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Assassinio Aldo Moro: la verità finalmente, o quasi
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"HO MANIPOLATO LE BRIGATE ROSSE PER FAR UCCIDERE ALDO MORO"


«Ho mantenuto il silenzio fino ad oggi. Ho atteso trent’anni per rivelare questa storia. Spero sia utile. Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati d’accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate Rosse per farlo uccidere. Le Br si erano spinte troppo in là». Chi parla è Steve Pieczenick. Un uomo misterioso, che volò in Italia nei giorni del sequestro Moro, inviato dall’amministrazione americana ad «aiutare» gli italiani. Pieczenick non ha mai parlato di quello che fece in quei giorni. Dice addirittura di essersi impegnato con il governo italiano di allora a non divulgare mai i segreti di cui è stato a conoscenza. Ed è un fatto che né la magistratura, né le varie commissioni parlamentari sono mai riuscite a interrogarlo. Finalmente però l’uomo del silenzio ha parlato con un giornalista, il francese Emmanuel Amara, che ha scritto un libro («Abbiamo ucciso Aldo Moro», Cooper edizioni) sul caso.

Le rivelazioni sono sconvolgenti. Pieczenick, che è uno psichiatra e un esperto di antiterrorismo, avrebbe avuto un ruolo ben più fondamentale in quei giorni. E che ruolo. «Ho manipolato le Br», dice. E l’effetto finale di questa manipolazione fu l’omicidio di Moro.

Il «negoziatore» Pieczenick arriva a Roma nel marzo 1978 su mandato dell’amministrazione Carter per dare una mano a Francesco Cossiga. E’ convinto che l’obiettivo sia quello di salvare la vita allo statista. Ben presto si rende conto che la situazione è molto diversa da quanto si pensi a Washington e che l’Italia è un paese in bilico, a un passo dalla crisi di nervi e dalla destabilizzazione finale.

Da come maltratta l’ambasciatore e il capostazione della Cia si capisce che Pieczenick è molto più di un consulente. E’ un proconsole inviato alla periferia dell’impero. «Il capo della sezione locale della Cia non aveva nessuna informazione supplementare da fornirmi: nessun dossier, nessuno studio o indagine delle Br... Era incredibile, l’agenzia si era completamente addormentata. Il colmo era il nostro ambasciatore a Roma, Richard Gardner. Non era una diplomatico di razza, doveva la sua nomina ad appoggi politici». Cossiga è molto franco con lui. «Mi fornì un quadro terribile dalla situazione. Temeva che lo Stato venisse completamente destabilizzato. Mi resi conto che il paese stava per andare alla deriva».

Nella sua stanza all’hotel Excelsior, e in una saletta del ministero dell’Interno, Pieczenick comincia lo studio dell’avversario. Scopre che invece sono i terroristi a studiare lui. «Secondo le fonti di polizia dell’epoca, ventiquattr’ore dopo il mio arrivo mi avevano già inserito nella lista degli obiettivi da colpire. Fu allora che capii qual era la forza delle Brigate Rosse. Avevano degli alleati all’interno della macchina dello Stato».

Una sgradevole verità gli viene spiegata in Vaticano. «Alcuni figli di alti funzionari politici italiani erano in realtà simpatizzanti delle Brigate Rosse o almeno gravitavano nell’area dell’estrema sinistra rivoluzionaria. Evidentemente era in questo modo che le Br ottenevano informazioni importanti». Così gli danno una pistola. «Ogni volta che uscivo in strada stringevo più che mai la Beretta che avevo in tasca».

Comincia una drammatica partita a scacchi. «Il mio primo obiettivo era guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo possibile, il tempo necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza, calmare i militari, imporre la fermezza a una classe politica inquieta e ridare un po' di fiducia all’economia».

Ma la strategia di Pieczenick diventa presto qualcosa di più. E’ il tentativo di portare per mano i brigatisti all’esito che vuole lui. «Lasciavo che credessero che un’apertura era possibile e alimentavo in loro la speranza, sempre più forte, che lo Stato, pur mantenendo una posizione di apparente fermezza, avrebbe comunque negoziato».

Alla quarta settimana di sequestro, però, quando comincia l’ondata delle lettere di Moro più accorate, tutto cambia. Una brusca gelata. Il 18 aprile, viene diramato il falso comunicato del lago della Duchessa. Secondo Pieczenick è un tranello elaborato dai servizi segreti italiani. «Non ho partecipato direttamente alla messa in atto di questa operazione che avevamo deciso nel comitato di crisi». Il falso comunicato serve a preparare l’opinione pubblica al peggio. Ma serve soprattutto a choccare i brigatisti. Una mossa che mette nel conto l’omicidio di Moro. E dice Pieczenick: il governo italiano sapeva che cosa stava innescando.


Fu un’iniziativa brutale, certo, una decisione cinica, un colpo a sangue freddo: un uomo doveva essere freddamente sacrificato per la sopravvivenza di uno Stato. Ma in questo genere di situazioni bisogna essere razionali e saper valutare in termini di profitti e perdite». Le Br di Moretti, stordite, infuriate, deluse, uccidono l’ostaggio. E questo è il freddo commento di Pieczenick: «L’uccisione di Moro ha impedito che l’economia crollasse; se fosse stato ucciso prima, la situazione sarebbe stata catastrofica. La ragion di Stato ha prevalso totalmente sulla vita dell’ostaggio».

Francesco Grignetti


2 - COSSIGA: “HO UCCISO MORO. ESPIO QUANDO LA FAMIGLIA MI DA DELL’ASSASSINO”

Presidente Cossiga, Steve Pieczenick nella sua lunga «confessione» coinvolge direttamente lei che all’epoca era ministro dell’Interno. Dice: «Abbiamo dovuto strumentalizzare le Br che uccisero Moro... Cossiga mi disse che lo Stato rischiava la destabilizzazione». E’ vero?
«Quando si decise per la linea della fermezza, che ebbe i suoi più fermi sostenitori in Berlinguer e l'intero Pci, in Pertini, in Andreotti e in me, eravamo tutti consapevoli che ciò avrebbe portato all’uccisione di Aldo Moro, a meno di possibili ma improbabili colpi di fortuna».

Pieczenick dice anche che le trattative erano solo un modo per prendere tempo e consentire a lei di riprendere il controllo dei servizi segreti.
«Lo Stato, se avessimo trattato, sarebbe stato, per usare le parole di Enrico Berlinguer, allo sbando. E' vero che erano allo sbando le forze di polizia, di cui la sinistra aveva chiesto, fino al giorno del sequestro Moro, il disarmo. I servizi segreti del ministero dell’Interno erano scompaginati per una dura offensiva del Pci e del Psi, e quelli militari erano vittime dell’abilissima azione di disinformazione del Kgb che riuscì a intossicare con il “Piano Solo” la stampa italiana e la sinistra».

Aggiunge Pieczenick: «Lasciavo che le Br credessero che un’apertura era possibile e alimentavo in loro la speranza che lo Stato, pur mantenendo un’apparente fermezza, avrebbe comunque negoziato».
E’ vero?
«Quello era il consiglio del vice-capo dell'unità antiterrorismo del Dipartimento di Stato, ma io gli spiegai che se avessimo finto di trattare, tutta l'Italia avrebbe creduto che trattassimo sul serio… Un giorno Enrico Berlinguer e Ugo Pecchioli vennero a protestare, dicendo: "Così non si può continuare", perché il governo aveva dato via libera alla segreteria della Dc nel cercare di far intervenire Amnesty International e la Croce Rossa Internazionale, che però posero una condizione: il governo doveva riconoscere alle Br lo status di "combattenti". D'altronde, quando fu reso pubblico il primo messaggio di Moro che chiedeva la trattativa, Ugo Pecchioli, a nome del Pci, venne a dirmi che Aldo Moro, fosse ucciso o liberato, "era già politicamente morto"».

Veniamo al giallo del comunicato Br che annunciò la presenza del corpo di Moro nel Lago della Duchessa. Pieczenick dice che fu un falso dei servizi.
«Una fesseria! La Procura della Repubblica di Roma, la polizia e i carabinieri attestarono unanimemente che il comunicato era autentico».

Condivide l’analisi dell’esperto americano quando dice che «l’uccisione di Moro ha impedito il crollo dello Stato», e che «la ragion di Stato ha prevalso sulla vita dell’ostaggio»?
«E' una diagnosi crudele ma esatta: tutte le istituzioni democratiche sarebbero state forse colpite a morte».

Presidente, lei è uno dei protagonisti di una delle pagine più buie della nostra storia. Racconterà mai il caso Moro?
«Ho tenuto un diario giornaliero di quella vicenda, chissà che non lo pubblichi. Ma non vorrei creare imbarazzi a ex-fautori della linea della fermezza come Beppe Pisanu e Piero Fassino. Io sono rimasto con la stessa idea e con gli stessi incubi: ho ucciso Aldo Moro, l'uomo che mi gratificò della sua fiducia e a cui debbo la mia immeritata vertiginosa carriera. Ma credo di espiare ricevendo periodicamente dalla famiglia Moro l'epiteto di assassino».


Fulvio Milone


Fonte > 
La Stampa



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