomo deve essere sottoposto al duro regime autoritario del Sovrano assoluto, l’hobbesiano «dio mortale», che è l’antesignano di tutti i totalitarismi di «destra». Per Hobbes la stessa convivenza politica nasce solo per contratto allo scopo di regolare, sotto la garanzia del Principe, le reciproche egoistiche utilità della vita. Mediante il contratto sociale gli uomini rinunciano alla loro presunta originaria ed illimitata libertà e delegano, in cambio della pace e della sicurezza, al Sovrano ogni potere coercitivo.

Pelagio, Rousseau, Saint Simon e l’antropologia positiva

A questo tipo di antropologia si oppone dialetticamente, essendo in realtà esse in rapporto di complementarietà, un’antropologia che, per opposizione, possiamo chiamare «positiva».

Già Pelagio, monaco di origini irlandesi, che fu confutato da Sant’Agostino, sosteneva che l’uomo poteva salvarsi con le sue sole forze e che Cristo era soltanto un maestro di moralità. Non essendo stato toccato dal peccato originale, l’uomo, secondo Pelagio, rimaneva del tutto capace di scegliere perfettamente il bene ed evitare il male, senza alcuna necessità della Grazia salvifica della Croce. Se in Lutero l’errore era di assolutizzare il peccato originale fino a farne l’essenza stessa dell’essere, in Pelagio l’errore era nell’assolutizzare le capacità della natura umana come se essa fosse ancora quella adamitica precedente il peccato ossia integralmente infusa dalla Grazia.

In entrambi i casi, a ben vedere, vi è la svalutazione della Grazia redentrice di Cristo, che per Lutero non trasforma, non guarisce, la natura umana e per Pelagio è del tutto inutile perché, in fondo, l’uomo sarebbe rimasto del tutto incontaminato dalla colpa d’origine e capace di salvarsi da solo.

Questo tema della permanenza integrale dell’innocenza originaria lo ritroviamo nella teologia politica di Jean Jacques Rousseau nella forma del mito filosofico del «bon sauvage», del «buon selvaggio». L’uomo sarebbe buono per natura e soltanto le cattive istituzioni della società, in primis la Chiesa cattolica ed ogni autorità religiosa e politica, lo corromperebbero impedendogli di manifestare la propria naturale bontà. Ritorna in Rousseau il pelagianesimo, che possiamo sintetizzare in un motto opposto a quello di Hobbes ossia «homo homini deus», per diventare la giustificazione teoretica di tutte le filosofie libertine ed umanitarie, liberal e progressiste per dirla in termini più attuali. L’anti-autoritarismo trova nel filosofo ginevrino il proprio sistematizzatore.

Dopo Rousseau ogni filosofia politica rivoluzionaria, post- o anti-statualista, compresa quella marxiana e quelle liberali, anarchiche e persino di certa sinistra fascista, che guardano alla convivenza come ad un sistema assolutamente a-gerarchico e spontaneo, non escluse le posizioni che oggi si dicono sussidiarie o comunitarie, parte proprio dall’erroneo presupposto che nega ogni rilevanza al peccato originale e che assume l’uomo come una creatura ancora totalmente innocente.

E’ questa la prospettiva di ogni totalitarismo di «sinistra». Infatti, il «buon selvaggio» di Rousseau messo alla prova storica ha generato i più orridi inferni totalitari. L’ottimismo integrale ed utopico di Rousseau fu, nel corso del secolo XIX, assunto e rielaborato da tutti quei pensatori, come Saint Simon, che inneggiarono alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità, votata al «Sol dell’avvenire» che avrebbe dissipato le tenebre della superstizione e dell’oscurantismo cattolico.

Anche in Rousseau, in fondo, agisce la prospettiva gnostica della «contraria species» e, se in Lutero ciò portava alla svalutazione dell’umano, in Rousseau si arriva alla svalutazione del divino.

In ogni caso la conclusione è quella, prometeica, dell’auto-deificazione dell’uomo: il «libero esame», ossia il soggettivismo esegetico, in Lutero, il «dio mortale», ossia il sovrano assoluto, in Hobbes, l’«Umanità», proiettata verso le sorti radiose del progresso, in Rousseau.

Complementarietà dialettica delle predette erronee antropologie

Si tratta di antropologie che si basano su teologie dell’«aut-aut». Francisco Vitoria, uno dei grandi maestri della seconda scolastica della Scuola di Salamanca del XVI secolo, all’«homo homini lupus», poi ripreso da Hobbes, ed all’«homo homini deus», poi fatto proprio da Rousseau, opponeva il cattolico e tradizionale «homo homini homo», dove la triplice ripetizione non stava solo ad escludere i due contrapposti, però dialetticamente e segretamente convergenti, errori ma esprimeva tutta la Verità rivelata sull’uomo innocente in origine, ferito, benché non integralmente corrotto, dal peccato, ed, infine, redento dal Sacrificio di Cristo.

Queste due contrapposte ed erronee antropologie, «negativa» e «positiva», lo abbiamo già osservato, pur sembrando in radicale contrapposizione sono, in realtà, dialetticamente complementari perché scaturiscono entrambe da una stessa fonte, quella che in termini teologici si chiama «mistero d’iniquità» e che, purtroppo, agisce, come opera di colui che è omicida sin dall’inizio nonché padre della menzogna, nella vicenda storica dell’uomo.

Queste antropologie, e gli errori teologici che le sostengono, infatti si intersecano spesso ed hanno spesso convissuto anche nelle manifestazioni storico-politiche a cui hanno dato corpo nel corso dei secoli, soprattutto in quelli recenti.

Un esempio, molto attuale, è dato proprio dall’ideologia liberale (anche il liberalismo è, che lo vogliano o meno i suoi sostenitori, una perversa ideologia). Infatti nell’ambito della cultura liberale si distinguono una corrente liberal-conservatrice ed una liberal-progressista, delle quali il modello americano ci offre concrete espressioni come sono, per l’appunto, il rigorismo conservatore dei repubblicani ed il permissivismo progressista dei  democratici.

Ma se si raschia la superficiale vernice, dietro queste due posizioni si ritrovano, pari pari, l’antropologia negativa e quella positiva: da un lato Lutero ed Hobbes e dall’altro Rousseau e Saint Simon. Questo apparente dualismo lo ritroviamo anche nello schema «centrodestra»/«centrosinistra» dell’odierna politica italiota ed occidentale in genere.

Chi ha letto il discorso di Obama, in occasione del suo insediamento, si sarà reso conto che nessuna sostanziale differenza sussiste tra la prospettiva liberal-conservatrice di Bush e quella liberal-progressista dello stesso Obama.

Il nuovo presidente statunitense infatti ha riaffermato tutta l’ideologia, di matrice puritana, del «destino manifesto» della nazione americana che, alla stregua dell’antico Israele veterotestamentario, visto però secondo l’ottica dell’esegesi giudaico post-biblica, avrebbe avuto direttamente da Dio la missione di lottare contro il «male» e di portare a tutte le genti la luce della libertà e della democrazia, ossia il «migliore dei sistemi possibili», per far giungere, volente o nolente, l’intera umanità alle soglie della nuova era (quante volte stiamo sentendo in questi giorni, questo termine, «new age», nella propaganda mass-mediale in favore di Obama!) e della pace globale.

Ma, ora si rifletta, cosa invocava G. W. Bush, a giustificazione della sua politica, se non il «destino manifesto» degli Stati Uniti, il «patto» da essi contratto con Dio per portare al mondo intero la libertà, la democrazia e la pace globale, dopo naturalmente aver distrutto l’«Asse del Male»? Cosa cambia dunque tra Bush ed Obama?

Semplicemente la forma nella quale l’ideologia americana si propone.

Decisionista, bellicista, unilaterale e muscolare in Bush; dialogante, pacifista, multilaterale e buonista in Obama.

Non ci si illuda però: la forma umanitaria e pacifista dell’ideologia americana non è, all’occorrenza, meno cruenta di quella unilateralista, perché l’idealismo missionario di fondo è lo stesso. Non è infatti un caso se gli Stati Uniti siano intervenuti su scala globale proprio quando al governo vi erano presidenti democratici.

Così fu nel caso dell’intervento nella prima guerra mondiale con T. W. Wilson, l’ideatore della massonica Società delle Nazioni antefatto dell’ONU, ed in quello dell’intervento nella seconda guerra mondiale con F. D. Roosevelt.

Ultimo in ordine di tempo, Clinton che decise l’intervento americano in Serbia nel 1998. Infatti, i repubblicani, fino alla svolta reaganiana, sono stati generalmente più isolazionisti rispetto ai democratici, incarnando la diffidenza puritana verso il mondo «terreno incolto del diavolo» laddove i democratici hanno incarnato il rovescio di quella diffidenza ossia la volontà purificatrice del mondo contaminato.

Ecco dunque che l’apparente opposizione tra pro-life e liberal, con riferimento alla quale abbiamo aperto queste nostre considerazioni, si rivela al fondo nient’altro che uno specchio per allodole per sviare il cuore umano. Perché non c’è uomo alcuno che non senta nel proprio intimo come ingiusta sia la politica bellicista conservatrice che quella abortista progressista e non c’è uomo che nell’intimo non senta come giusta la politica pro-life conservatrice e quella a tutela dello Stato sociale dei democratici. Sicché posti di fronte a questa irrazionale dicotomia, gli uomini finiscono per dividersi a seconda dell’urgenza che, tra difesa della vita e giustizia sociale, che dovrebbero essere aspetti della stessa ed identica verità, occupa in loro il primo posto. Una scelta che poi nei cattolici non può non diventare dramma ed infine, all’atto pratico, sempre un tradimento della propria identità di fede.

Un’altra falsa dicotomia: quella tra capitale e lavoro nelle relazioni industriali

Non sembri che quanto abbiamo fin qui detto non abbia anche notevoli connessioni con il nostro quotidiano, anche al di là dei grandi temi etici come quello dell’aborto o dell’eutanasia.

Proprio in questi giorni, il 23 gennaio scorso, è stato siglato il nuovo accordo tra governo, confindustria e sindacati sulla riforma delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva. Nel presentare la cosa governo, industriali e sindacati hanno definito il nuovo modello di relazioni industriali come «cooperativo». Un eufemismo per non dire che il nuovo modello è un modello di tipo corporativista. Una parola che sa troppo di cattolico e di fascista.

Ma al di là dei pudori si tratta in realtà proprio di un modello che si situa nella tradizione politica interclassista che nasce, nel mondo moderno, all’indomani della Rivoluzione Francese, quando proprio da «destra», dai ceti sconfitti (aristocrazia e clero), si iniziò ad elaborare una serrata critica all’individualismo liberale e borghese, opponendo ad esso una visione organicista, cristianamente ispirata, della convivenza politica e sociale.

Già alla fine del XVIII secolo il cardinale Fabrizio Ruffo, prima di organizzare l’esercito popolare della Santa Fede per la liberazione del Regno di Napoli dai francesi invasori, era stato ministro delle Finanze presso il Papa ed in tale veste aveva ideato un vasto piano di riforme amministrative ed economiche la principale delle quali fu la trasformazione dei feudi di Castro e Ronciglione in enfiteusi ereditarie in favore dei contadini che lavoravano quelle terre. In tal mondo quel cardinale, sul quale la propaganda giacobina e liberale fece poi cadere una vera e propria ingiustificata «damnatio memoriae», trasformò il lavoro coatto e servile in lavoro libero e partecipante alla rendita della terra, che aumentò, a seguito della sua riforma, di oltre il 33%.

Fu quello un esperimento effettuato dal cardinale sotto il beneplacito di Pio VI che lo stesso Pontefice volle estendere a tutto lo Stato Pontificio. Purtroppo l’invasione francese, da lì a poco, impedì ogni ulteriore avanzamento della riforma che, al momento della Restaurazione, fu del tutto dimenticata. Ma il seme «corporativista» delle idee economiche cristiane di Fabrizio Ruffo era stato gettato ed avrebbe successivamente fruttificato, perché a tale tipo di soluzioni sociali si sarebbe poi, appunto, ispirato l’intero movimento sociale cattolico germinato all’interno dell’intransingentismo.

Questa tradizione politica trovò infatti seguito nel cattolicesimo intransigente ottocentesco ed in quello «corporativista» del novecento, riuscendo anche a parzialmente attrarre nella sua orbita il nazionalismo sociale alieno da pulsioni razziste. Essa ebbe sanzione ed esplicita approvazione da parte del Magistero Sociale della Chiesa e in fondo, benché tenendo, come ovvio, conto dei cambiamenti tecnologici e sociali dei sistemi di produzione intervenuti in questi ultimi due secoli e soprattutto negli ultimi decenni, rimane la visione ultima della Chiesa in materia sociale.

Pio XI nella Quadragesimo Anno (1931): «Per… legge di giustizia sociale non può una classe escludere l’altra dalla partecipazione degli utili (sicché) nelle odierne condizioni sociali, stimiamo sia cosa più prudente che, quando è possibile, il contratto di lavoro venga temperato alquanto col contratto di società (…). Così gli operai diventano cointeressati o nella proprietà o nell’amministrazione, e compartecipi in certa misura dei lucri percepiti» (paragrafi 58 e 67).

A sua volta Giovanni Paolo II nella Laborem Excercens (1981): «Se infatti è una verità che il capitale, come l’insieme dei mezzi di produzione, è al tempo stesso il prodotto del lavoro di generazioni, allora è parimente vero che esso si crea incessantemente grazie al lavoro effettuato con l’aiuto di quest’insieme dei mezzi di produzione, che appaiono come un grande banco di lavoro, al quale s’impegna, giorno per giorno, la presente generazione dei lavoratori. (…). In questa luce acquistano un significato di particolare rilievo… le proposte riguardanti la comproprietà dei mezzi di lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e/o ai profitti delle imprese, il cosiddetto azionariato del lavoro, e simili» (paragrafo 14).

L’obiettivo ultimo di tale Magistero è quello di riunire, o perlomeno riavvicinare, il capitale ed il lavoro che, fino a quando la fisiocrazia liberista e la rivoluzione industriale nel XVIII non li separò, erano sempre stati uniti nella medesima figura dell’artigiano, ad un tempo imprenditore e lavoratore.

Da questa tradizione «corporativista» è nato lo Stato sociale di mercato ossia l’economia renana che ha avuto, non a caso, una delle sue migliori realizzazioni nella cattolica Baviera. A questa tradizione si ispirarono, già a cominciare dalla seconda metà del XIX secolo, gli esperimenti di partecipazione della manodopera ai risultati d’impresa che furono effettuati in alcune industrie del Belgio cattolico. Esperimenti che Vincenzo Gioacchino Pecci, futuro Papa Leone XIII, poté apprezzare nelle sue funzioni di nunzio apostolico in Belgio e dei quali si ricordò quando elaborò la Rerum Novarum (1891), la prima enciclica sociale della Chiesa in età moderna (diciamo in età moderna perché la Chiesa ha sempre avuto sin dall’età apostolica una sua dottrina sociale: basti solo pensare alle centinaia di pronunce ecclesiali a condanna dell’usura). E sempre a questa tradizione, oltre che al recupero in senso non autoritario dell’esperimento corporativsta e socializzatore del regime fascista, si ispirano, lo ammettano o meno gli «antifascisti», anche gli articoli 39 e 46 della costituzione repubblicana vigente, quella «nata dalla resistenza» come suole affermare la retorica ufficiale del 25 aprile.

Benché la realtà socio-produttiva di oggi non sia più quella, semplicistica, del XIX secolo, all’ombra della quale Marx, ispirandosi alla dialettica hegeliana, elaborò la teoria della lotta di classe, borghesia-proletariato - si tenga presente che una tale realtà era del resto già cambiata nella seconda metà del XIX secolo medesimo, per non parlare poi del XX secolo, essendo diventata molto più articolata e complessa rispetto alla prima rivoluzione industriale - il rapporto capitale/lavoro, pur nelle sue variate forme epocali, rimane fondamentale nell’economia di mercato, ed in particolare in quella sociale.

Tutto sta nel vedere se tale rapporto sia o debba essere sempre e comunque conflittuale o sia e possa essere anche, e prevalentemente, collaborativo nel comune interesse e nel più generale interesse nazionale.

Ed è esattamente questo l’obiettivo della tradizione politica «corporativista», che come si è detto ha antiche origini cattoliche: far prevalere il momento collaborativo su quello conflittuale. Ma affinché questo non si risolva in una mera foglia di fico propagandistica che nasconda un’egemonia del capitale, come purtroppo è parzialmente accaduto durante l’esperimento fascista ed alla quale neanche la socializzazione del 1943-45 poté, dati i tempi, porre rimedio, è necessario che, superando lo spirito conflittuale, il lavoro sia ammesso non solo alla partecipazione agli utili di impresa ma anche e soprattutto alla gestione e decisione imprenditoriale.

Dal momento che il conflitto sociale non è solo quello dei ceti meno abbienti verso quelli egemoni ma anche, e soprattutto, quello di questi ultimi contro i primi, senza del quale non vi sarebbe del resto la giusta rivolta dei primi, storicamente alla soluzione corporativista non si è opposta solo la sinistra comunista (quella socialdemocratica o socialista invece vi si uniformò prima teoricamente e poi, come nella Germania occidentale del secondo dopoguerra, anche praticamente) ma anche e particolarmente il mondo industriale, il capitale, geloso delle proprie prerogative decisionali.

La sinistra comunista vede nella partecipazione agli utili ed alla gestione la fine del modello conflittuale sul quale essa da sempre prospera. La Confindustria, dal canto suo, ha finora visto nel modello corporativista il rischio dell’intromissione nella cittadella del potere aziendale di elementi estranei al club dei capitalisti, i lavoratori o lo Stato, e quindi il rischio di un drastico ridimensionamento del proprio potere.

L’unico approccio che Confindustria ha storicamente rivolto all’ipotesi di collaborazione tra capitale e lavoro è sempre stato meramente «paternalista» ossia senza le «complicazioni» della
co-gestione o co-determinazione. Eppure, laddove essa è stata introdotta, come in Germania nel dopoguerra, gli stessi industriali alla fine hanno dovuto ammetterne l’indispensabilità per un’economia sociale avanzata, che non voglia cadere preda dell’utopia anti-economica dell’eliminazione del mercato stesso, ed anche per una maggiore competitività delle imprese. Tra i sindacati, l’unico che si è opposto al nuovo accordo per un’economia partecipativa è stata la CGIL.

I motivi sono da cercare in quanto sopra detto circa la storica ostilità preconcetta della sinistra comunista al modello «cooperativo», o «corporativo» che dir si voglia. E tuttavia in una cosa la CGIL ha ragione: quando essa osserva che la Confindustria si è risolta ad accettare tale modello, anche da essa storicamente osteggiato, soltanto in quanto la difficile congiuntura economica mondiale la costringe da un lato a cercare la pace sociale e dall’altro a «scaricare» parte del rischio imprenditoriale sul lavoro.

Questo è in effetti un argomento decisivo. Infatti collegare gli aumenti salariali alla produttività significa appunto estendere, in parte, il rischio di impresa ai lavoratori. Il che non sarebbe di per sé un «crimine» a condizione che questo avvenga non come soluzione di emergenza, ossia legata all’attuale crisi economica e quindi da abbandonare dopo di essa, e soprattutto che avvenga secondo un preciso parametro. Questo parametro è quello della «partecipazione agli utili netti».

Cosa si intende con tale espressione?

Si intende che la quota dei risultati di impresa da attribuire ai lavoratori deve essere calcolata sempre e comunque sui ricavi netti, ossia tolti tutti gli altri elementi di costo (macchinari, forniture, lavoro, energia, tasse, etc.) che nel loro insieme incidono sui ricavi, essendo ricompresi nell’utile lordo.

L’ideale sarebbe che la partecipazione agli utili fosse configurata alla stregua di un vero e proprio prelievo di una congrua quota dell’utile netto in favore del lavoro, la cui base dovrebbe rimanere sempre quella salariale soggetta a contrattazione collettiva. Ma questo è più facile da realizzare in un’economia più statica e meno dinamica di quella globalizzata, ossia in un’economia nella quale l’impresa è di grandi dimensioni, strutturata fordisticamente, caratterizzata da chiare suddivisioni gerarchiche del lavoro.

In un’economia globalizzata, come l’attuale, nella quale invece i ruoli sociali diventano interscambiabili, le imprese tendono alle medie e piccole dimensioni ed alla interconnessione reticolare su scala globale e la competitività è fortissima, come la conseguente flessibilità organizzativa che si va rimodellando su una forte autonomizzazione del lavoro, anche di quello dipendente sempre meno concepito in termini di subordinazione gerarchica e sempre più invece in termini di cooperazione paritetica (il cosiddetto «team» o «gioco di squadra»), la partecipazione agli utili tende a configurarsi più come connessione del salario o degli aumenti salariali alla produttività (poco più che i tradizionali «premi di produzione». Sicché essa, se non si pone la condizione già citata dell’utile netto, potrebbe diventare la carota posta di fronte all’asino per farlo correre.

Se, infatti, fosse questa l’intenzione con cui la Confindustria, a causa della crisi economica, ha oggi accettato ciò che fino a ieri vedeva come fumo negli occhi, il discorso allora diventerebbe «truffaldino» e le motivazioni del rifiuto della CGIL del tutto comprensibili. Ecco perché, è necessario, affinché venga posto in essere davvero un modello genuinamente «corporativista», costringere la Confindustria a sottostare a due imprescindibili condizioni:

al collegamento del salario e degli aumenti salariali alla produttività netta, ossia ad un metodo di calcolo della produttività aziendale che non nasconda dietro il termine «produttività» anche tutti i costi al lordo sottraendoli così alla responsabilità dell’imprenditore e scaricandoli sul lavoratore;

all’introduzione della cogestione o codeterminazione, sul modello della «mitbestimmung» tedesca, ossia della partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori agli organi di vigilanza e controllo sul consiglio di amministrazione o direttamente all’interno del consiglio di amministrazione medesimo (si badi: «partecipazione dei lavoratori» e non dei sindacati, ovvero di rappresentanze scelte dagli stessi lavoratori di una azienda e non tramite la mediazione sindacale che deve rimanere solo nell’ambito della contrattazione e della legislazione del lavoro).

Il punto sub 2), infatti, è la logica conseguenza del modello «corporativista» o, come preferiamo chiamarlo pudicamente oggi, «cooperativo». Se si vuol estendere ai lavoratori una parte dei rischi imprenditoriali non è possibile limitare la loro partecipazione soltanto agli utili, netti, di impresa o alla maggiore o minore produttività, netta, aziendale.

Se si vuole fare del lavoratore un co-imprenditore, un lavoratore-imprenditore (come era l’antico artigiano), non è possibile negare ad esso il sacrosanto diritto di partecipare anche alla fase decisionale ed alle scelte di strategia aziendale. Anche perché, diventando il lavoratore partecipe del rischio imprenditoriale, egli ha tutto il diritto di partecipare a scelte dalle quali dipende il suo destino non solo come lavoratore ma anche, ora, come «imprenditore».

Ma è proprio questo tipo di partecipazione avanzata che la Confindustria in Italia, da sempre su posizioni «reazionarie», ha finora visto come un’«apocalisse». Quindi, se l’accordo raggiunto da governo, industriali e sindacati il 23 gennaio scorso è una truffa lo si verificherà all’atto pratico laddove a questo accordo non ne segua un altro, meglio ancora se una legge, che apra ad una effettiva partecipazione dei lavoratori anche, e soprattutto, alla gestione delle aziende.

Sia detto per inciso: da tutto quanto finora detto il settore pubblico dovrebbe essere escluso. Non per discriminazione ma perché, lo abbiamo affermato moltissime volte in altre occasioni, lo Stato, la comunità politica (anche se essa non può identificarsi completamente con lo Stato che però ne è, nella modernità, una forma) anche quando gestisce ed eroga servizi pubblici, non è una azienda.

Lo Stato è essenzialmente «regalità». Quindi i criteri organizzativi e retributivi in ambito pubblico devono essere basati sulla gerarchia dei ruoli e delle funzioni, sull’esempio dell’organizzazione militare (in tal senso, del resto, lo Stato, secondo la tripartizione platonica e tradizionale, che in Europa fu in vigore fino alla Rivoluzione Francese, corrisponde all’elemento «guerriero», laddove il mercato a quello «artigiano»: restando, in età cristiana, alla Chiesa, non allo Stato medesimo, la funzione «sacrale»), ed i criteri retributivi devono basarsi  sul salario, naturalmente equo e parametrato ad una vita dignitosa, ma senza «partecipazione agli utili», tutt’al più solo «premi di risultato», perché nel pubblico gli «utili» non ci sono, dovendosi tra l’altro i bilanci chiudersi, correttezza gius-contabile vorrebbe, in pareggio.

Nel pubblico quello cui bisogna tendere è la riconquista del perduto onore sociale, dello spirito di servizio, del senso di appartenenza ad un «corpo d’élite» a servizio della Patria. Ed a questo fine è necessaria un’etica da «cavalieri» più che da «produttori».

Come si vede, anche in una materia come quella delle relazioni industriali, l’apparente dicotomia «destra» e «sinistra», con il suo retaggio di errori teologici ed antropologici, perpetua l’inganno di far sembrare in opposizione ciò che invece è ontologicamente e per natura essenzialmente unito come capitale e lavoro, mercato e socialità, Stato e società, nazione e corpi intermedi, persona e comunità.

Il pensiero dicotomico, l’«aut-aut», oppone Giustizia e Pace.

La Chiesa, invece, rivendica in Cristo il Sacerdozio Universale al modo di Melchisedek, che era Re di Shalem (cioè della Pace) e Sacerdote dell’Altissimo. Sacerdozio, ci ricorda la paolina Lettera agli Ebrei, superiore a quello levitico che è stato abolito. Per San Paolo, poi, Melchisedek era anche Re di Giustizia.

In Cristo, dunque, si è realizzato quanto prefigurato in Melchisedek: «Misericordia e Verità s’incontreranno, Giustizia e Pace si baceranno» (Salmo 84).

Non osi separare, l’uomo, ciò che Dio ha unito.
                             
Luigi Copertino



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