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Resistiamo all’incultura, per favore
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Diversi lettori sono stati urtati da certe parole che ho usato a proposito di Carlà: squinzia, putaine, eccetera. Uno, buon samaritano, mi manda due righe per riportarmi sulla buona strada: «Première putaine de la République -  Direttore, non scriva certe cose, lei non ne ha bisogno».

Osservazioni del genere mi sconfortano; non gliene faccio una colpa caro lettore, non è colpa sua ma - per una volta è il caso di dirlo - «è colpa della società», della scuola, dei sistemi educativi più o meno abusivi che la sostituiscono, e che ci portano alla barbarie di ritorno.

La frase che le è spiaciuta, caro lettore, è una citazione implicita. Anni fa uscì in Francia un libro di memorie, scritto se ben ricordo dall’amante del presidente Mitterrand, che aveva per titolo «La putaine de la république». Essa stessa, la signora, si definiva così, in modo sardonico: e anche la sua era una citazione implicita, un ricollegarsi consapevole a grandiose favorite del passato monarchico francese, madame de Pompadour, Madame Du Barry, che i pettegoli di corte, quando il re non sentiva, chiamavano «la putaine du roi».

E’ un esempio tipico di come una frase, che sembra volgare a chi è alquanto sprovveduto di cultura generale, invece rivela per trasparenza una «profondità» storica e ironica a chi ha cultura.

Il lettore può obiettare: ho tutto il diritto di non sapere che in Francia anni fa è stato pubblicato un libro, e quindi prendere le sue parole per il loro «valore facciale», che è volgare. Ammettiamolo per il momento (le obietterò dopo sul diritto a non sapere). Ma allora, il lettore deve mandare una mail a Dante Alighieri, che parla di «Taide, la gran puttana», parla di «unghie merdose» e usa termini come «del cul facea trombetta».

Dante, non scriva certe cose, lei non ne ha bisogno.

Non è che io mi voglia paragonare a Dante, Dio ne scampi. Quel che voglio dire è che il linguaggio è - fra le altre cose - una «tavolozza»  di colori espressivi. Come il pittore usa tutti i colori per esprimere quel che vuol dire, così anche chi scrive. E più chi scrive ha cultura generale, più ampia è la sua tavolozza, perchè gli consente di esprimere sfumature diverse di sentimenti; e persino di sotto-sfumature di quel che vuol comunicare.

Esempio: il popolino capisce di solito solo il «comico»; ma Dante intende adottare il «comico sarcastico», il «comico-invettiva». Per questo usa parole «basse», che il popolino del suo tempo relegava alle farse. E’ notevole vedere che, in quanto uomo del Medio Evo italiano, Dante non esprime mai lo «umoristico»; è questo un registro espressivo che appartiene ad un’altra epoca e ad altri popoli; i grandi scrittori inglesi contemporanei ne sono i maestri, e noi possiamo solo impararlo, faticosamente, senza avvicinarci alla loro maestria nativa. E’ un colore di più nella tavolozza della loro lingua e del loro carattere.

Ora, chi obietta a certe parole - che chi scrive usa consapevolmente, mica gli sono uscite in modo incontrollato dalla penna - è come quella borghesia di due secoli fa che che trovava «volgari» i colori di Gauguin; oppure come se per legge si ordinasse di dipingere il cielo solo con l’azzurro. Il cielo è azzurro «per convenzione». Limitare il linguaggio solo alle parole «ammesse» (ammesse nella buona società) porta a pensare in modo convenzionale. Chi dipinge, come chi scrive, è tanto più utile quando spezza le convenzioni; e lo fa per «necessità», ossia  per rendere l’espressione completa e concreta, plastica, di ciò che vuol dire. Dante, il sommo, riesce ad essere scultoreo; a un giornalista sia consentito almeno di essere «colorito».

Nel caso di Carlà, la necessità espressiva era di spogliare la madame dal politicamente corretto in cui l’aveva avvolta il leccatore Fazio, e i media in generale. Ciò che sconforta è vedere che i lettori di un gruppo selezionato, come è questo sito (già il fatto che leggano cose complesse è una prova della loro selezione) non capiscano. Fa cascare le braccia; o, mi sia consentito il registro coloristico, le palle.

E questo non è il caso più grave. Un altro lettore mi scrive:

«Egregio Direttore,
la seguo ormai da tempo in quanto la trovo illuminato ed illuminante. In special modo per  le notizie sull’economia. Non sono sempre d’accordo, ed a volte come nel caso della sua provocatoria proposta circa il padre di Eluana, rimango disorientato da tanta durezza. Credo infatti che egli intenda tracciare una strada piuttosto che risolversi un problema personale, e quindi trovo riduttivo e semplicistico il rimedio che lei propone di spararle personalmente. Da padre poi lo trovo anche triste. Rimango altrettanto stupito quando vedo Lei, a cui riconosco una formazione culturale superiore alla mia, ed altre persone evidentemente preparate ed intelligenti, parlare con enfasi di Gesù e della religione cristiana, singolarmente coincidente con il culto Mitraico antecedente di secoli. Questo perchè da sempre penso che la religione altro non sia che lo stratagemma migliore che un uomo potesse inventare per darsi delle regole, e soprattutto per contrastare un eventuale potere terreno del tiranno di turno. Idea talmente geniale da arrivare non solo a contrastare, ma addirittura a prevalere su qualsiasi potere temporale. Come tutte le idee geniali credo possa essere stata copiata e tradotta di volta in volta a seconda di circostanze ed esigenze e fino a prendere forme diverse ed in contrasto fra loro proprio per poter esercitare una volta in più prevaricazione e consenso alla ricerca del potere assoluto. Credo che Dio sia all’interno di ognuno di noi a completamento delle nostre paure ed aspettative ed a giustificazione di nostri atteggiamenti, possibile strumento alla chiusura di un cerchio che di volta in volta cerchiamo di chiudere. Ma che rimanga sempre e solo una specie di droga che ci permetta di superare il quotidiano. In questo senso arrivo addirittura a trovarmi d’accordo con il barbuto Marx quando sostiene essere la religione l’oppio dei popoli. Preferisco tuttavia definirmi agnostico invece che ateo, proprio per un dovuto atto di umiltà nei confronti di me stesso e della Società e per riservarmi la possibilità di eventualmente trovare quella che viene definita Fede nel cammino che ogni giorno percorro. Questa una mia opinione personale per quello che può valere
».

Qui, lo sconforto è tale che non si sa da dove cominciare.

Cominciamo dal «papà di Eluana»: il lettore trova «duro» e «triste» che abbia proposto  che il papà, alla sua cara Eluana, spari in testa lui, direttamente. Che dire? Jonathan Swift, l’autore dei «Viaggi di Gulliver», scrisse anche un opuscolo - intitolato «Modesta proposta per prevenire» - in cui, durante una delle tremende carestie che il liberismo creava periodicamente in Irlanda, suggeriva alle autorità britanniche un modo semplice per risolvere il problema: l’uso alimentare dai neonati irlandesi. Jonathan Swift proponeva di arrostirli e servirli fumanti.

Nemmeno i più ottusi baronetti presero alla lettera il consiglio. Nessuno credette che effettivamente Swift istigasse a cucinare i bambini. Ovviamente, egli satireggiava l’ipocrita egoismo britannico, che moralisticamente si auto-giustificava del mancato soccorso asserendo che la fame d’Irlanda era dovuta al «libero mercato» che rincarava le patate, e magari alla «scarsa produttività del lavoro» degli irlandesi.

Ora, è sconfortante che in Italia, oggi, si debba chiarire che il mio invito al papà di sparare ad Eluana era detto per paradosso e satira. Sconfortante ed anche allarmante: perchè se la comprensione delle parole nel loro senso puramente letterale diventasse il modo consueto della magistratura (pericolo più vicino di quanto si creda) sarei incriminato per istigazione all’omicidio. Con grave danno alla libertà di stampa, e grande godimento di quanti vogliono sopprimere la libera critica, il cui numero sta diventando legione.

Il caso è tanto più sconfortante in quanto il lettore non è un barbaro, usa il linguaggio in modo articolato. Capisce che il papà di Eluana «intende tracciare una strada». E’ appunto questo che qui gli opponiamo: non è un «papà», ma un militante attivista ideologico, che con la pretesa di interpretare le volontà della figlia (volontà a cui dobbiamo credere perchè lo dice lui) agitando il caso pietoso estremo, intende aprire la strada all’eutanasia di Stato, gestita dal sistema sanitario nazionale. Noi qui, nel nostro piccolo, siamo contro questa strada, perchè sappiamo a cosa porta: alla soppressione generalizzata delle bocche inutili, all’eugenetica di cui tanto rimproveriamo il nazismo. Questo è il nazismo del nostro tempo apparentemente anti-nazista; è nazismo banalizzato, ossia con l’aggravante di essere  borghesemente «accettabile», tanto più intollerabile in quanto si ammanta di ipocrisia e di «pietà». Sappiamo per esperienza che cosa porta, perchè già abbiamo visto questa «strada» con la legalizzazione dell’aborto, promossa esibendo casi pietosi estremi, e che ha portato all’eliminazione banale di 5 milioni di italiani (5 milioni di impareggiabili destini, non solo futuri lavoratori ma creatori che ci siamo fatti mancare come nazione, altrettanti colori della tavolozza della vita che abbiamo voluto sopprimere); di più, l’aborto come «diritto» ha portato a quella cultura dell’aborto e della morte, che rende ora accettabile alle masse anche l’eutanasia degli sfavoriti. L’eutanasia come diritto.

La nostra proposta di sparare ad Eluana era solo una critica satirica. C’è bisogno di dirlo? C’è, evidentemente. Che tristezza però. Che barbarie di ritorno, se le parole vengono intese solo nel loro senso letterale, se sfugge il loro «colore» metaforico, ironico, espressivo, e la loro profondità storica e letteraria. Questo è tipico dei neo-selvaggi odierni, che sgretolano la  civiltà.
Lo mostra anche la sicurezza con cui il lettore si stupisce che qui si parli «con enfasi di Gesù e della religione cristiana, singolarmente coincidente con il culto Mitraico antecedente di secoli», e ne fa seguire la sua opinione sulla religione come mezzo di tenuta dell’ordine pubblico, oppio dei popoli e strumento di dominio e di potere. E’ la sua opinione personale, conclude (1).

Ebbene, bisogna pur dirlo con la più recisa chiarezza: è un’opinione che il lettore non ha il diritto di avere. Perchè non ne ha il diritto? Anzitutto perchè non è personale nè originale, essendo un cascame dello «spirito dei tempi». E poi perchè con essa sfiora argomenti complessi, già trattati e affrontati e dibattuti - e in parte chiusi - ai più alti livelli storici e scientifici,  di cui egli non ha la minima nozione. Già lo rivela con il semplicismo con cui asserisce che il cristianesimo «coincide col mitraismo», assumendo di sapere cosa fu il Mitraismo - quando archeologi e studiosi  che a Mitra hanno dedicato la vita, ammettono di non riuscire a saperne molto, e sono aperti a conclusioni, ipotesi e interpretazioni che stupirebbero il lettore se le conoscesse; quelli, gli studiosi, sanno che al mosaico della conoscenza mancano tessere essenziali, appunto perchè sanno che, data la natura misterica e iniziatica di questa religione, non abbiamo documenti e monumenti che ci permettano di darne una interpretazione definitiva. Ora arriva un lettore e, bel bello, ci dice che il problema è risolto: che «i cristiani hanno copiato il mitraismo»; che altro è, se no, la democrazia? Il diritto alle opinioni.

Invece no. Su Mitra, come su Gesù e come anche sulla chimica o sulla musica, sulla pittura, sulla fisica e sulla scienza dei computer - insomma su quasi tutto quel che compone la civiltà - per poter avere un’opinione legittima, bisogna aver studiato «i precedenti». Quel che gli uomini ne hanno scoperto e discusso in passato, rettificando via via e precisando la conoscenza di ogni tema.

Strano, nessuno presume di avere un’opinione legittima  sulla chimica senza aver studiato la tavola di Mendelejeff, ossia del genio russo che un paio di secoli fa ordinò gli elementi in base al loro peso atomico; ma quasi tutti pensano di poter dire la loro sulla presunta somiglianza fra Mitra e Cristo, senza mai avere nemmeno visitato un mitreo (quel luogo sotterraneo destinato ad accogliere poche persone) e averlo confrontato con una chiesa cristiana, fatta per accoglierne migliaia - il che già dovrebbe suggerire qualche riflessione.

Questo è esattamente l’atteggiamento vitale del selvaggio: credere che il mondo è nato con lui, che è tutto appiattito nel «presente così come lo vede». Invece il mondo - specialmente il mondo dell’uomo, ossia della cultura - non è nato oggi. Il presente non è altro che la sezione di un lungo corpo che si estende per secoli, e che si chiama «storia dell’uomo». Il presente è risultato di istituzioni, pensieri e problemi e soluzioni discussi, trovati e via via precisati in questo immenso corpo del passato, un passato che per gli europei è lungo tre millenni.

Il neo-selvaggio  ritiene che il passato - questo immane corpo della cultura umana - conti nulla, che sia «superato» e se ne possa fare a meno; che si possa impunemente «cominciare qui» dalla sua vita personale, come gli appare presente qui e ora.

Non è colpa sua individuale; il neo-selvaggio è stato fatto così dalla «società contemporanea», che gli ha instillato quelle convenzioni, conformismi e luoghi comuni - «idee ricevute», come dicono i francesi - che egli scambia per proprie opinioni originali.

Ignora persino che questa «società contemporanea» di cui è il mero prodotto impersonale, è essa stessa una costruzione storica, il prodotto di  un passato abbastanza recente in cui si è voluto rompere con la «tradizione», ossia con la trasmissione del sapere e delle conquiste delle passate generazioni; l’epoca delle «rivoluzioni», che consistevano appunto nella trasgressione - intesa come «liberazione» da ogni peso imposto dalla morale (che è un derivato della religione) e dalla storia, in definitiva dalla cultura.

L’epoca delle «rivoluzioni» fu almeno un’epoca grandiosa, in cui gli individui erano animati dalla sensazione di conquistare terre completamente nuove dell’autonomia umana, di poter fondare una umanità assolutamente giovane e fresca. I militanti delle rivoluzioni avevano grandiosi progetti (questo erano le ideologie) che esigevano dai militanti almeno un fosco coraggio, audacia, spirito di sacrificio.

Il nostro presente, questa sottile sezione della storia, è la banalizzazione di quelle lotte contro ogni tradizione, ossia trasmissione della cultura. Oggi la trasgressione non richiede alcun coraggio, è un dato acquisito e garantito, approvato dal sistema pubblicitario-mediatico e politico (la cosiddetta «società dello spettacolo»).

La rottura con la tradizione è un dato di fatto ormai completato; non richiede più «avanguardie» audaci, perchè esso è il sentire della massa. Le idee che furono più dirompenti, prima proclamate da minoranze d’avanguardia, sono diventati «luoghi comuni» e conformismi. Come quelli che lei espone, caro lettore, quali sue «opinioni personali».

E il risultato è sgomentante, tanto è miserevole. Mai l’Europa è stata così sterile, priva di creatività in arte, scienza e filosofia, quanto oggi. Mai così volgare e approssimativa nel pensare - gloria europea, il pensare «critico» dei luoghi comuni, che comincia con Socrate (2). Mai, noi eredi di quelli che ci vollero «liberare» da ogni legame, a cominciare da Dio («religio» da «legare») siamo più servi e soggetti a forze brute (l’economia, il capitale) e a gruppi d’interesse e di potere che ci tirano i fili come burattini, manipolando i nostri stati d’animo collettivi. Mai siamo stati tanto inerti, e nello stesso tempo tanto insubordinati, insocievoli, ermeticamente chiusi ad ogni argomento.

Qui in Italia, viviamo in casette abusive che abbiamo costruito, orrende, sugli archi e le colonne del nostro grande passato: la nostra natura di profughi e baraccati della storia è persino visivamente evidente (3). E sa perchè? Perchè ci siamo confinati - dapprima volontariamente, oggi per inerzia - nella sottile fetta del «presente assoluto». Per questo il nostro linguaggio è «piatto»; la maggior parte di noi conosce pochissime parole, e di queste solo il significato «presente» ossia corrente, dunque è privo della ricca tavolozza espressiva che avevano ancora i nostri nonni, persino contadini.

Con un linguaggio così appiattito, non solo non può nascere un Dante, ma nemmeno un giornalista capace di pensiero «critico»; e se c’è ancora qualcuno che si vuol prendere la briga di criticare i luoghi comuni, incontra lettori che non riescono a capire, proprio per la piatta dotazione di parole e di luoghi comuni di cui sono forniti. Per di più, ermeticamente sicuri del loro «diritto» a dire quel che vogliono e a fare quel che vogliono - ignari che «vogliono» quel limitato repertorio di atti e fatti che offre loro il conformismo totalitario. Il totalitarismo senza duci visibili del «presente assoluto». Il fatto disperante è che, fra poco, i temi e le informazioni che proviamo a dare in questo sito saranno incomprensibili per la nuova generazione, perchè forzatamente scriviamo in una lingua troppo complicata per chi «comunica» con gli SMS e le loro sigle. L’estremo limite della piattezza porta alla ottusità più totale, e invincibile.

E guardate che quando si parla di «cultura» e di linguaggio, non si tratta di temi teorici o retorici, da Accademia della Crusca. L’appiattimento sul presente ha effetti sociali gravissimi, e molto concreti. I giovanotti che stuprano, e quegli altri giovanotti che dopo uno stupro vanno a picchiare qualche immigrato a caso, e quelli che incendiano un poveraccio che dorme su una panchina, sono i prodotti sub-umani dell’appiattimento nel presente assoluto.

Lei, caro lettore, è ancora i grado di citare Marx, di ripetere vedute sulla religione che risalgono più o meno a Voltaire. Lei vive ancora in una fetta del presente alquanto spessa, che comprende un passato storico ancorchè recente. Quei giovani che bruciano il barbone - e presto bruceranno anche noi, appena diverremo - vivono nell’assoluto «qui e ora». Obbediscono in modo immediato ai loro impulsi primari, fanno «quel che gli gira» nel momento: sono diventati, in una parola, delle bestie.  Per questi, il mondo è nato con loro; ossia consiste nel loro immediato «locale», nel loro breve entourage di persone e abitazioni abusive, bar e luoghi comuni condivisi dal loro gruppo; entro cui la comparsa di persone di lingua diversa, di diverso colore della pelle, e persino di una diversa tifoseria, è catalogata nel modo più semplice: è «l’estraneo da eliminare» o da angariare.

Il razzismo fu almeno un’ideologia scientista, che si pretendeva «scientifica» e «biologica». Qui siamo al grado zero del razzismo: il razzismo delle belve, che distinguono «noi» dagli «altri»  dall’afrore, o dal colore delle penne. Questi non hanno la minima idea che, oltre al loro quartiere e al loro branco, esistono l’India o la Romania da cui viene l’immigrato che li urta; che esistono altre culture, altri passati, altre storie; che la vita umana è varia, problematica e complessa. La storia per loro è solo una, la «loro» di questo preciso momento; la lingua, le trecento parole e abbreviazioni dei loro telefonini, con significato univoco - ossia corrente, conformista - e prive di ogni profondità metaforica e culturale. E la loro baluginante coscienza è completamente irragiungibile, perchè non hanno nemmeno le parole per distinguere il bene dal male, e sono opachi a se stessi; e in compenso, hanno il luogo comune che li invita alla «trasgressione» perenne, ad abbattere gli ultimi «tabù»: in un mondo senza più tabù, quali trasgressioni volete che restino loro disponibili? Bruttare i muri, pestare i negri, bruciare i barboni, scippare le pensionate...

Qui si vede nei fatti come il «progressismo» sia stato incapace di trasmettere il progresso - ciò che ha fatto per tre millenni la «tradizione», ossia la «consegna» del passato ai giovani. La «rivoluzione» ha voluto rompere con il passato, «liberarci» dai suoi pesi, ed ecco il risultato: il neo-selvaggio, l’uomo belva post-moderno.

Perchè è da selvaggi vivere nel mondo come se fosse solo il presente momentaneo, come fosse la foresta vergine, senza passato. E’ da neo-selvaggio vivere nella cultura come fosse «natura», e senza obblighi e impegni di conservarla, migliorarla, mantenerla  per il futuro. Per questi non c’è futuro, proprio perchè non esiste il passato. E ovviamente la loro vita è una noia insopportabile per loro stessi, in quanto è povera, inespressiva per mancanza di linguaggio, e orribilmente appiattita; una noia spasmodica, che essi combattono invano con la birra, la coca, le risse e gli stupri per «passare il tempo». Questi stanno sgretolando la civiltà, e portando l’Europa a un’epoca buia come mai ce ne furono. Questi sono i veri extracomunitari, e sono nostri figli.

A tutto questo cerchiamo di resistere qui, nel nostro piccolo. Ed è già un’impresa alquanto disperata, valida forse solo per piccole minoranze, forse solo a futura memoria. Abbiamo lettori che capiscono e collaborano a questa opera di marginale «manutenzione della civiltà», contro le immense correnti dei luoghi comuni. Altri - speriamo siano pochi - ci sconfortano  con certe osservazioni, rivelandoci come sono inutili i nostri sforzi.

Resistete, lettori, almeno voi.




1) A qualunque disputa o obiezione sul cristianesimo, alla Odifreddi o alla Voltaire, si può rispondere solo questo: la prova della verità di Cristo non sta nel pensiero e men che meno nella disputa, ma nell’azione. Il detto di Gesù: «Date e vi sarà dato, una misura colma e ben pigiata vi sarà messa nel grembo» è verità, provate, e vedrete. Questo carattere di azione è ciò che fa del cristianesimo il più vicino - nonostante certe apparenze - alla religione romana prisca: la quale non aveva teologia, ma era tutta e solo «azione».  «Do ut des» era il rapporto fra il romano e la divinità (numina); io dò me stesso, e solo così Tu mi darai ciò che chiedo ed è impossibile ottenere con le mie sole forze. Ovviamente, anche il rito era inteso, e va inteso nel cattolicesimo, come «azione»: Sacrificium, sacrum «facere», e precisamente sacrificio di Cristo, e sacrificio di sè.
2) Così si può dire che l’uomo europeo ha l’obbligo di essere colto, perchè l’Europa è essenzialmente cultura, e a cominciare da Socrate, cultura «critica» (dei luoghi comuni accettati senza pensare) e cultura storica: infatti non nasciamo socratici, dobbiamo imparare ad essere greci, poi romani, poi rinascimentali... Qualche lettore può disperare: come faccio ad essere colto, adesso che non sono più a scuola (e che scuola)? Non c’è troppo da imparare? Un patrimonio enorme e ormai irraggiungibile? Se interessa a qualcuno, in un prossimo pezzo posso dire qualcosa di come si «imparava» in Europa, essenzialmente e piacevolmente in modo «orale» e «visivo».
3) Uno dei motivi per cui sono venuto a vivere nel viterbese, è la sanità dell’antica architettura ancora visibile e non troppo sfregiata dall’abusivismo. Qui si vedono paesini ancora cintati di mura medievali, dominati da una fortezza guerriera trasformata, in secoli più gentili, in villa rinascimentale; qui, si riconosce in ogni paesino il fondamento megalitico etrusco, a cui le generazioni hanno sovrapposto potenti contrafforti di Roma, e poi ancora merli e archi romanico-gotici. Qui, sussistono i casali dell’architettura popolare; di quando i contadini  erano poveri e analfabeti, ma sapevano costruirsi case di sobria dignità e severamente espressive; ora che sono ricchi, si fanno case orrende e miserevoli, solette di cemento e patios estranei al paesaggio («extracomunitari»)  che non sanno nè intendono sfidare i secoli. E fanno male perfino alla salute, se non ci si è corazzati nell’ottusità estetica: l’architettura contemporanea è probabilmente il fattore più cancerogeno che esista. Gli antichi contadini costruivano così perchè avevano nella carne la potente espressività architettonica di Roma, dei fregi e degli archi dei maestri bergognoni chiamati qui dai Papi, dell’eleganza e degli aggetti delle ville umanistiche, le proporzioni di Michelangelo, la sapienza di una società «organica». Voglio morire fra queste vecchie pietre corrose, su cui generazioni hanno costruito senza cancellare il passato; le nostre «radici», nel senso più proprio, non biologico, ma culturale.


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