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Tra noi e loro la pietra angolare, non il negazionismo (Parte seconda)
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La corretta esegesi della «Nostra aetate»

Domande e parole sacrosante queste del nostro carissimo amico. Maurizio Crippa, cui si riferiva quel nostro amico, è un noto «cristianista». Non a caso, con il suo articolo, si è fatto promotore dell’ambigua esegesi del cardinal Kasper, a sua volta molto «talmudico nelle sue esternazioni» (10).

L’articolo del Crippa, che cita «Nostra Aetate», fa eco alle dichiarazioni del Gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim a Le Monde: «Come il Papa poteva ignorare il negazionismo di monsignor Williamson? Se la revoca della scomunica  è un invito alla riconciliazione, come riconciliarsi con chi si è escluso dalla cristianità con le sue dichiarazioni? Come dialogare con quest’altro che vede nella negazione della Shoah una opinione personale, e cosa succederà se i quattro vescovi non più scomunicati continueranno a rifiutare il Vaticano II e Nostra Aetate, la dichiarazione adottata nel 1965 dal Concilio Vaticano II che afferma il legame storico tra il giudaismo e il cristianesimo?».

Qui l’urgenza di attuare, per davvero ed al più presto, con inequivocabili documenti esegetici del Magistero, l’ermeneutica della continuità si palesa assolutamente necessaria nel modo più evidente. Infatti sia Kasper che il Gran Rabbino francese forzano il senso, vero ed autentico, di «Nostra Aetate» se letto alla Luce della Tradizione. Perché, sarebbe ora di ricordarlo apertamente urbi et orbi, anche a molti lefreviani, il fondamento primo e tradizionalmente autentico della dichiarazione sui rapporti ebraico-cristiani, contenuta in detto documento conciliare, influenzato quanto si vuole da ambienti giudaici ma, una volta approvato, pur sempre da leggere in continuità con il precedente Magistero, è innanzitutto quanto affermò Pio XI mentre infuriava la persecuzione nazista: «Noi cristiani siamo spiritualmente semiti». Se, dunque, questa è la vera base storica, teologica e magisteriale di «Nostra Aetate», dove si nasconde la radice del possibile equivoco esegetico, che poi nel post-Concilio è dilagato sull’onda del troppo gioioso ottimismo anni sessanta che ha impedito un dovuto ed immediato intervento finalizzato a chiarirne il significato ed a mettere i necessari, ed opportuni, invalicabili paletti? La «Nostra Aetate» con un linguaggio, bisogna riconoscerlo, non altrettanto chiaro di quello usato da Pio XI, afferma che i cristiani sono «spiritualmente uniti alla stirpe di Abramo». Il riferimento al concetto di «stirpe», benché debba essere inteso, come era nelle intenzioni dei Padri conciliari, in senso di «popolo teologico», che storicamente nasce intorno alla fede di un capostipite in un misterioso e trascendente Dio che si rivela per una promessa di salvezza universale, può però essere frainteso, ed in effetti è stato frainteso nel modo in cui l’opinione pubblica ecclesiale e non ecclesiale lo ha recepito, in senso «naturalistico» o, addirittura, «etnico-religioso». Nel senso in cui - guarda caso - il giudaismo post-biblico ha finito per storpiare il concetto teologale di «popolo eletto» preparando la via ai tragici esiti millenaristici e nazional-messianici del giudaismo stesso, prima, e, con la costituzione nel 1948 dello Stato di Israele, del sionismo, poi.

Alla «stirpe», dunque, non alla «fede» di Abramo, afferma, con linguaggio non inequivoco, «Nostra Aetate». Qui l’intervento esegetico del Papa, per evitare i fraintendimenti testé sopra accennati, è davvero urgente al fine di chiarire che il significato dell’espressione usata da «Nostra Aetate» deve essere inteso in continuità con il precedente magistero di Pio XI, e dunque in senso teologale con riferimento alla «Fede di Abramo», e non alla sua stirpe naturalisticamente intesa, e, pertanto, non nel senso che vorrebbe l’esegesi del cardinal Kasper e del Gran Rabbino di Francia che non distinguono tra il vero ebraismo veterotestamentario, la Fede di Abramo o di Israele, adempiutasi in Cristo ed il falso ebraismo rabbinico post-biblico o talmudico. E’ necessario riaffermare chiaramente la continuità tra vero ebraismo e cristianesimo ed, al contempo, la rottura tra il vero ebraismo ed il talmudismo. Questo è ciò che ha sempre insegnato la Chiesa per duemila anni, a partire da San Paolo, anzi da Nostro Signore in Persona. Solo così infatti si spiega la Sua polemica verso i sinedriti: «Guai a voi, dottori della Legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito» (Luca 11, 52; Matteo 23, 13); «Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: ‘Sulla cattedra di Mosé si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno» (Matteo 23, 1-2). Ed è questo che insegna, seppur con una terminologia che da adito ad equivoci, «Nostra Aetate» se rettamente intesa alla Luce della Tradizione. Come appunto ricorda, pur senza citare il documento conciliare, il Superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Riportiamo direttamente le sue dichiarazioni come rese note in questi giorni alla stampa:

«Fellay: ‘Spiritualmente, siamo ebrei’ - 2 febbrario 2009 - Dopo aver dato spazio ai protagonismi e alle dichiarazioni oggettivamente imbarazzanti di qualche membro della Fraternità Sacerdotale San Pio X, è giusto sottolineare l’importanza delle parole usate da monsignor Fellay nell’intervista a ‘Famille Chrétienne’. Ecco il brano più interessante: ‘Noi condanniamo fermamente ogni gesto assassino nei confronti di un innocente. E’ un crimine che grida vendetta verso il cielo! Soprattutto quando è rivolto a un intero popolo. Noi rigettiamo ogni accusa di antisemitismo. In maniera totale e assoluta. Rigettiamo qualunque forma di approvazione di ciò che è accaduto sotto Hitler. E’ un qualcosa di abominevole. Il Cristianesimo mette la carità al di sopra di tutto. San Paolo, parlando degli ebrei, proclama: ‘Desidero io stesso essere separato da Cristo a favore dei miei fratelli! (Romani 9,3). Gli ebrei sono i ‘nostri fratelli maggiori’, nel senso che abbiamo un qualcosa in comune, cioè l’Antica Alleanza. Certo che il riconoscimento della venuta del Messia ci separa’. ‘E’ molto interessante notare che la Chiesa non ha atteso il Concilio per stabilire una linea d’azione riguardo agli ebrei. Fin dagli anni ‘30, e anche durante la guerra, diversi documenti della Chiesa di Roma hanno stabilito una posizione assai giusta: gli abomini del regime hitleriano devono essere condannati!. Pio XI aveva detto ‘siamo spiritualmente tutti semiti’. E’ una verità che scaturisce direttamente dalle Sacre Scritture. Come afferma anche San Paolo, ‘siamo figli di Abramo’».

Un linguaggio più cristiano e più chiaro di questo, nel condannare l’antisemitismo e nel ricordare la radici ebraiche del Cristianesimo, non è possibile. Ma ai «fratelli maggiori» nulla va mai bene. Essi hanno visto in Ratzinger il pericolo del ritorno nella Chiesa di una teologia chiara nei riguardi dei rapporti ebraico-cristiani, una teologia che, superando certe dure posizioni del passato (questo lo si deve onestamente concedere: certa antica controversistica, anche teologica, era davvero immonda), non perda però di vista che tra noi e loro vi è la Divino-Umanità di Cristo che loro rifiutano.

E che tale questione è essenziale e di fronte ad essa non c’è dialogo che possa reggere. Del resto anche Giovanni XXIII diceva che «dobbiamo guardare più a quel che ci unisce che a quel che ci divide» ma subito aggiungeva, una aggiunta essenziale che - guarda caso - non è però mai ricordata, «salvo il dogma e la fede cattolica», ossia, nel caso dei «fratelli maggiori», proprio la Divino-Umanità Messianica di Gesù Cristo. Abituati da cinquant’anni a vedere sempre i cattolici giocare in difesa, gli ebrei sono ora terrorizzati dall’eventualità di un contropiede.

Se intenzione dei Padri Conciliari era quella di «addolcire» i toni con i quali, lungo i secoli, la controversistica cristiana, del resto ampiamente ripagata da quella giudaica, anzi preceduta da quest’ultima (le offese a Cristo e a Maria immediatamente coeve alla predicazione di Nostro Signore e poi codificate dal Talmud), si era relazionata con le comunità ebraiche, allo scopo non serviva porre dubbi sulla tradizionale «teologia della sostituzione» ma soltanto una capillare ed efficace opera pastorale, e pastorale appunto volle essere il Vaticano II, intesa a inculcare nei cristiani, salvo la pretesa del reciproco rispetto, una maggiore carità verso gli ebrei. Quella maggiore carità che praticata nel corso della storia da moltissimi Papi, Santi e Beati non sempre è stata praticata da tutto il popolo cristiano, anche se - sia detto con chiarezza e fermezza - non sempre a torto o senza giuste ragioni secondo le concrete circostanze dei tempi.

Una corretta lettura di «Nostra Aetate» alla Luce della Tradizione, secondo la prospettiva di continuità sopra suggerita, comporterebbero il semplice disvelamento di un mistero già in atto da tempo immemorabile nella storia della Chiesa ossia la costante e sempre più profonda presa di coscienza del fatto che, se è verissimo che l’Israele post-biblico è ramo reciso dall’Olivo del Vero Israele e che il sacerdozio levitico è stato abrogato dal superiore Sacerdozio al modo di Melchisedeq, che è il Sacerdozio di Cristo, è altrettanto vero che gli israeliti, come dice sempre San Paolo nella Lettera ai Romani esortando i cristiani di provenienza gentile a non insuperbirsi verso di essi, avendo conservato l’«elezione», di per sé irrevocabile, e le «alleanze», pur «recisi» non sono del tutto avulsi dall’Albero della Rivelazione, rimanendo un tenue filo che per una parte di essi, quella escatologica della fine del tempo, il cosiddetto «resto di Israele», significa possibilità sempre attuale di reinnestarsi nell’Olivo Santo. Quel tenue filo è ciò che ha condotto nei secoli moltissimi ebrei a riconoscere in Cristo Gesù il Messia atteso e già venuto ed è quello che, mentre adesso continua a tormentarlo, di qui la sua angoscia metafisica che spesso scoppia in aperta polemica verso il Cristianesimo,  riporterà alla fine del mondo l’Israele post-biblico totalmente e pienamente nell’alveo della Rivelazione, ossia alla Vera Fede di Abramo. In tal senso, come dice appunto anche «Nostra Aetate», gli ebrei non sono stati dimenticati da Dio, in virtù dei meriti dei loro Padri, che sono i nostri Padri nella Fede, né da Dio «maledetti» se per tali si intende respinti definitivamente.

La «maledizione», infatti, in senso biblico sta ad indicare soltanto il provvisorio allontanamento, sempre rimediabile, dalla Misericordia divina causato dalla cattiva disposizione dell’uomo verso Dio. In altri termini, Dio non ha rigettato definitivamente gli ebrei ma sono stati piuttosto questi ultimi a rigettare Dio rifiutando il Suo Cristo e ponendosi così da se stessi al di fuori della Rivelazione che con Gesù giungeva a compimento definitivo. Gli ebrei che hanno rifiutato Nostro Signore si sono recisi da soli dall’Olivo Santo. E questo evento, afferma San Paolo, è stato da Dio permesso sia a vantaggio dei gentili, che altrimenti non sarebbero potuti entrare nell’Alleanza di Abramo, sia, in ultima istanza, anche a vantaggio degli ebrei in modo da poter Egli, nella Sua Infinita Bontà, usare a tutti misericordia, ai gentili innestandoli in Cristo nel Disegno di Salvezza Universale ed agli ebrei facendoli cadere, per la loro superbia, e poi alla fine, quando pentiti riconosceranno Cristo, riammettendoli nell’Alleanza.

La necessità di un intervento chiarificatore da parte del Magistero è dimostrata anche dagli equivoci insorti durante il pontificato precedente quello attuale. Giovanni Paolo II, in più di un’occasione, sulla scorta di «Nostra Aetate» e di fronte ai rappresentanti delle comunità ebraiche, ha usato l’espressione «popolo dell’Alleanza non revocata». Bene, benissimo. Ma come si deve intendere una tale espressione? Nel senso che quello ebraico è il popolo un tempo eletto e dunque è il popolo dell’Alleanza, la prima, che non è revocata perché, come il contratto preliminare che viene assorbito da quello definitivo, è stata adempiuta definitivamente, e dunque in questo senso continuata e pertanto, appunto, «non revocata», dalla Nuova, la seconda, Alleanza in Cristo, sicché l’Israele post-biblico, come dice San Paolo, è al momento un «ramo reciso» dall’Alleanza in attesa, alla fine dei tempi, di esservi reinnestato? Oppure, invece, come vorrebbe un Kasper, tanto per citarlo ancora, quell’espressione significa che il popolo di Israele nell’Alleanza non revocata è ancora perfettamente inserito, sicché Essa, la Prima Alleanza, continuerebbe ad aver valore per i «fratelli maggiori» come loro esclusiva via di salvezza a-cristiana o a-cristica, e dunque, come taluni vorrebbero, in contrasto con «Dominus Iesus» e forzando il senso di una corretta esegesi di «Nostra Aetate» che sia in continuità con il Pio XI del «noi cristiani siamo spiritualmente semiti»,  che esistono due vie parallele di salvezza, una in Cristo per i gentili ed una esclusiva senza Cristo per gli ebrei (esattamente quel che ad ogni occasione proclama il rabbino Riccardo Di Segni che rimprovera il Papa di voler tornare - ma quando mai il Papa o la Chiesa si sono da essa veramente allontanati? - alla pretesa dell’Unicità Universale della Mediazione Salvifica di Cristo)?

 Abbiamo paura che molti cardinali e vescovi occhieggiano alla seconda interpretazione. Ed è a loro che si è rivolto, come abbiamo visto, Gad Lerner, gettando il guanto della sfida teologica, affinché forzino la mano ai Papi post-conciliari che finora non hanno osato dire l’indicibile in atti del Magistero. Non che da parte del giudaismo post-biblico questa sfida sia una novità. Ma appunto per questo da parte cristiana necessita la più assoluta chiarezza. Come dice Benedetto XVI: il dialogo non può vertere sulle fedi che sono assoluti ma solo sulle culture e sui valori universali che le accomunano. Ma se questo vale nei rapporti tra Cristianesimo e tutte le altre fedi e culture non si capisce perché mai, come vorrebbero alcuni, non debba valere egualmente anche verso il giudaismo post-biblico, per il quale ci dovrebbe essere una sorta di dialogo preferenziale o speciale (l’organo curiale deputato al dialogo con l’ebraismo è attualmente un ufficio del Dicastero per l’Unità dei cristiani, guidato - guarda caso - dal solito Kasper). Solo perché l’ebraismo è intrinseco al Cristianesimo? E chi lo nega! Non certo noi che ad ogni piè sospinto lo riaffermiamo e ricordiamo, proprio perché siamo ben consapevoli del rischio, altrettanto «eretico», del marcionismo. Ma è pur vero che l’attuale giudaismo non è la stessa cosa dell’ebraismo, quello autentico, dei tempi di Cristo e sul quale è fiorito, come suo adempimento, il Cristianesimo.

Questo, lo ripetiamo, è il grande equivoco, «ecumenico», nutrendo il quale la Chiesa si illude e prende continui schiaffi dai «fratelli maggiori». L’attuale prevalente teologia, come si è visto, insegna che il giudaismo post-biblico ed il Cristianesimo sono due varianti, altrettanto legittime, della medesima fede biblica. Questo insegnamento chiaramente si discosta da duemila anni di Tradizione apostolica alquanto diversa. Un insegnamento nuovo che, come dice Gad Lerner, è stato solo «sussurato» anche dai Papi post-conciliari ma limitandosi ad omelie non equivalenti a documenti ufficiali ed inderogabili del Magistero. Lerner ha lanciato proprio qui la sua sfida invitando le gerarchie a fare il passo definitivo di far assurgere il nuovo insegnamento al livello dell’inderogabile magistero. Il che sarebbe un cataclisma, anzi l’Apocalisse: crediamo che il Papa lo sappia bene. Ma molti, intorno a lui, è a ciò che auspica Lerner che aspirano. E, forse, riuscirebbero anche a tradurre i loro funesti auspici in tragica realtà se la Chiesa non fosse perennemente assistita dallo Spirito Santo che veglia su di Essa.

L’audacia dei «fratelli maggiori» si è tuttavia fatta sempre più sfrontata, perché questo è il loro momento. Questo è il giorno storico del Venerdì Santo di Passione, è il momento delle tenebre, cui seguirà immancabilmente l’alba radiosa della Pasqua di Resurrezione, nel Signore, della Sua Chiesa che tornerà ad essere Vera Luce delle genti, quando quella falsa delle mal riposte speranze messianiche dell’Israele post-biblico naufragheranno, probabilmente con il naufragio dei sogni millenaristici che governano l’attuale politica razzista dello Stato Sionista di Israele. Lerner, infatti, non fa altro che amplificare quanto, e non da ora, afferma il rabbinato ormai con toni sempre più autoritari e perentori, proprio facendo leva sull’equivoca lettura dei contenuti di «Nostra Aetate», una lettura di rottura con la Tradizione ampiamente fatta propria anche in ambito cattolico dai fautori dell’ecumenismo irenistico. La dimostrazione che tutto l’affare «Williamson», e quelli precedenti della «Dominus Iesus», del «Motu Proprio» e della preghiera «pro judaeis», nasconde ben altro che il mero, teologicamente inesistente, problema del «negazionismo», e che invece con lo sbarramento di fuoco a 360° contro il Papa «restauratore», che noi cattolici non siamo stati capaci di difendere adeguatamente (se certi ambienti tradizionalisti invece di gridar vittoria sul Concilio avessero serrato le fila a difesa del Pontefice, mettendo da parte, durante l’attacco mediatico, ogni altra residua questione, forse le cose avrebbero preso altra piega), si è voluto affossare proprio quell’ «ermeneutica della continuità» che, sancita da Benedetto XVI il 22 dicembre 2005, aveva gettato nel panico rabbini, novatori, sedevacantisti e laicisti di vario genere, è evidente nella seguente dichiarazione del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che pare sia stata fatta pervenire anche al Santo Padre come una sorta di diktat contenente le condizioni di parte ebraica per l’eventuale ripresa del dialogo: «Dopo due settimane di difese d’ufficio e progressive ammissioni imbarazzate, finalmente ieri un comunicato della Segreteria di Stato ha preso una chiara posizione sulla terribile vicenda del vescovo negazionista. Nello stesso comunicato, al punto 2, si afferma la necessità, per una completa riammissione nella Chiesa della fraternità lefebvriana, dell’accettazione completa delle decisioni del Concilio e del magistero degli ultimi Papi.

E’ essenziale fermare l’attenzione e la vigilanza su questo punto, perché il clamore suscitato dal negazionismo oscura il nodo essenziale del problema, che è quello dell’esistenza di un vasto ambiente cattolico tradizionalista, spesso tollerato se non coccolato, nel quale l’antigiudaismo alligna e prospera. Su questo punto si gioca sugli equivoci, tutti si dichiarano ‘non antisemiti’, come lo era già il papato di Pio XI, in quanto contestava il razzismo; ma l’ostilità teologica antiebraica - quella che viene definita ‘antigiudaismo’ - non ha bisogno del razzismo per esistere e diffondersi. La svolta decisiva contro questa tradizione è stata impressa dalla dichiarazione ‘Nostra aetate’ del Concilio, quella che in qualche modo scagionava gli ebrei di oggi dalla colpa del deicidio e ‘deplorava’ (sic) l’ostilità antiebraica. A questa dichiarazione sono seguiti i tanti documenti e gesti positivi che conosciamo, sempre rifiutati dai tradizionalisti. Al punto attuale della discussione, i punti aperti sono: 1. come è stato fatto per il negazionismo deve essere chiaro che - se si vuole mantenere un dialogo rispettoso - non c’è posto non solo per l’antisemitismo ma anche per l’antigiudaismo e che i documenti specifici su questo tema debbano essere accettati esplicitamente, senza generalizzazioni; 2. ci deve essere una coerenza tra documenti e comportamento, evitando incidenti ed equivoci continui che creano sfiducia; 3 infine, last but not least, anche se tutti i documenti sono un enorme passo avanti, le difficoltà sostanziali rimangono; vorrei ricordare come proprio all’indomani del nuovo ‘sabato nero’ dell’annuncio della revoca della scomunica, nell’angelus domenicale, il Papa, parlando della conversione di Paolo, ha detto che in realtà di vera conversione non si trattava perché Paolo era un ebreo credente e ‘non dovette abbandonare la fede ebraica per aderire a Cristo’. ‘Togliamo il negazionismo, il deicidio, se ci riusciamo anche l’antigiudaismo, ma il problema di fondo è sempre lo stesso».

Dimentica, però, il Di Segni, a proposito di quanto il Papa ha detto circa la conversione di San Paolo, che l’Apostolo, sulla via di Damasco, non ha fatto altro che riscoprire, come fecero, prima di lui, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, il vero, unico, solo ed autentico ebraismo che è quello di Nostro Signore Gesù Cristo e non quello dei sinedriti alla Caifa o quello sinagogale di oggi. La Chiesa è da decenni che sta affrontando una sua interna riflessione teologica sull’antigiudaismo. Crediamo che in questa riflessione molte lodevoli cose siano state dette e fatte, ma che al tempo stesso si sia andati sovente oltre il lecito fino, come già detto, a rasentare l’apostasia.

Ora il superamento dell’asprezza del vecchio antigiudaismo sarà pure cosa buona e caritatevole ma non si può non dire cristianamente, con San Paolo, che il giudaismo post-biblico è un «ramo reciso» dall’albero della Rivelazione Abramitica culminato in Cristo Signore. Se è vero che San Paolo, come tutti gli ebrei che hanno accettato Cristo, vedi il caso novecentesco di Israel Zolli, non si sono propriamente convertiti perché non hanno fatto altro che ritrovare in Gesù l’autentico ebraismo del padre Abramo e dei patriarchi, ciò significa implicitamente che gli altri israeliti hanno ampiamente smarrito l’autentico ebraismo e che dunque il loro, attuale, è un ebraismo non autentico, viziato da una profonda rottura esegetica. Altro che continuità! In senso teologico e cattolico tra il giudaismo attuale e quello veterotestamentario, adempiutosi in Cristo, non vi è nessuna continuità. Questa vi è invece tra l’ebraismo e Cristo. Su questo fondamentale e centrale argomento la fede cristiana sta o cade: non è questione di second’ordine!

Una cosa è comunque certa: tutta la questione, durante il Pontificato di Benedetto XVI, sta assumendo davvero una piega inquietante. Da parte ebraica ormai la spregiudicatezza è assoluta. I «fratelli maggiori» si sentono autorizzati a dettare alla Chiesa le condizioni stesse del dialogo e, cosa ancora più grave, l’agenda della riflessione teologica cattolica sulla fede. Lo diciamo a tutti i cattolici: fino a quando dobbiamo essere disposti a tollerare cose come il «diktat», di cui sopra, che il rabbino Di Segni, come sembra, ha indirizzato, con tono autoritario e perentorio, anche al Santo Padre?

Il percorso teologico di Joseph Ratzinger

Per verificare se, dopo l’inaspettata, per i «fratelli maggiori», azione «da goal» del discorso di Benedetto XVI del 2005 sull’«ermeneutica della continuità», il contropiede sia davvero in atto, e fino a che punto lo sia, è necessario indagare sullo sviluppo delle posizioni teologiche di Joseph Ratzinger. Nei suoi studi privati, soprattutto giovanili, anche Ratzinger ha sostenuto, spesso, che giudaismo post-biblico e Cristianesimo siano due forme, entrambe legittime, della stessa fede biblica. In quanto teologo, Joseph Ratzinger se da un lato ha riaffermato la piena verità della forma cristiana dall’altro ha riconosciuto, magari implicitamente, validità anche alla forma giudaico post-biblica della comune fede biblica, quindi ammettendo un ruolo in qualche modo «messianico» all’Israele post-biblico nel Disegno di Salvezza Universale. Ruolo che si sarebbe, appunto, rivelato, come vuole l’attuale ebraismo, con la Shoah. Insomma in un certo senso Ratzinger, in quanto teologo, sembra porsi come tramite tra l’antica teologia paolina dell’Israele reciso dall’Olivo Santo (teologia che è alla base di quella detta «della sostituzione») e la nuova teologia post-conciliare del «doppio soggetto messianico» (Cristo ed Israele). Nuova teologia che, però, relativizza Cristo ed inclina pericolosamente verso quella che propugnano i cristiano-sionisti americani. Tuttavia Ratzinger, è questo non va assolutamente sottaciuto come invece fanno molti tradizionalisti, a differenza dei neo-teologi radicalmente giudaizzanti, molto deboli in quanto a memoria apostolica e patristica, non ha mai mancato nel ricordare, con San Paolo, che alla fine Israele si convertirà a Cristo, come annunciato dalla fede cattolica, sicché il ruolo post-cristiano di Israele, nonostante tutte le sue «prostituzioni» (per usare il linguaggio dei Profeti veterotestamentari), è, in ultima istanza, anche ad insaputa dei «fratelli maggiori», sempre cristocentrico.

C’è però un fatto che anche Ratzinger tende a non puntualizzare con chiarezza, ed è questo. I Padri della Chiesa, un esempio per tutti: San Giovanni Crisostomo nelle sue «Omelie contro gli ebrei», magari utilizzando un linguaggio non proprio caritatevole ma era il linguaggio polemico dei loro tempi, del resto usato anche da parte ebraica, affermavano che Israele alla fine riconoscerà Cristo, come lo conoscono i cristiani, ossia come Dio-Uomo Universale, ma ritenevano anche che fino a quel momento il ruolo di Israele sarebbe stato ambiguo. Da un lato esso, a detta dei Padri, nel suo turbamento metafisico, avrebbe continuato a sentire il fascino ed il mistero di Cristo, ed infatti la schiera degli ebrei che nel corso dei secoli si sono liberamente e sinceramente convertiti è notevole (naturalmente vi sono stati anche molti casi di conversione più o meno forzata o insincera), dall’ltro lato però avrebbe sempre avversato la fede in Cristo, ed infatti le dure polemiche e lotte tra Chiesa e Sinagoga stanno lì a dimostrare la verità storica del magistero «profetico»dei Padri.

Se, dal Vaticano II in poi, da parte cattolica si è fatto di tutto per superare quanto di mancante sotto il profilo della carità verso i «fratelli maggiori» può esservi stato, è indubbiamente vero che da parte loro, da parte ebraica, non sono stati fatti, per niente, passi verso di noi. Con il risultato che mentre i cristiani si sono spinti a tal punto da mettere a repentaglio la propria fede, affogandola  nel relativismo e nell’ecumenismo indifferentista, i «fratelli maggiori», complice anche la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 nel quale hanno visto l’adempimento delle Scritture come le leggono loro, ossia il ritorno all’Eretz Israel, e quindi sentitisi sicuri nelle loro mal riposte speranze messianiche (che sono mal riposte lo dirà senza dubbio il futuro), si sono ritenuti esegeticamente vincitori nei nostri confronti. Infatti dal loro punto di vista, già lo affermava Maimonide nel medioevo, Cristo è stato solo un profeta ebreo il cui ruolo sarebbe stato quello di portare il Dio di Israele ai gentili. Questo in attesa che con l’adempimento della Promessa, ossia con la restaurazione del Regno politico di Israele, tutti i popoli, compresi quelli cristiani, avrebbero tributato omaggio spirituale al Dio di Abramo non però nel Suo Unto, ossia in Nostro Signore Gesù Cristo, ma nel suo, presunto, «Eletto» ossia Israele medesimo. Gira e rigira il miraggio di un ruolo mondiale, spirituale nel migliore dei casi, non solo spirituale nel peggiore, è parte integrante del patrimonio religioso ebraico. Certo, in passato, su questo miraggio si sono costruiti, anche da parte cristiana, molti equivoci politicamente interessati. E questo ha portato alla mancanza di carità sopra ricordata.

Ma è innegabile che quel, pericoloso, miraggio è davvero essenziale nella spuria spiritualità ebraica, magari declinato in senso benevolo ossia come ruolo missionario per realizzare la volontà di Dio coincidente con la Pace Universale (questa sarà realizzata, per l’ebraismo attuale, nell’«era messianica» che vedrà Israele assurgere a Gloria delle Nazioni). Ma cristianamente non possiamo non vedere in questo miraggio qualcosa di inquietante e di grandemente equivoco perché senza Cristo non vi è, mai, vera Pace né vero Regno, che è solo quello oltrestorico da Lui promesso, giammai quello intrastorico cui aspira l’Israele post-biblico. Ecco che qui fa capolino tutta l’ambiguità del giudaismo già avvertita dai Padri della Chiesa. Ci chiediamo: è possibile che la Chiesa di oggi, nei suoi teologi e nelle sue gerarchie, non avverta più tale ambiguità? Anche questo è probabilmente un mistero (meta)storico. E, se è così stabilito, quel che deve accadere, accadrà.

Ci sembra però di poter dire tranquillamente che il  Ratzinger più recente ha rimodulato in senso più conforme alla Tradizione certe sue «avventure» giovanili, pur non rigettandole del tutto per quel che di esse è possibile ritenere. Nel suo «Fede Verità Tolleranza - il Cristianesimo e le religioni del mondo», del 2003, alle pagine 162 e 163, Ratzinger scrive: «La fede di Israele presentata nella Septuaginta mostrava l’accordo tra Dio e il mondo, tra ragione e mistero. Essa dava direttive morali, ma mancava di qualcosa: il Dio universale era comunque legato a un determinato popolo; la morale universale era legata a forme di vita molto particolari, che fuori di Israele non si potevano affatto praticare; il culto spirituale era pur sempre vincolato ai rituali del Tempio che certo si potevano interpretare simbolicamente, ma in fondo erano superati dalla critica profetica e non potevano essere fatti propri da parte di animi in ricerca. Un non ebreo poteva trovare posto soltanto ai margini di questa religione, rimanere ‘proselito’, poiché l’appartenenza piena era legata alla discendenza carnale da Abramo, a una etnia. Rimaneva il dilemma se era necessario, e in quale misura, l’elemento specifico giudaico per poter servire rettamente questo Dio e a chi spettasse tracciare il confine tra quanto era irrinunciabile e quanto invece era storicamente accidentale o superato. Una piena universalità non era possibile, poiché non era possibile un’appartenenza piena. A questo livello è stato il Cristianesimo a praticare per primo una breccia, ad ‘abbattere il muro’ (Ef. 2,14) in un triplice senso: i legami di sangue con il capostipite non sono più necessari, poiché è il legame con Gesù a determinare la piena appartenenza, la vera parentela. Ognuno può ora appartenere totalmente a questo Dio, tutti gli uomini sono in grado e sono autorizzati a divenire suo popolo. Gli ordinamenti giuridici e morali particolari non obbligano più, essi sono divenuti un precedente storico, poiché nella Persona di Gesù Cristo tutto è ricapitolato e chi lo segue porta in sé e adempie l’intera essenza della Legge. Il culto antico non è più in vigore, è stato abrogato con l’offerta di Sé che Gesù ha fatto a Dio e agli uomini. E’ essa ora il vero sacrificio, il culto spirituale, in cui Dio e l’uomo si abbracciano e vengono riconciliati; e … l’Eucarestia ne risulta la reale e certa garanzia sempre presente».

Dunque se da giovane, come detto, Ratzinger ha occhieggiato alla teologia delle «salvezze parallele», ora egli parla esplicitamente di «abrogazione del culto antico» e di «abbattimento del muro del legame di sangue con il capostipite». Ratzinger, in altre parole, qui offre proprio l’esegesi di «Nostra Aetate» da noi invocata, quella che spiega che il riferimento non deve essere alla «stirpe» di Abramo intesa in senso naturalistico, ed etnico, ma intesa nel senso di «Fede di Abramo». Il nostro auspico è che Ratzinger, con gran dispetto di Gad Lerner e gran sollievo del popolo cristiano, traduca questa esegesi privata in un atto del Magistero.

Il cambiamento di prospettiva del Ratzinger maturo è stato reso evidente anche dall’introduzione a sua firma a «Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana», un documento della Pontificia Commissione Biblica, che non è da considerarsi un documento magisteriale perché tale commissione dopo la riforma di Paolo VI non è più organo del Magistero. Si tratta di documento permeato dall’equivoco concetto, lasciato sul fondo, della possibile validità dell’esegesi giudaico post-biblica della Scrittura, anche dopo ed in parallelo con quella cristiana. Ratzinger, che ne firmò l’introduzione come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, pur non confutando apertamente tale prospettiva, sembra assumerla in termini ipotetici ed interlocutori ponendo, sottilmente, implicite ma chiare domande sulla possibilità del sostenere da parte cristiana quella prospettiva. Si chiede, infatti, Ratzinger, in detta introduzione, se dopo Auschwitz sia ancora possibile la lettura tradizionale cattolica della Scrittura, ossia quella dalla quale sorse la teologia della sostituzione, e si risponde che sì essa è più che mai possibile, anche se poi, con il documento che stava prefando, ammette - e qui ci sembra però lo faccia non con la stessa convinzione giovanile ma con un certo evidente e manifesto disagio esegetico - che anche quella giudaico post-biblica potrebbe essere possibile e che quindi da parte cristiana non si dovrebbe escludere a priori tale ipotesi. Ma, appunto, Ratzinger assume questa possibilità in via implicitamente ipotetica. Il punto cruciale di detto documento, a nostro giudizio, sta proprio in questo: quanto esso afferma è perfettamente coerente con la Tradizione laddove sottolinea la continuità/adempimento dell’Antico Testamento nel Nuovo Testamento, della Fede di Abramo nella Fede in Cristo - infatti si tratta di affermazioni del tutto antimarcionite - ma non è invece conforme al pensiero tradizionale della Chiesa l’ammettere, all’interno del disegno di salvezza universale, prima della sua finale conversione a Cristo, un ruolo post-cristiano dell’Israele post-biblico privo di ombre e di inquietanti aspetti «anticristiani». E’ questo il nocciolo dello smarrimento che porta a ritenere, come ritiene Kasper nella sua inautentica interpretazione della «Dominus Iesus» richiamata nel suo articolo da Maurizio Crippa, che l’ebraismo abramitico, la fede di Abramo, e l’attuale giudaismo post-biblico siano la stessa cosa o siano comunque in continuità e non invece in rottura.

Conseguenza di tale esegesi è che da parte giudaica si potrebbe dire, come è pur stato detto, che dunque la rottura sussiste tra Fede di Abramo e Gesù. Dal momento che nel giudaismo post-biblico alligna una matrice chiaramente gnostica non deve meravigliare se argomenti di tipo marcionita siano da esso usati contro il Cristianesimo. L’esegesi di Kasper, però, apre, volente o nolente, al Talmud con conseguenze apocalittiche. A nostro giudizio il Ratzinger maturo ha avvertito il pericolo sotteso ad esegesi di San Paolo come quella di Kasper e, benché non possa dirlo apertamente, e quindi benché continui a giocare sul filo del rasoio, sta cercando, navigando a vista tra Scilla e Cariddi, di riportare la Barca di Pietro sulla retta via, con piccoli passi. E’ un’impresa umanamente parlando quasi impossibile e per questo bisogna capire anche certi eccessi di prudenza papale. Ma è impresa che bisogna pur provare affidandosi sempre, in ultima istanza, a Colui che della Barca di Pietro è il Vero Timoniere. Solo Lui potrà raddrizzarne la rotta. Può darsi che il pontificato di Ratzinger sia solo l’inizio di questo raddrizzamento. Ed è per questo che bisogna rispedire al mittente le interpretazioni degli sviluppi del pensiero teologico di Ratzinger come quelle di Crippa ma soprattutto pregare perché il raddrizzamento decolli veramente superando ogni umana prudenza. Non dimentichiamoci che la Chiesa misura se stessa sull’eternità e che pertanto agisce con lentezza avendo a sua disposizione secoli e non anni.

Le titubanze ecclesiali nel difficile equilibrio tra verità e carità e quelle del mondo «tradizionalista»

La problematica epocale della Chiesa post-conciliare sta tutta nell’immagine di insicurezza che Essa purtroppo offre di sé, dovuta ad uno sforzo pastorale finalizzato a comunicare Carità senza però previamente ancorarla alla Verità. Proprio Benedetto XVI, nell’ottica dell’«ermeneutica della continuità», sembra che stia preparando un’enciclica, che dovrebbe denominarsi non a caso «Veritas et Caritas», per ribadire, secondo quanto affermato dagli stessi padri conciliari, il primato della Verità sulla Carità ma anche che la Verità non si potrà mai efficacemente comunicare senza la Carità. Nel post-Concilio invece, in clima di ottimismo e «buonismo» si è rimarcata la sola Carità riducendola a mero umanitarismo a tinte sociologiche. E’ però innegabile che, nello sforzo di tenere unite Verità e Carità, la Chiesa di oggi abbia sovente dato quell’immagine di insicurezza della quale dicevamo. Anche Papa Ratzinger sembra talvolta, ed il «caso Williamson» ne è stato un esempio, subire questo clima di indecisione. Questa incapacità di mantenere il giusto equilibrio tra Verità e Carità, sicché per paura di mancare nella seconda si finisce per non dar il giusto e prioritario risalto alla prima, è stata resa evidente anche dalle parole di padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa Vaticana, che non ha certamente brillato nella gestione della comunicazione vaticana in occasione dell’affare «Williamson». Quando padre Lombardi ha affermato»Chi nega il fatto della Shoah non sa nulla né del mistero di Dio, né della Croce di Cristo» non ha fatto ben capire il senso di questa proclamazione. Perché se con essa si voleva dire che esistano più che sufficienti indizi della uccisione ad opera del regime nazista di un  numero di ebrei tanto elevato da essere  definito il tentativo di sterminio di un intero popolo allora l’uso di un linguaggio teologico si è dimostrato inappropriato e foriero di ulteriore confusione. Perché si tratta di una verità storica, non di una verità di fede (fra gli eventi storici tale è soltanto la vita di Cristo). Sicché le parole di padre Lombardi, senza dubbio politicamente corrette, appaiono altrettanto certamente blasfeme.

Anche Papa Ratzinger, sotto la pressione della contestazione amplificata dai media, ha spesso tentennato e non solo nella questione del giudaismo. Lo si è visto ad esempio anche quando fu contestato, con risonanza internazionale, dal presidente Lula a proposito degli evangelizzatori degli indios, che il Papa aveva giustamente e con rispetto della verità storica difeso. Di fronte all’assalto mediatico, Benedetto XVI da l’impressione di tendere a riposizionare i suoi interventi. Sarà, probabilmente anche un problema caratteriale perché egli è uomo molto timido, come solitamente tutti gli studiosi poco avvezzi ai ruoli pubblici o pastorali. Forse per questo quando fu eletto chiese l’aiuto di Maria per non fuggire di fronte ai lupi. Egli sapeva bene che avrebbe avuto a che fare con molti lupi in agguato, sia dentro che fuori la Chiesa. E’ indubbio che Ratzinger si porta dietro molto della sua formazione giovanile ma è anche vero che molto altro delle sue idee giovanili ha revisionato e corretto. Non è un caso, infatti, se i suoi vecchi compagni di cordata lo considerano un traditore. Da parte nostra vorremmo mettere in evidenza la sua solitudine, sin da quando era cardinale. Fece dichiarazioni ed interviste (ricordiamo ad esempio «Rapporto sulla Fede», libro intervista con Vittorio Messori) e scrisse libri che gli mossero contro tutta l’intellighenzia postconciliare che lo accusava, e lo accusa, di voler affossare il Concilio. Nessuno lo difese, salvo Giovanni Paolo II che lo aveva chiamato da Monaco di Baviera alla Congregazione per la Dottrina delle Fede proprio perché fosse il vigile custode delle scelte dottrinarie del suo pontificato. Diciamo questo non per nascondere effettivi problemi che sono nati dalle incertezze e dai tentennamenti dimostrati dall’uomo Ratzinger di fronte all’ottusa aggressività dei suoi detrattori. Così, ad esempio, ai tempi della «Dominus Iesus», quando la comunità ebraica , non potendo evidentemente prendersela con Giovanni Paolo II, troppo sostenuto dal favore dei media e della gente e fin troppo attento all’eccessiva sensibilità ebraica, che aveva approvato con la sua autorità papale quel documento, contestò direttamente il suo estensore ossia il cardinale Ratzinger. In quell’occasione, sotto pressione e senza difesa, Ratzinger dovette intervenire pubblicamente con un articolo pubblicato il 29 dicembre 2000, sull’Osservatore Romano, «L’eredità di Abramo dono di Natale», che concedeva anche troppo ad un presunto ruolo post-cristiano di Israele.

Bisogna, però, onestamente riconoscere che, durante la crisi innescata dal «caso Williamson», il mondo del Cattolicesimo tradizionalista non ha saputo adeguatamente difendere il Papa (11). In molti tradizionalisti sussiste ancora l’illusione che dalla situazione post-conciliare la Chiesa possa essere fatta uscire mediante uno scontro frontale o con una spaccatura al suo interno. Non si considera che neanche Dio agisce nella storia, Lui che è padrone dei secoli, con l’ascia. Se invece si fosse sostenuto pubblicamente il Papa, se tutto il mondo tradizionalista avesse organizzato una manifestazione, magari all’Angelus, con striscioni in appoggio al Papa e si fosse mobilitato sui media difendendo le decisioni papali e contrastando i diktat del rabbinato con ferme dichiarazioni di sostegno a Benedetto XVI affinché non indietreggi dal riaperto dialogo e dall’«ermeneutica della continuità», tutta l’operazione messa in piedi dal giudaismo con il, non casuale, «caso Williamson» sarebbe fallita e i rabbini avrebbero capito che nella Chiesa vi sono forze vive con le quali si devono abbassare i toni. E lo avrebbero capito anche certi cardinali di curia come Kasper. E il Papa non si sarebbe sentito solo. E’ necessario, perché la Provvidenza ci sta dando un’occasione forse irrepetibile, lavorare, e fare pressione dentro la Chiesa, affinché il Papa, e gli eventuali suoi successori, prenda davvero e decisamente la strada dell’«ermeneutica della continuità». Il che significa, come sopra da noi auspicato, chiedere chiari documenti del magistero che diano un’esegesi, anche della «Nostra Aetate», davvero e seriamente in conformità con la Tradizione.

Ma per fare questo è necessario una coesione tradizionalista il più possibile interna alla Chiesa che sappia fare, con pazienza (non è detto che tutto debba avvenire nel Pontificato di Ratzinger), opera di costante persuasione su teologi, cardinali, vescovi e Papi. Poi ogni cosa non è nelle nostre mani ma in quella della Provvidenza. La Chiesa è in ultima istanza sempre guidata da Cristo e Lui solo sa quando la tempesta deve finire. Ma a noi poveri cristiani si chiede di operare, nel senso sopra detto, nella Chiesa e non al di fuori o contro di Essa. E’ necessario che la Fraternità Sacerdotale San Pio X continui a mantenere la linea di Fellay e che Benedetto XVI continui nella sua «politica» della mano tesa: abbiamo più che mai bisogno del clero della Fraternità all’interno della Chiesa. Da quel clero potrebbero un domani, Dio volendo, uscire vescovi, cardinali e, magari, un Papa. Non c’è altra via. Tornare alla rottura, dopo la revoca della scomunica, significa voltare le spalle alla Provvidenza e chiudersi in un vicolo cieco come i sedevacantisti. Che un Papa, Benedetto XVI o un suo successore, possa un giorno affacciarsi alla finestra ed affermare urbi et orbi «contrordine amici, ci siamo sbagliati, il Concilio era una burla, lo Spirito Santo era andato in vacanza oppure dormiva quando tra il 1963 ed il 1965 il Concilio era all’opera », senza mettere seriamente in crisi la Chiesa nella Sua pretesa di infallibilità in materia di fede e morale, è impensabile ed è soltanto l’illusione di chi non sa realisticamente cogliere le opportunità che, ora, oggi, la Provvidenza sta offrendo.

Una di queste opportunità è quella di presentare al mondo moderno il «conto (che non torna) della storia» ossia di mettere di fronte alle proprie contraddizioni il mondo occidentale nato dalla Riforma e dall’Illuminismo. Un mondo così fiero della sua laicità, al punto da invocarla in continuo «opportune et inopportune», che però ha accettato la «teologia civile dell’olocausto». Abbiamo l’occasione di essere proprio noi, i «dogmatici cattolici», a farci beffe dei nipotini di Voltaire, quelli sempre pronti a rinfacciarci dell’inquisizione e sempre pronti ad impartirci l’immancabile lezione volterriana «non sono d’accordo con quel che dici ma sono disposto a dare la vita affinché tu possa dirlo». Abbiamo l’occasione di deridere i nipotini dei «lumi» per essere caduti, proprio loro i relativisti «antidogmatici» per definizione, nelle trame dell’eterogenesi dei fini che hanno portato «civili» e «liberali» ordinamenti giuridici ha reintrodurre veri e propri reati di opinione. E questo, sia ben chiaro, senza minimamente cadere a nostra volta nella trappola, che tale è anche sotto il profilo storico, del cosiddetto «negazionismo».

Immaginate che smacco per gli «illuminati» ritrovarsi nella posizione dei neo-inquisitori di fronte a cattolici che del tutto laicamente (non dimentichiamoci che il concetto di «laicità», quella sana, nasce con il Cristianesimo) difendono la libertà di ricerca storica e di opinione pur senza accreditare tesi che devono essere discusse e validate o confutate nelle opportune sedi storiche e non nei giornali e nei media. Dobbiamo essere noi a rinfacciare la propria intolleranza ad un Occidente che permette la libera circolazione di tesi negazioniste su Cristo o su Maometto e poi, non si capisce su quale base, a meno di non dover ammettere che l’Occidente abbia spostato un nuovo universale confessionalismo di Stato, impedisce «inquisitoriamente» la circolazione di quelle pur storicamente temerarie tesi. Tesi che poi spesso si rivelano, in sede storica, senza sufficiente consistenza esattamente come quelle che negano Cristo o Maometto. Detto questo ribadiamo, perché repetita iuvant, che quel che come cattolici dobbiamo avere a cuore è soltanto che la Chiesa affermi chiaramente che lo sterminio ebraico, efferato quanto si vuole ed innegabile quanto si vuole (non fa differenza se sono stati uccisi con il gas o fucilati; se sono 6 milioni o 8 o 5 o 4 o 300mila), non è un «olocausto» autonomo o alternativo a quello del Golgota. Solo questo, quello di Cristo sulla Croce, è il vero Olocausto cui tutti gli altri «olocausti» sono ordinati nel mistero doloroso della storia. Si tratta di una questione teologica cruciale per la fede cattolica: non si può ammettere un altro evento salvifico oltre la Morte e Resurrezione di Cristo. Verso gli ebrei massima carità, ricordando in continuazione innanzitutto a loro il grande aiuto che essi ricevettero unicamente dalla Chiesa, che fu l’unico vero scudo che essi nei frangenti della persecuzione nazista trovarono, ma anche massima chiarezza di fede, senza confondere «sacro» e «profano». Perché dobbiamo come cristiani prendere, purtroppo, doloroso atto che, nonostante questi cinquant’anni di aperture, non stiamo affatto colloquiando con interlocutori in buona fede (salvo naturalmente le debite eccezioni che pur ci sono) e che quindi il colloquio diventa in tal modo per sua natura inutile. Una buona via d’uscita, per continuare il dialogo, se proprio lo si vuol continuare, sarebbe quella di previamente esigere, da parte degli interlocutori, in particolare se ebrei, una definizione precisa di termini come «olocausto» ossia se si intende con tale termine un evento teologico o meramente storico.

La chiarezza da noi auspicata diventa ancora più urgente quando si leggono certe dichiarazioni di parte ebraica. Riportiamo dall’Agenzia di stampa ASCA-AFP:

«Città del Vaticano, 9 febbraio: Gli ebrei impegnati nel dialogo con la Chiesa cattolica restano ‘molto vigili’ sugli sviluppi del caso del vescovo negazionista Richard Williamson. Lo ha detto  all’AFP il presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif), Richard Prasquier, al termine di una visita in Vaticano. Prasquier ha incontrato il cardinale Walter Kasper, presidente della Pontificia commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, e l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, che lo ha informato sui preparativi del viaggio di papa Benedetto XVI in Terra Santa. ‘I preparativi proseguono’ nonostante la crisi provocata dalla revoca della scomunica al vescovo lefebvriano, ha assicurato il presidente del Crif, aggiungendo che Israele non ha ‘mai veramente messo in discussione’ il viaggio, previsto per il mese di maggio. ‘Restiamo molto vigili, perché purtroppo il caso Williamson non è la prima delusione’, ha sottolineato Prasquier, rappresentante della più importante comunità ebraica dell’Europa occidentale, citando il ritorno della preghiera per la conversione degli ebrei nella messa in latino del Venerdì santo recentemente ripristinata, così come il processo di beatificazione di Papa Pio XII. Secondo Prasquier, in tutti e tre i casi, ‘non è stato tenuto conto dell’opinione degli ebrei’. Il rappresentante ebraico ha spiegato che la crisi provocata dal caso Williamson non ha intaccato la convinzione della sua organizzazione dell’importanza del dialogo con la Chiesa cattolica, ma ha avvertito che ‘rischia di risvegliare il sospetto di alcuni ambienti ebraici che hanno fatto fatica ad accettarlo’».

Da parte nostra, semplici fedeli costernati dal fatto che un cardinale di Santa Romana Chiesa come Kasper possa accettare supinamente certo tipo di lezioni rabbiniche, ci facciamo qualche domanda circa quanto ha dichiarato Richard Prasquier. Perché mai bisognava tener conto del parere ebraico su atti, come il Motu Proprio, l’accelerazione all’iter di canonizzazione di Pio XII o la revoca della scomunica ai vescovi lefreviani, interni alla vita della Chiesa? Si sono forse essi ebrei già convertiti al Cristianesimo, come faranno sicuramente i loro discendenti? Non dicono proprio loro, gli attuali ebrei, in continuazione di non volersi intromettere nella cose della Chiesa? Ed allora perché mai questo continuo ricatto: se fate questo e quello, noi chiudiamo il dialogo? E perché mai da parte ecclesiale si continua a rincorrerli invece di lasciarli cuocere nel loro talmudico brodo? L’abbiamo vista tutti l’arroganza della dirigenza religiosa ebraica. Se il Papa regnante è tedesco, ecco allora che essa mette in campo l’attuale primo ministro della Repubblica di Germania, Angela Merkel, recentemente premiata dal B’nai B’rith, ossia dalla massoneria riservata a soli ebrei, e dunque noachicamente devota alla lobby che ne sostiene la fulgida carriera politica, a lamentarsi pubblicamente in sede internazionale delle scelte del Papa circa la revoca della scomunica.

E se questo non basta, ecco allora che essa mobilita il cardinale Lehmann e l’intera Chiesa tedesca contro il Papa «restauratore», facendogli pervenire notizia del «clamoroso» scisma in atto in Germania ed in Austria da parte di tanti fedeli che ritirano la loro adesione alla Chiesa cattolica.

Il segretario del Consiglio Centrale degli ebrei di Germania, Stephan Kramer, alla notizia della richiesta da parte del Vaticano a Williamson di «ritrattare» le sue dichiarazioni, ha definito «le notizie che giungono da Roma al massimo un primo segnale di movimento. (Perché) Ciò che la Chiesa cattolica dovrebbe fare sarebbe svincolarsi totalmente dalla congregazione lefebvriana» (così l’Agr). Yitzhk Cohen, attuale responsabile del dicastero per gli Affari Religiosi dello Stato israeliano, lo stesso ministero dell’«unica democrazia del medio oriente» che si diverte a, ufficiosamente, sostenere i pubblici roghi di Vangeli che fanatiche organizzazioni rabbiniche fondamentaliste periodicamente effettuano in Israele, ha proposto, durante la crisi dell’affare Williamson, al suo governo, un governo i cui esponenti avevano ancora le mani lorde del sangue di tanti innocenti sterminati a Gaza, di rompere ogni rapporto politico e diplomatico con la Santa Sede «colpevole» di aver riammesso nella Chiesa «negazionisti» ed «antisemiti» (così sul Corriere della Sera del 31 gennaio 2009).

E’ doloroso dirlo: ma questa loro arroganza è giunta a tal punto come conseguenza delle aperture verso di essi iniziate con il Concilio. Ma allora, bene ha fatto Benedetto XVI ha non chiedere il loro parere sul Motu Proprio e sulla revoca della scomunica. Sarebbe forse il caso che «una pausa di riflessione» circa il dialogo fossimo noi cattolici a prendercela, cardinal Kasper volente o nolente!

E poi: davvero sono stati loro ad accettare con sospetto il dialogo con noi cattolici? Non è invece stato da loro cercato proprio perché sono da duemila anni tormentati «metafisicamente» dal loro rifiuto del vero Messia Redentore? Non è stata, infatti, l’influenza di Jules Isaac, patrocinato presso Giovanni XXIII dal cardinale Agostino Bea, a portare il Concilio Vaticano II ad una formulazione non proprio inequivoca della dichiarazione circa i rapporti ebraico-cristiani contenuta nella «Nostra Aetate», che, per come è stata appunto formulata, è ad un tempo suscettibile sia di una lettura perfettamente tradizionale, quella già adombrata nel magistero di Pio XI che di fronte alla persecuzione nazista ebbe a dire che «i cristiani sono spiritualmente semiti» - e che è quella la quale a nostro giudizio vorrebbe riaffermare senza equivoci Papa Ratzinger -, sia una lettura appunto equivoca per la quale il paolino «Olivo Santo», ossia la Fede di Abramo adempiutasi in Cristo, olivo dal quale il giudaismo post-biblico - dice San Paolo - è attualmente reciso, diventa invece la «stirpe di Abramo», non più dunque la «fede di Abramo», alla quale stirpe noi cristiani saremmo spiritualmente innestati come rami alla radice? Una lettura, quest’ultima, sbandierata ad ogni occasione dal cardinal Kasper che legittima una inventata e mai esistita continuità tra la Fede di Abramo, continuata invece solo dalla e nella Fede in Cristo, e l’attuale giudaismo post-biblico basato sul Talmud ossia sull’interpretazione rabbinica della Torah: una interpretazione del tutto avulsa dall’autentico ebraismo, confluito nel Cristianesimo, e che, al posto di Nostro Signore Gesù Cristo, pone l’Israele post-biblico come «Messia collettivo», prospettiva che poi, calata sul piano politico, apre ad esiti palesemente razzisti, quelli che ben spiegano, purtroppo, i grandi mali odierni della Terra Santa, e non ultimo lo sterminio dei palestinesi di Gaza, nel gennaio scorso, da parte del glorioso T’shall, l’esercito israeliano.

La Fraternità Sacerdotale San Pio X e l’«ermeneurica della continuità»

Che tutto l’affaire Williamson sia stato giocato, dentro e fuori la Chiesa, dentro e fuori la Fraternità Sacerdotale San Pio X, allo scopo di bloccare l’opera di continuità ermeneutica messa in cantiere da Papa Ratzinger e, al di là dei molti problemi ancora sussistenti, certamente recepita con attenzione dalla predetta Fraternità, è dimostrato dal fatto che la stessa «ermeneutica della continuità» sembra venire incontro proprio alle legittime richieste dei lefreviani, senza tuttavia cedere a quanto di non essenziale sembra esserci nelle loro posizioni. Ne troviamo ampia conferma in questa intervista, di Samuel Pruvot e di Gérard Leclerc apparsa in questi giorni su «Famille Chretienne», a monsignor Fellay, Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Ne riportiamo i passi salienti relativi alla questione dell’esegesi del Concilio in continuità con la Tradizione e quelli relativi alla posizione ufficiale della Fraternità verso l’ebraismo attuale come espressa dall’unico titolato a farlo ossia proprio monsignor Fellay.

«Gérard Leclerc: Accettate il Concilio ponendo delle riserve oppure lo rifiutate in blocco?

Monsignor Fellay : Dobbiamo distinguere gli scritti dallo spirito. Esiste uno spirito pericoloso che ha attraversato tutto il Concilio e in questo senso, questo spirito noi rifiutiamo. Ma quando si parla di leggerlo non dobbiamo pensare ad un rifiuto totale. Monsignor Lefebvre, egli stesso ha accettato il Concilio ‘alla luce della Tradizione’. Cosa vuol dire? Negli anni 1982-1983, egli andò senza ottenere risultato a Roma davanti al cardinale Ratzinger. Monsignor Lefebvre diceva: ‘Tutto quanto è conforme all’insegnamento perenne lo accettiamo, quello che è ambiguo lo accogliamo secondo questo insegnamento perenne, quello che invece vi si oppone lo rigettiamo’. Nel discorso alla Curia il 22 dicembre 2005, Benedetto XVI ha parlato di ‘ermeneutica’ del Concilio. Ha condannato l’idea di una rottura, basata sullo ‘spirito del Concilio’. Quanti sono oggi i favorevoli all’ermeneutica della rottura? Pochi, molti? Questi, che vogliono tale rottura con il passato, sono allontanati dalla Chiesa? Come dice, molto giustamente, Benedetto XVI, la Chiesa non può separarsi dal suo passato. E’ impossibile! Non possiamo pretendere di avere il ventesimo piano di un palazzo senza che sotto ci siano gli altri diciannove.

Gérard Leclerc: La distinzione fra spirito e lettera del Concilio può risultare speciosa, pensiamo a un De Lubac che denuncia la perversione del clima che regnava intorno al Concilio, o all’autentico spirito del Concilio che ne illumina la lettera e non può non riferirsi allo Spirito Santo stesso! E in quanto alla continuità organica della Tradizione, la stessa presuppone forzatamente degli sviluppi. E’ quanto diceva già il cardinale Newman. Il rischio oggi sarebbe che la Fraternità Sacerdotale San Pio X, rifiutando ogni sviluppo della Tradizione volendola bloccare, di fatto ne esca fuori.

Monsignor Fellay: Ci sono, in effetti, dei punti che il Papa presenta come legati alla Tradizione e che invece, ai nostri occhi, non lo sarebbero.

Gérard Leclerc: E’ possibile fare una cernita nelle affermazioni conciliari?

Monsingor Fellay: Non si tratta di discutere ‘questo sì e questo no’. A mio avviso, molti problemi che noi ci poniamo possono risolversi facendo delle distinzioni e non attraverso il rigetto o l’accettazione assoluta. Non vogliamo essere univoci e basta. Quando parliamo di Concilio, sappiamo bene come debba essere inserito in una serie di circostanze, in un contesto, in un movimento. Mi baso su una nota del Segretariato del Concilio di novembre 1964. Il testo è diviso in due parti. Nella prima si legge: ‘la Chiesa non intende obbligare ad aderire, in questioni di fede e costumi se non su quei punti che Essa presenta come tali’. E la stessa nota precisa come il Concilio si voglia ‘pastorale’. Esso si distingue dagli altri. Non ci si può porre in maniera dogmatica e dire amen, a tutto. Questo approccio è semplicemente falso. Ci sono ambiti differenti, temi differenti e differenti gradi di autorità.

Samuel Pruvot: Un Concilio é sempre qualcosa di non finito, pone nuove questioni da risolvere. In più, il Vaticano II ha portato innovazioni, nel senso che ha voluto proporre una visione positiva della fede e non ha lanciato anatemi. Si può vedere in questo contesto uno sviluppo organico della Tradizione che segna una incontestabile avanzata della Chiesa. A seguito del Motu proprio, le sembra che si possa considerare risolta la questione liturgica? Ritiene che il rito romano nella sua forma ordinaria (Paolo VI) sia valido?

Monsignor Fellay: La questione della validità non pone problemi in sé. Nella misura in cui viene rispettata la forma. La nuova messa è valida. Il problema si pone a posteriori. Dobbiamo purtroppo constatare che, nel comportamento così come nelle parole, i sacerdoti e i fedeli, non hanno sempre la stessa fede nella presenza eucaristica. Questo è da considerare come un’intenzione contraria a quella della Chiesa. La liturgia è un’insieme che accompagna l’essenziale della Messa. E’ un insieme di gesti, di parole che accompagna e deve nutrire questa fede. E’ qui che abbiamo forti obbiezioni, come ad esempio per l’Offertorio: mettete a confronto i due messali e capirete le nostre obbiezioni e perplessità.

Gérard Leclerc: Certamente avrei un grosso problema ad assistere ad una messa dove il prete non condivide la fede della Chiesa. Ritengo che la questione si sia potuta porre in qualche circostanza. Paolo VI emanò un’enciclica sull’Eucarestia che venne ricusata da alcuni all’epoca. Un fatto molto grave. Sui riti ritengo che la discussione sarà lunga. Ci sarà da rivedere come è stata fatta la riforma liturgica. Non per niente il cardinal Ratzinger chiedeva una riforma della riforma. Ma dobbiamo allo stesso tempo considerare le ricchezze del nuovo rito. Queste ultime provengono dalla più autentica tradizione ecclesiale.

Monignor Fellay: Per Benedetto XVI, la riforma liturgica è una delle prime cause della crisi nella Chiesa. E’ un’affermazione molto forte. Che dice molto e non sono io che la dico!

Gérard Leclerc: Riguardo al giudaismo lei condivide la formula venuta fuori dal Concilio che presenta gli ebrei come ‘i nostri fratelli maggiori’?

Monsignor Fellay: L’espressione può essere presa in due modi diversi, è pertanto ambigua. Il primo corretto, l’altro non corretto. La Sacra Scrittura è formata dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Tutto quello che Dio ha trasmesso al popolo eletto si trova nella Prima Alleanza. Ma questa è stata sostituita dalla Nuova Alleanza, la Buona Novella, insomma dal Vangelo. Noi, in quanto cattolici abbiamo il tutto. L’antico e il nuovo. Gli ebrei restano fedeli all’Antico Testamento ma è avvenuto qualcosa di nuovo mentre il giudaismo si è fermato a quel punto. Ma questo qualcosa di nuovo è l’essenziale: è la venuta del Messia. Gli ebrei sono nostri fratelli maggiori nella misura in cui possediamo cose in comune. Ma dobbiamo dire che quello che abbiamo in comune non potrà essere sufficiente per la loro salvezza
».

D’altra parte che anche tra i lefraviani vi sia una corrente poco favorevole all’accordo con il Vaticano, corrente che sembra sia proprio Williamson a guidare, è pur vero. Ma crediamo tuttavia che, più che averlo ordito, il vescovo lefreviano sia caduto nel trappolone, forse per ingenuità, forse per vanità (avere un quarto d’ora di celebrità). Ora, però Fellay ha parlato chiaro. Deve adesso dimostrare di voler davvero aprire trattative con Roma sulle altre questioni relative al Vaticano II.

I lefreviani devono infatti insistere per una ancor più cristallina «ermeneutica della continuità» che avvicini l’interpretazione dei testi conciliari alla loro sensibilità ed alla Tradizione. Rimane comunque il fatto che hanno sicuramente ragione tutti coloro che ritengono che Williamson non abbia di certo mai violato nessun articolo del Credo, sicché la richiesta di «ritrattazione» proveniente da Roma non ha teologicamente e canonisticamente alcun fondamento e sembra più un modo di placare, come ha osservato anche Andrea Tornielli, la rivolta di tutti gli anti-ratzingheriani della Curia e della Chiesa e la pressione lobbistica dell’ebraismo mondiale, attivata a mezzo della Merkel  e di Lehmann. Infatti, a meno che la fede della Chiesa non sia cambiata (e non lo è!), non è possibile, a termini di diritto canonico, punire un prelato che ha fatto delle osservazioni storiche, certamente del tutto discutibili ma che sono e restano osservazioni storiche e non affermazioni teologiche.

Temiamo purtroppo, ma speriamo di essere smentiti dai fatti in futuro, che per il momento la manovra sembra riuscita perché ora l’«ermeneutica della continuità» e il processo di ritorno intelligente alla Tradizione liturgica e teologica, messi in cantiere da Papa Ratzinger, sono purtroppo fortemente ipotecati dall’alone di «antisemitismo» e di «lefrevismo» che sono riusciti, forse con complici ecclesiali interni, a diffondere intorno al Pontefice. Per la gioia congiunta - non a caso - dei sedevacantisti e dei progressisti alla Martini ed alla Melloni. Ma, e questo ci conforta, l’ultima parola non sarà comunque la loro.

Per concludere

Di recente Vittorio Messori, su «Il Timone», trattando di Lourdes, ha spiegato come nella storia della salvezza molte verità profetiche siano ancora «celate» o «implicite» e che solo quando esse troveranno compimento storico ci saranno ben chiare. Si tratta di un processo di inveramento storico che, del resto, non è affatto nuovo in quanto è lo stesso che guidò a suo tempo la profezia veterotestamentaria: provate a leggere una qualsiasi delle profezie messianiche dell’Antico Testamento come se Cristo non fosse ancora apparso nella storia e potrete verificare quanto esse possano risultare «oscure» nel loro autentico significato: questo è l’errore del giudaismo post-biblico ossia leggere la Scrittura prescindendo da Cristo. Messori, nell’occasione citata, ha anche ricordato che la Chiesa «primitiva» ne sapeva meno di noi su certe questioni della Fede perché tali questioni dovevano diventare chiare e rivelarsi in pieno solo successivamente nello scorrere dei secoli. In effetti, in questi ultimi secoli molte cose che prima erano più misteriose sembrano prendere un significato più chiaro anche sul piano storico. La «teologia», la «profezia», sembrano in certi avvenimenti farsi storia, anche, e forse a maggior ragione, proprio in questa svolta tra il XX ed il XXI secolo. Da qualche anno, ci siamo dedicati a riprendere il filo, sulla base della memoria patristica, di alcune tradizioni da sempre interne alla Chiesa, che si ritrovano negli scritti e nelle predicazioni dei suoi Santi e dei suoi dottori e mistici, anche lontani tra loro nel tempo. Tradizioni concernenti il «mistero post-biblico di Israele». Possiamo certamente sempre sbagliarci e non pretendiamo certo di aver assolutamente visto giusto, ma ci sembra di  vedere i contorni di queste tradizioni «profetiche» delinearsi anche negli avvenimenti in atto in Terra Santa dal 1948 in poi.

Vi è poi un parallelismo tra tale «mistero di Israele», a nostro giudizio dalle fattezze ambigue, con il mistero della «Donna vestita di sole» che è ormai, in effetti, apparsa all’orizzonte della storia a partire possiamo dire sin da Guadalupe (nel secolo XVI ossia all’indomani della scoperta del nuovo mondo: «Frattanto questo Vangelo del Regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti», è scritto in Matteo 24,14, profezia che non si sarebbe potuta realizzare senza che Cristoforo Colombo avesse scoperto l’America). Come annunciato nel XVIII secolo da San Luigi Maria Grignon de Monfort, ne «Il segreto di Maria (ci rifacciamo all’esegesi «canonica» degli scritti di tale mistico e non a quella politicamente e strumentalmente propagandata da certe organizzazioni della pseudo-destra cattolica), la presenza nella storia della giovannea Donna dell’Apocalisse, che richiama la «Donna che schiaccia la testa al serpente» del Genesi, è diventata sempre più «frenetica» soprattutto negli ultimi due secoli ripieni delle Sue apparizioni e fenomeni simili (gli «occhi in movimento di diverse effigi mariane», le «lacrime di sangue», i «segni nel sole e nelle stelle», etc.). Apparizioni e fenomeni tra l’altro coincidenti con avvenimenti ben precisi della storia (Rivoluzione Francese - Guadalupe coincise già con la Riforma -, rivoluzioni liberali e razionalismo ottocentesco, prima e seconda guerra mondiale, rivoluzione russa e nazismo, proclamazione dei dogmi dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione in anima e corpo).

Una vera e propria «storia parallela», quella della presenza di Maria nelle vicende storiche dell’umanità. Una storia che a nostro parere, senza indulgere in alcun millenarismo, è svelamento e realizzazione storica della Rivelazione giovannea. Attualmente sembra che di quella presenza si registrano diverse manifestazioni in gran parte del mondo ed in tutti i continenti. Ed anche questo particolare intensificarsi della apparizioni mariane, avvicinandosi l’umanità al punto decisivo di una svolta epocale nella sua storia, sembrerebbe essere già stato annunciato dal santo «vandeano» che abbiamo citato sopra. Forse alcune manifestazioni mariane in atto, da taluni deprecate, non solo potrebbero far parte di questa storia parallela ma potrebbero anche costituirne in qualche modo il culmine, nel senso che la Chiesa sia alle soglie di grandi eventi che la vedranno ritornare ad essere l’amata Madre dell’umanità, di una umanità che tornerà sicuramente, prima o poi, alla Fede. Certo: nessuna data e nessun luogo. Nulla di sicuro nel senso della certezza del calendario: solo tendenze epocali in atto secondo il piano di salvezza universale già delineato nel Genesi nel quale, appunto, è annunciata la Donna che schiaccia la testa all’antico serpente. Ora ci si lasci, in conclusione, osservare che il mistero di Maria sembra svelarsi in questo passaggio di millennio proprio mentre sembra contemporaneamente palesarsi anche l’ambiguità del «mistero di Israele», già presentito dai Padri della Chiesa e, sulla loro scorta, ancora nel XIX secolo da scrittori come Soloviev.

Di quell’Israele, oggi sionista, mosso da una folle ideologia nazional-religiosa a fosche tinte razziali, che nel perseguimento, purtroppo non adeguatamente contrastato da Santa Romana Chiesa, delle sue mal risposte speranze messianiche, ossia salvarsi senza Cristo ritenendosi «a Christo solutus», tradisce ogni giorno, nella violenza, negli abusi, nello sterminio del prossimo, il Dio di Abramo, il Dio di Amore per tutte le genti, che pur crede di invocare quotidianamente nelle sue sinagoghe. Ma, come nel caso del fariseo orgoglioso della parabola, il Dio di Abramo non presta attenzione all’invocazione di Israele, perché Egli resiste ai superbi ed è oggi troppo occupato a soccorrere le vittime innocenti dell’odio ideologico e del fanatismo nazional-religioso in Terra Santa come altrove nel mondo. Ed è per questo che Israele è votato alla cecità spirituale dalla quale potrà guarire solo quando dirà «Benedetto Colui che viene nel nome del Signore».
«Allora Egli si volse verso di loro e disse: ‘Che cos’è dunque ciò che è scritto: La pietra che i costruttori hanno scartata, è diventata testata d’angolo? Chiunque cadrà su quella pietra si sfracellerà e a chi cadrà addosso, lo stritolerà» (Luca 20, 17-18). Ecco: tra noi e loro c’è di mezzo la Pietra Angolare, non il «negazionismo».

Luigi Copertino

(fine)

«Tra noi e loro la pietra angolare, non il negazionismo (Parte prima)»



10) Confronta M. Crippa «Le radici giudaico-cristiane nella teologia secondo Benedetto XVI» su
Il Foglio del 4 febbraio 2009.
11) Alcuni tentativi di mobilitazione dei cattolici in difesa del Papa sono stati fatti proprio laddove, in Germania, l’attacco è stato più virulento, ma altrove il silenzio cattolico è stato assordante. Riportiamo la seguente notizia relativa all’appello lanciato a sostegno di Benedetto XVI nel suo Paese natale: «(ASCA-AFP) Berlino, 6 febbbraio Due organizzazioni cattoliche tedesche hanno esortato i fedeli a sostenere il Papa, accusando i media di ‘oltraggi smodati’ nella loro copertura del dibattito sulla revoca della scomunica al vescovo lefebvriano negazionista Richard Williamson. ‘Gli oppositori del Papa, tra i quali figurano purtroppo alcuni vescovi eminenti, usano tutti gli strumenti per cercare di impedirgli di mantenere la sua rotta’, afferma un inserto a pagamento di Pro Sancta Ecclesia nel quotidiano Frankfuter Allegemeine Zeitung. ‘Occorre perciò che i fedeli e i veri cattolici facciano tutto il possibile per opporsi a questi sforzi, radunandosi dietro il Papa e sostenendolo con le loro preghiere, il loro lavoro, nella parola come nei fatti’, aggiunge il testo, sostenuto dall’associazione dei preti e laici cattolici tedeschi. Un secondo inserto pubblicitario nello stesso giornale, pubblicato su iniziativa del Forum dei cattolici tedeschi, ‘condanna tutti i commenti dei media tedeschi mirati a denigrare il Papa e a manipolare l’opinione pubblica contro la Chiesa cattolica’. ‘In quanto cattolici, noi respingiamo ogni intervento politico negli affari interni della Chiesa cattolica’, aggiunge l’inserto, che invita i fedeli a firmare una petizione di solidarietà con il Papa».


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