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Gas da scisti: USA di nuovo primi nel mondo?
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Era giugno, e Jacob Rothschild rendeva nota la decisione della sua storica famiglia di finanzieri britannici, di stabilire una «solida testa di ponte» negli Stati Uniti, stringendo alleanza con la famiglia Rockefeller. In pratica, Rothschild abbandonava l’Europa. Il motivo? Gli Stati Uniti «hanno la grandissima fortuna di quelle grandi risorse in scisti bituminosi e gas: possono diventare la nuova Arabia Saudita dei prossimi 50 anni», aveva risposto lord Jacob Rothschild (Rothschild lascia l’Europa – Il Guscio Svuotato).

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Il leggendario fiuto dei Rothschild (o le proverbiali informazioni riservate in loro possesso) ha avuto ragione ancora una volta. Il Dipartimento dell’Energia USA ha annunciato che il Paese produrrà l’anno prossimo 11,4 milioni di barili al giorno di idrocarburi liquidi quasi quanto il regno saudita. L’America dovrebbe diventare il maggior produttore di gas e greggio, compresi i bio-carburanti, nel 2014, avvicinandosi alla completa autosufficienza energetica entro il 2020. I prezzi americani del gas naturale sono un terzo di quelli europei.

Il motivo: la tecnologia di fracking, fratturazione delle rocce con acqua a pressione, che consente di estrarre gas e olio dai vastissimi giacimenti americani. Quello di Prudohe Bay Field in Alaska, quello – doppio –  del Bakken Field in Nord Dakota. Ovviamente, il prezzo è alto in termini ambientali. Ma non è cosa che preoccupa il gran business statunitense, che tiene sotto ferreo controllo l’opinione pubblica (e scheda i dissidenti come terroristi), e del resto la vastità dei territori rende meno vistosi i danni, almeno a breve.

In compenso, il drammatico calo del costo energetico sta innescando una rinascita industriale della de-industrializzata America. Interi settori dell’economia reale nazionale respirano: chimica e plastiche, alluminio e acciaio, metalli cromati, vetrerie. Ditte produttrici di macchinari, prodotti elettrici e di trasporto, che avevano delocalizzato in Cina, stanno trovando conveniente (con l’aiuto dei salari cinesi che rincarano al ritmo del 16% annuo) di ri-localizzarsi in patria. La Dow Chemicals chiude fabbriche in Spagna e Belgio, ma investe in un gigantesco impianto di propilene in Texas, dove i costi del gas naturale sono una frazione dei prezzi mondiali.

Propilene ed etano sono le materie prime per fabbricare polimeri; l’etano in USA costa ora il 70% in meno rispetto al 2008. Dunque la Exxon e la Westlake Chemical stanno aprendo impianti di etano in America. Anche la Shell – l’anglo-olandese Royal Dutch Shell – progetta di aprire un impianto di etano vicino a Pittsburg, nella zona delle acciaierie decotte – Rust Belt, fascia della ruggine – della contea di Beaver. Nel complesso, il nuovo impulso da energia a basso costo suscita rosee speranze americane di uscire durevolmente dalla recessione, e di tornare a crescere «più» del suo titanico debito pubblico, onde a poco a poco riassorbirlo. Secondo una valutazione di Citigroup, gli effetti moltiplicatori dello sfruttamento degli scisti porteranno entro il 2020 alla creazione di 3,6 milioni di posti di lavoro in più. Con le sabbie bituminose del vicino Canada e i giacimenti in profondità del Messico, il Nord-America nel suo complesso giungerà per quella data a produrre 27 milioni di barili al giorno.

Ancor più fondamentali le conseguenze politiche di questa nuovo primato americano. L’America non avrà più bisogno di fornirsi di greggio dal Medio Oriente. Un vero Nuovo Ordine Mondiale si profila, come spiega Ambrose Evans-Pritchard. Il duro compito di mantenere rapporti con un mondo islamico destabilizzato e in turbolenza demografica, cadrà esclusivamente sull’Europa. Occupatissima, in questa fase storica, a darsi zappate sui piedi, rimpicciolire la propria base industriale e a ridursi a entità négligeable in una depressione permanente per obbedire ai programmi di austerità dettati da Berlino e dalla Banca Centrale Europea.

Per non parlare dei diktat demenziali dell’ideologia verde, adottata dagli eurocrati con stolida idiozia: il programma «20-20-20» ne è un esempio preclaro. È l’obbligo, imposto dalla UE a tutti i Paesi che ha asservito, di ridurre del 20% le emissioni-serra ed aumentare del 20% la quota di energie rinnovabili nel proprio consumo energetico, entro il 2020. È fattibile? Gli eurocrati non se lo sono chiesto; probabilmente gli piaceva il suono di quel «20-20-20», e tanto gli bastava. La Germania ha voluto superare in zelo i tecno-cretini eurocratici (là, si sa, i Verdi sono fortissimi) e proclama di voler far salire entro il 2020 la quota di energia rinnovabile non del 20%, ma del 35%. Ciò al costo di 200 miliardi di euro – la stessa cifra che la Germania si rifiuta di contribuire a trasferire ai Paesi europei in difficoltà. È circa l’8% del suo PIL, una cifra ridicolmente impossibile. Ma la Germania, per diventare il Paese più energeticamente verde nel mondo, pare disposta a spendere 600 miliardi per il 2025 o giù di lì. Qui, la celebre pianificazione tedesca ha ceduto al sogno.

«Non è un programma, è una religione», ha detto ad Evans Pritchard un politico tedesco che però non ha voluto essere nominato. È spaventatissimo comunque, il Paese è già a rischio di improvvisi black-out. Il più grande e potente complesso industriale europeo come potrà funzionare con «rinnovabili»? (Europe left behind as shale shock drives America’s industrial resurgence)

E si tenga presente che, dal 2022, intende chiudere tutte le sue centrali atomiche. Per sostituirle con cosa? Vento e maree? Gli industriali tedeschi sono preoccupatissimi: la celebrata competitività tedesca, ottenuta a forza di limatura sul costo del lavoro, rischia di essere volatilizzata dal costo energetico in crescita. «Non abbiamo un piano realistico per sostituire l’energia nucleare. I costi dell’elettricità sono altissimi, e già tutti si lamentano», dice Volker Treier, della Camera Industriale Tedesca. La BASF ha già fatto sapere che è diventato impossibile tener testa ai prezzi energetici degli USA.

La Francia si tiene le sue centrali nucleari. È uno dei pochi Paesi europei con giacimenti bituminosi, ma Hollande ha vietato positivamente il loro sfruttamento (deve dire qualcosa di sinistra).

L’Italia non ha nulla, infuria il movimento «no-fracking» e «no-trivelle», ed ha proclamato il suo «no» eterno all’energia nucleare. L’Europa dovrà pietire il greggio dal Medio Oriente in fiamme, in competizione per di più con Cina (le cui importazioni di greggio crescono annualmente di mezzo miliardo di barili al giorno) e il Giappone, che da quando ha dovuto rinunciare al nucleare per il disastro di Fukushima, sta prosciugando tutto il mercato del gas liquido (GPL), la cui importazione richiede trasporti a 116 gradi sottozero, tanks al molibdeno e complesse tecnologie di rigassificazione. E nonostante tutto, gli eurocrati – obbedendo a Sion – hanno rotto i rapporti con l’Iran.

All’Europa resta una cosa: il gas e petrolio russo, da cui è già fortemente dipendente. La Germania importa il 36% del suo gas da Gazprom. Avvicinandosi alla fortissima dipendenza di Polonia (48%) Ungheria (60%) e Paesi baltici (100%): una dipendenza che è un destino. Addio sogni di autonomia, addio altezzose lezioni di democrazia a Mosca. Ne siamo, comunque vada, satelliti energetici. E dunque, satelliti politici. Abbiamo valutato le conseguenze politiche di questa dipendenza che sarà permanente, anche dopo Putin? Macché.

I politici e gli eurocrati europei passeranno alla storia come la classe più stupida dell’epoca loro. Che (cito Evans-Pritchard) «ha speso un decennio ad azzuffarsi su trattati che nessuno vuole, a riparare senza fine strutture istituzionali non funzionanti, e a tenere 22 'vertici' per salvare l’euro», dimenticando di affrontare lo svantaggio energetico, e forse il collasso energetico, prossimo venturo. E continuano: «I Paesi europei devono cedere sovranità», ha ripetuto strafottente Mario Draghi, aggiungendo sprezzante: «Non hanno ancora capito che la sovranità l’hanno già perduta, perché avendo fatto troppi debiti, dipendono dal benvolere dei mercati». Il che ci fa capire che Draghi, Monti, e coloro per conto dei quali governano, continuano come niente fosse ad applicare il programma dettato una volta per tutte da Jean Monnet, oltre 60 anni fa. Contenti della crisi, l’hanno aggravata perché nel dettato di Monnet c’è scritto: approfittare di ogni crisi sistemica per giungere alla federazione europea, con le sovranità nazionali cancellate a favore di una burocrazia non-eletta.

Draghi mente: la nostra dipendenza dai mercati nasce dall’euro, e basterebbe riprendersi la sovranità monetaria per farne cessare gli attacchi (vedi l’esempio di Giappone ed USA). A Draghi e Monti nessuno ha mai chiesto: ma insomma, in che modo «più Europa», il federalismo compiuto, risolverebbe i problemi del declino e perdita di competitività dei Paesi marginali della zona euro? Non lo spiegano, perché non c’è risposta. È una «soluzione fuori tema», come ha scritto l’economista francese Jacques Sapir (Zone Euro: sous les discours lénifiants la crise continue de se développer).

Il federalismo che sognano richiede la messa in comune dei debiti: ossia, per la Germania, trasferire permanentemente un 200 miliardi annui ai PIIGS insieme coi Paesi «virtuosi» del Nord, cioè dal 4% all’8% del suo PIL. Mettere in comune il suo debito pubblico con quello fatto dai Fiorito, dalla Polverini e dai Lombardo: già solo evocare questo, dice l’impossibilità. Berlino sta cercando di prendere tempo, non vuole pagare il conto del federalismo, ma nemmeno passare alla storia come la capitale che ha spaccato l’Europa. È un esempio della stupidità politica più fondamentale. L’indecisionismo, la mancanza di idee più assoluta.

Epilogo in tema sulla Sicilia. Il Movimento 5 Stelle ha una forte impronta «verde» ed oniricamente «pulita». Energeticamente, è alternativo. Ora, il suo candidato ha guadagnato in Sicilia un sacco di voti, e dunque di seggi. È un trionfo molto pericoloso per idee di piccolo cabotaggio, come «no ai termovalorizzatori», «energie alternative», taglio degli stipendi dei consiglieri siculi a 2.500 euro (ne prendono 17 mila), «nessuna alleanza con nessuno» et similia.

Sono idee e proposte da minoranza marginale, non più adatte per un terzo partito col 14%, che a livello nazionale può andare al 25%, e dunque deve avere ambizioni da classe dirigente. Quello che deve porre il Movimento di Grillo, è la riforma totale della Regione, come minimo che venga spogliata della sua autonomia speciale, come preludio alla riforma profonda dello Stato italiano, e magari ponendo la questione dell’uscita dall’euro e del recupero della sovranità. «Energie pulite» è bello, l’angelismo delle facce nuove con la fedina penale immacolata è oniricamente ben intenzionato, ma non è un programma politico. Non è la risposta urgente che occorre in questo momento di crisi estrema.

Lo dico, perché vorrei votare Grillo alle elezioni nazionali; non vorrei che il suo movimento, deludendo in Sicilia, arrivasse alle politiche già svaporato – come la Lega, come il PdL, altri che non hanno capito «il momento» e non hanno saputo afferrarlo.

Cogliere il kairos, il momento opportuno che non si ripresenterà, è ciò che distingue il buon politico dal coglione. E di coglioni che ingombrano la scena politica con le loro velleità, ne abbiamo già troppi.



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