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Gnocchi e Palmaro, quelli che… il Papa lo amano davvero
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Due premesse, per evitare equivoci. Primo: non ho creato io l’Universo e nemmeno la Chiesa, dunque certamente ne so meno dell’Autore di entrambi. Secondo: non ho titoli particolari per dare consigli allo Spirito Santo. Mi darà poi atto il lettore di non avere detto più nulla su Papa Francesco dopo la sua elezione e lo sbigottimento iniziale, che mi colse quella sera di fronte a uno stile che mi lasciò tramortito (e sono passati quasi nove mesi, durante i quali la situazione non è certo migliorata e comincio a riprendermi un po’ solo in questi ultimi giorni). Ma lo confessai subito: la colpa era solo del mio peccato e chiedevo al nuovo Papa di confermarmi nella Fede. Poi ho taciuto. Lui no.

Ricordo bene la tirata d’orecchi che il Direttore Blodet aveva dato a tutti i tradizionalisti, sconcertati o, meglio, scandalizzati dai segni «pauperisti» del nuovo Pontefice. In realtà non sentii quel rimprovero rivolto anche a me: io non sono tradizionalista, sono cattolico. Il tradizionalista accetta di porsi sullo stesso piano del modernista e dà una qualche legittimità aggiuntiva a quest’ultimo: io mi pongo semplicemente sul piano del «depositum fidei», per cui da una parte c’è la retta dottrina in cui credono i cattolici, dall’altra parte c’è la falsa dottrina in cui credono gli eretici. Tertium non datur. Stare dalla parte della Tradizione significa semplicemente essere cattolico, perché la Fede non è «cosa nostra», la Fede ci è stata trasmessa. Gli «ismi» sono già una concessione all’eresia. Spiego con un esempio: definire la Fraternità San Pio X «lefebvriana» o tradizionalista, significa fare loro un torto, cioè includerla nel novero di coloro che debbono essere vagliati nella loro Fede. La Fraternità San Pio X è semplicemente cattolica, «il di più viene dal demonio».

Tornando al tema, dopo la reprimenda del Direttore, mi sono astenuto anche per non essere confuso: di Papa Francesco non mi ha scandalizzato, semmai un po’ fatto teneramente sorridere, che Egli abbia deciso di rinunciare alla mozzetta, alla croce, all’anello piscatorio in oro, alle scarpe rosse ed agli altri segni di una sovranità «rinascimentale»… che per il suo viaggio in Brasile si sia portato da solo la borsa nera, anzi che affidarla al Segretario, costituisce una notizia solo per cronisti feticisti… che Papa Francesco abbia scelto al posto della papamobile una «Fiat Idea», con cui fendere la folla, è solo una conferma che dalle belle macchine non è affascinato (la sua scorta forse ha passato qualche attimo di panico, e questa è un’imprudenza che il Pontefice poteva forse loro risparmiare). Non è una notizia neppure che egli abbia deciso di andare al Quirinale non su una delle molte vetture del parco auto del Vaticano, ma su di una altra comune macchina blu, a patto che - naturalmente - non l’abbiano comperata nuova: l’auto meno costosa che puoi usare e quella che già possiedi.  Nemmeno mi scandalizza il fatto che Egli abbia deciso di continuare ad usare la sua vecchia mitria e la sua vecchia casula di quando era vescovo e cardinale a Buenos Aires: l’unica cosa che ho da ridire è che esteticamente sono davvero brutte, ma se non sbaglio ora l’ha abbandonata, senza, in verità, che il miglioramento sia granché apprezzabile.

Riguardo a queste ed altre cose secondarie me ne faccio una ragione, solo non vorrei che dietro tutto ciò ci fosse l’idea che il buono deve essere necessariamente brutto, né che il povero debba essere necessariamente dimesso, insomma l’idea che la povertà evangelica si debba coniugare con una certa «anti-estetica della modernità», come spesso capita di vedere nella nuova liturgia, nei nuovi paramenti liturgici, nella nuova musica e - con qualche eccezione - nella nuova architettura liturgica. Al contrario i poveri, quelli veri, hanno un istinto naturale per ciò che è bello, come dimostra l’estetica di certi paesini arroccati in cima alle montagne in cui accanto alla semplicità e spesso alla essenzialità delle case stanno squarci nelle medesime di armonica bellezza e Chiese, magari tirate su a moccoli, rosari e sudore, di sorprendente magnificenza.

Mi limito poi a prendere atto, senza particolari moti d’animo, che Papa Francesco decida di chiamare al telefono molte persone, illustri o sconosciute: è vero che «quanto a noi la nostra patria è in cielo» e che la Scrittura e la Liturgia ne parlino come di un banchetto celeste, ma non so se sia stato in chiave escatologica che il Papa abbia deciso di telefonare persino a Carlo Petrini, fondatore di Slow Food e di Terra Madre.

Tutto questo e molto altro appartengono però allo stile dell’uomo, al suo carattere effervescente, alla socialità spiccata del suo temperamento e finché rientrano in questo ambito – ripeto - le posso condividere o meno, mi possono più o meno piacere, ma non hanno incidenza su quella che è la dimensione della Fede. Evidentemente c’è/c’era nel cardinal Bergoglio l’idea che per ridestare la Fede occorra, e forse basti, un po’ di semplicità, che, insomma, basti rimuovere quelle che egli ritiene come incrostazioni del potere mondano, che sia sufficiente una buona parola e i cristiani torneranno all’ovile: lentamente, ma torneranno. Gli uomini come degenti di un ospedale da campo, da curare con la «medicina della misericordia».

È un po’ la stessa convinzione/illusione che si legge nella allocuzione «Gaudet Mater Ecclesia», con cui Giovanni XXIII aprì il Vaticano II:

«Aprendo il Concilio Ecumenico Vaticano II, è evidente come non mai che la verità del Signore rimane in eterno. Vediamo infatti, nel succedersi di un’età all’altra, che le incerte opinioni degli uomini si contrastano a vicenda e spesso gli errori svaniscono appena sorti, come nebbia dissipata dal sole. Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando. Non perché manchino dottrine false, opinioni, pericoli da cui premunirsi e da avversare; ma perché tutte quante contrastano così apertamente con i retti principi dell’onestà, ed hanno prodotto frutti così letali che oggi gli uomini sembrano cominciare spontaneamente a riprovarle, soprattutto quelle forme di esistenza che ignorano Dio e le sue leggi, riponendo troppa fiducia nel progressi della tecnica, fondando il benessere unicamente sulle comodità della vita. […] la Chiesa Cattolica, mentre con questo Concilio Ecumenico innalza la fiaccola della verità cattolica, vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bontà verso i figli da lei separati. All’umanità travagliata da tante difficoltà essa dice, come già Pietro a quel povero che gli aveva chiesto l’elemosina: "Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!" [8]. In altri termini, la Chiesa offre agli uomini dei nostri tempi non ricchezze caduche, né promette una felicità soltanto terrena; ma dispensa i beni della grazia soprannaturale, i quali, elevando gli uomini alla dignità di figli di Dio, sono di così valida difesa ed aiuto a rendere più umana la loro vita; apre le sorgenti della sua fecondissima dottrina, con la quale gli uomini, illuminati dalla luce di Cristo, riescono a comprendere a fondo che cosa essi realmente sono, di quale dignità sono insigniti, a quale meta devono tendere; infine, per mezzo dei suoi figli manifesta ovunque la grandezza della carità cristiana, di cui null’altro è più valido per estirpare i semi delle discordie, nulla più efficace per favorire la concordia, la giusta pace e l’unione fraterna di tutti.

Dopo gli scandali di curia, che hanno certamente raffreddato la Fede di molti e consolidato il pregiudizio anticattolico di altrettanti, c’è in questo Papa l’idea, anzi l’ansia della necessità di riprendere un contatto diretto, quasi fisico con le masse, di essere - come ebbe a dire in quel breve discorso di apertura sulla loggia di San Pietro - «vescovo e popolo, popolo e vescovo». Ciò ha fatto sì che un Papa, alla vigilia della Sua elezione incluso all’interno del gruppo dei «cardinali progressisti» e che nello scorso Conclave pare fosse il candidato proposto dal cardinal Martini, diventasse un’icona anche per una parte di coloro che a diverso titolo e in diverso modo sono talvolta, magari con approssimazione, ascritti al campo ecclesiale della «Tradizione» ed a quello politico della cosiddetta «destra».

A vario titolo quasi tutti costoro hanno sottolineato il carattere sociale del magistero di Francesco, che lo ricollegherebbe ad una Tradizione che ebbe in San Giovanni Bosco ed in Leone XIII due campioni insuperati. Vittorio Messori, a due mesi dalla sua elezione al soglio pontificio, spiegava ai lettori del Corriere della Sera che «il «cattolicesimo sociale« nasce e vigoreggia nel XIX secolo e poi nei primi decenni del XX ad opera di preti e di laici bollati dai «progressisti« come «intransigenti«, «papisti«, reazionari». L’impegno straordinario a favore di ogni miseria umana, che muove la Chiesa a partire dal pontificato di Pio IX e continua poi sino a Pio XII, contrassegna proprio i seguaci della più rigorosa ortodossia, i credenti che si professano fedeli alla più stretta obbedienza alla Gerarchia e, soprattutto, al papato. …. Mentre i governi liberali, spesso ispirati dalla massoneria, non solo poco si curano dei poveri, ma tassano loro persino il pane («il macinato«) e sequestrano i figli per anni e anni di servizio militare, mentre il nascente socialismo distribuisce parole e opuscoli, preoccupandosi più della ideologia che della miseria concreta, ecco i cattolici «papisti«, i disprezzati «clericali reazionari« scendere in campo ad aiutare di persona affamati, malati, ignoranti, abbandonati. Non solo lavorando ma alzando la voce contro tanto bisogno che i ricchi vogliono ignorare. Ebbene, Papa Francesco è tra gli eredi di questa lunga e ammirevole Tradizione di cattolicesimo detto sociale» . […] C’è un altro «marchio cattolico« che contrassegna i preti e i laici dell’impegno sociale che dicevamo: la devozione mariana. […]Anche in questo Papa Francesco mostra la sua continuità con i fratelli nella fede che hanno scalato le vette della santità sporcandosi fino in fondo le mani nei bassifondi della società : tutti, senza eccezione , sono stati ardenti fautori di quella che sempre e solo hanno chiamato «la Madonna«. […] Quanto all’inedito nome che ha voluto assumere: si è spesso dimenticato che la singolarità di Francesco - quella che non ebbero tanti altri predicatori medievali e no – è l’obbedienza docile alla Gerarchia, la venerazione per il papato, l’orrore per l’eresia. L’uomo di Assisi fu un cattolico obbediente, non un rivoltoso o anche solo un critico della Chiesa istituzionale.

Prima di lui, Marcello Veneziani, in un bell’articolo di metà marzo, ricordando la provenienza argentina del Pontefice ha attinto al proprio humus politico e culturale per spiegare l’animo «populista e giustizialista» di Papa Francesco:

«Con rispetto parlando, Papa Francesco ha inaugurato la svolta populista della Chiesa. […] Sì, magari qualcuno storcerà la bocca per l'accostamento irriverente: ma che c'entra il populismo, è una categoria politica, forse mediatica, non religiosa. Odora troppo di Grillo e Berlusconi. E invece la matrice originaria del populismo è cristiana, evangelica, francescana. Deriva dal Popolo di Dio, dall'uguaglianza delle anime davanti a Lui, dal paradiso per tutti gli uomini di buona volontà, dal primato dei poveri e dei bisognosi. Sul versante opposto c'è la visione aristocratica e selettiva della vita, del potere, della società. Non a caso i primi movimenti politici del novecento che si ispirarono alla dottrina sociale della Chiesa si chiamarono popolari. Certo il popolarismo non è il populismo, ma a volte quanto gli somiglia... Per superare la crisi della Chiesa, la scristianizzazione del mondo esterno e il degrado del suo mondo interno, si apre la scommessa populista e pauperista. Forse non basterà per rievangelizzare il mondo e risanare le piaghe della Chiesa, ma serve a rianimare la devozione popolare, sia nel povero sud del pianeta che nell'Europa ripiombata tra gli spettri della miseria. Quella è la via che vuol perseguire questo Papa «populista». O se volete una definizione più vezzosa, chiamatelo papulismo. Per carità, Papa Francesco piace davvero alla gente. È un pretone alla mano, nonostante sia gesuita, è comunicativo e gestuale, parla il linguaggio dei parroci d'una volta, esprime una fede elementare in Dio e nella Madonna, parla del Diavolo e dei poveri. Il suo linguaggio ricorda i preti dell'infanzia, le bizzoche del catechismo, ma ricorda anche la Madonna dei poveri come chiamavano in Argentina Evita Perón. Nel suo richiamo ai poveri ci sarà forse una reminiscenza della sua gioventù argentina, oltre che un ricordo dell'emigrazione dei suoi genitori».

Dopo di lui anche Franco Cardini, medievalista di mai rinnegate ascendenze «social-nazionali», sottolineava le origini e la matrice popolare della formazione dell’ex arcivescovo di Buenos Aires: «Il mite Bergoglio, in realtà, è un duro: nel suo paese lo sapevano bene. Forse non è sfuggito proprio a tutti quelli che l’8 luglio hanno seguito la «diretta» di RAI 1 che, all’arrivo del Papa, una voce scandiva da un altoparlante, in perfetto italiano ma forse con una lontana inflessione iberica, lo slogan «Si sente, si sente, il Papa è qui presente!». Può darsi che agli italiani che non sanno nulla dell’Argentina quella frase sia apparsa «innocente». Ma quanti della nostra sorella latinoamericana conoscono viceversa qualcosa avranno senza dubbio colto l’allusione: così, l’8 luglio 2013, si è salutato l’arrivo di quell’argentino oriundo piemontese, esattamente con lo stesso slogan con il quale, nel 1974, la folla di Buenos Aires aveva accompagnato all’estrema dimora un altro argentino d’Italia, l’oriundo veneto Juan Domingo Perón: Se siente, se siente, Perón está presente!».

Analoga chiave di lettura viene offerta in un primo tempo dal direttore Blondet, quando scrive:

«Jorge Maria Bergoglio è un peronista. Come tanti sudamericani e tutti gli argentini di destra o sinistra non importa, è intriso della mentalità e degli stili impressi dalla lunga, cordiale dittatura di Jean Domingo Peròn e dalla sua adorata consorte, Evita, oggetto di indiscussa iperdulìa. Peròn, cattolicissimo, vinse le sue prime elezioni con lo slogan «Dios, Patria y justicia Social»; la sua idea di economia era ispirata alla dottrina sociale della Chiesa, e «caratterizzate da una forte critica al capitalismo e alle sue strutture d’ingiustizia, sfruttamento e oppressione sociale, senza per questo cadere in derive comuniste»: stesse idee ancor oggi nutrite e praticate da Bergoglio. Da studente si fece punire per essere andato in classe con il distintivo peronista in vista; da giovane prete, divenne padre spirituale della formazione peronista Guardia de Hierro, fautrice di una terza via tra le due violenze peroniste, filocomunista-montoneros e destrista Tripla A – già, perché il peronismo in Argentina è «tutto», un mistico tutto che comprende Evita e la giustizia sociale come sogno, e mantiene e contiene il nero e il rosso... e l’anti-americanismo, l’anticapitalismo come tratto comune. Già. Provate a vedere Bergoglio in chiave peronista, e tutto diventa più chiaro: la sua informalità e il suo autoritarismo cordiale e paternalista, la sua «modernità» apparente unita a vera fede senza rispetti umani. Peronismo è stato il suo primo gesto di richiesta di benedizione: gesto – come insuperabilmente sottolinea Andrae Virga – «di un capo carismatico che, con l’appoggio delle masse, intende rovesciare le vecchie élites ramificate, in favore di una struttura di potere più piramidale». Si capiscono e condonano anche certi suoi pressapochismi e ineleganze plebee: in ogni peronista cova una simpatia caratteriale per i descamisados. In questo, rincresce riconoscerlo, è ovvio che uno come lui, che ha passato la vita nella specialissima esperienza argentina, non ha alcuna particolare simpatia per i fautori della Messa in latino, fra cui mi pongo. […] Per un sudamericano cattolico, la richiesta della Messa in latino evoca i generali liberisti e filo-amnericani, la Tripla A; evoca il «dottor Plinio» Correa De Oliveira, la sua Tradiçao Familia Propriedad che – pur con tutti i suoi meriti di banditrice della «dottrina contro-rivoluzionaria» – sul piano sociologico, economico e politico, in Latino America è strumento delle classi possidenti, latifondiste, subalterne agli interessi delle multinazionali Usa, e feroci protettrici dei propri privilegi».

Considerazioni non dissimili quelle di Luigi Copertino:

«Che Papa Francesco possa suscitare perplessità per la sensibilità di certi cattolici non abituati al «fuoco» del Cattolicesimo latino-americano, così popolare, così mariano, così missionario, così «ispanico», è evidente. Perplessità le ha, inizialmente, suscitate anche nello scrivente, benché per cose di secondo piano. …Perplessità che tuttavia sono state poi dissipate. Un po’ alla volta si fece più chiaro quale fosse il pensiero di Papa Bergoglio. Sul tema della «Chiesa povera», per restare in argomento. Se inizialmente sembrò un richiamo «pauperistico» e perciò utopistico, in realtà – forse alcuni hanno iniziato a capirlo solo in questi giorni della sua visita ad Assisi dove ha distinto tra «mondanità» perenne tentazione per la Chiesa ed uso dei beni materiali – Papa Francesco non ha mai invocato lo smantellamento dei beni ecclesiastici. Egli invece va invocando la povertà ecclesiale ossia quella dei membri della Chiesa e soprattutto della gerarchia. Le ricchezze della Chiesa, infatti, sono, insieme ai mezzi per mandare avanti le innumerevoli iniziative di carità per «sfamare gli affamati, dissetare gli assetati, vestire gli ignudi», le chiese, le abbazie, le opere d'arte: tutto quel che nei secoli di grande e di bello la Chiesa ci ha donato. Sono i sacerdoti e gli abati (e i laici) a dover praticare la povertà personale, per dare esempio, anche quando, e soprattutto se, sono al tempo stesso detentori di beni templari, liturgici ed artistici. I quali, del resto, – questo è il punto – non sono cose loro ma di Dio ed al servizio della Gloria di Dio. Nella Chiesa, Maestosità ed Umiltà di Dio si danno sempre congiuntamente, mai contraddittoriamente. Detto questo però bisogna aggiungere che se lo stracciarsi le vesti viene (è il caso anche di molti cattolici) da chi confonde tradizionalismo e liberismo, da chi mette insieme fede e capitalismo, Dio e globalizzazione finanziaria, ben venga, allora, una scossa come quella che Papa Bergoglio sta dando alla Chiesa: se non altro per ricordare, a coloro che confondono Tradizione e conservazione delle iniquità sociali, che nel XIX secolo, e per buona parte del XX, i cattolici intransigenti erano su posizioni anti-liberali, in politica, ed anti-liberiste, in economia, e non solo, dunque, anticomuniste. Don Bosco faceva il prete sindacalista, certo in modo squisitamente cristiano, per tutelare i suoi ragazzi quando li affidava come apprendisti a qualche imprenditore nella Torino della borghesia liberale ed affaristica di Cavour e soci. Il mondo, oggi, si sta nuovamente riempiendo di tante e tanto grandi ingiustizie sociali, persino nelle nostre contrade dove credevamo di averle definitivamente superate. Sicché se a difendere i poveri, i disoccupati, i lavoratori, i padri e le madri di famiglia che non riescono più a sfamare o assicurare un futuro ai figli, perché la finanza apolide e globale così ha deciso, rimane solo il Papa, come già fu nel XIX secolo, la Chiesa non solo ne guadagnerà di immagine ma dimostrerà quel che Essa è sempre stata ossia l’unica vera Madre protettrice della povera gente. Lo scrivente non è scandalizzato affatto da tutto questo, anzi è ancor più orgogliosamente cristiano e non può che gioire se tanto fariseismo e moralismo ipocrita vengono messi a nudo anche fra i cristiani.

Sono argomentazioni, queste, con cui per un verso non si può che concordare: la necessaria opzione preferenziale per i poveri da parte della Chiesa ha radici profonde, medievali e diventa «programma politico» proprio nella Modernità. La Chiesa del secolo XIX propone una critica radicale alle ideologie della modernità a partire da quella liberale, liberista, libertaria ed è sulla base delle identiche premesse materialistiche liberali che essa contesta la falsa emancipazione sociale proposta dalle ideologie socialiste ed è in base a questa medesima critica che essa condanna il modernismo, come forma di infiltrazione teologica all’interno del pensiero cattolico delle idee liberali. In effetti occorre riconoscere con soddisfazione e ammirazione quanto il Papa ha detto nella recentissima esortazione apostolica «Evangelii Gaudium». Vi sono in questo documento autentiche staffilate nei confronti del primato dell’economia e della bruttezza e tristezza che esso ingenera nella vita degli uomini e della società. Sono passi che, oltre a scaldare il cuore dei credenti, pongono il papato in questo momento come autorità politica (e non solo morale!) in grado di opporsi al demoniaco sistema di potere globalizzante in atto ed in grado non lasciare all’Islam il monopolio della resistenza al processo di globalizzazione occidentalista.

Riportiamo a beneficio del lettore qualche stralcio della critica a tratti persino feroce che Francesco I indirizza al nuovo ordine mondiale, basato sulla finanza, sullo sfruttamento, sulla iniquità (anzi sulla inequità, come più volte, magari per un refuso voluto, è scritto nel documento), sulla illusione e - al contrario di ciò che ci viene ripetuto sui giornali moderati e progressisti dei salotti buoni e di quelli meno buoni - sulla reale incapacità che «la mano invisibile del mercato» lasciata a se stessa ha di generare un reale progresso e di realizzare davvero il bene comune:

«L’umanità vive in questo momento una svolta storica che possiamo vedere nei progressi che si producono in diversi campi. Si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito della salute, dell’educazione e della comunicazione. Non possiamo tuttavia dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore e la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza, l’iniquità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità. Questo cambiamento epocale è stato causato dai balzi enormi che, per qualità, quantità, velocità e accumulazione, si verificano nel progresso scientifico, nelle innovazioni tecnologiche e nelle loro rapide applicazioni in diversi ambiti della natura e della vita. Siamo nell’era della conoscenza e dell’informazione, fonte di nuove forme di un potere molto spesso anonimo […] Così come il comandamento «non uccidere» pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire «no a un’economia dell’esclusione e della iniquità». Questa economia uccide… oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello «scarto» che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono «sfruttati» ma rifiuti, «avanzi». In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della «ricaduta favorevole», che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante […] Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il denaro, poiché accettiamo pacificamente il suo predomino su di noi e sulle nostre società. La crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano! […] Mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole. Inoltre, il debito e i suoi interessi allontanano i Paesi dalle possibilità praticabili della loro economia e i cittadini dal loro reale potere d’acquisto. A tutto ciò si aggiunge una corruzione ramificata e un’evasione fiscale egoista, che hanno assunto dimensioni mondiali. La brama del potere e dell’avere non conosce limiti. In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta… Dietro questo atteggiamento si nascondono il rifiuto dell’etica e il rifiuto di Dio… In tal senso, esorto gli esperti finanziari e i governanti dei vari Paesi a considerare le parole di un saggio dell’antichità: « Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro »…  Una riforma finanziaria che non ignori l’etica richiederebbe un vigoroso cambio di atteggiamento da parte dei dirigenti politici, che esorto ad affrontare questa sfida con determinazione e con lungimiranza, senza ignorare, naturalmente, la specificità di ogni contesto. Il denaro deve servire e non governare! Il Papa ama tutti, ricchi e poveri, ma ha l’obbligo, in nome di Cristo, di ricordare che i ricchi devono aiutare i poveri, rispettarli e promuoverli. Vi esorto alla solidarietà disinteressata e ad un ritorno dell’economia e della finanza ad un’etica in favore dell’essere umano… Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’iniquità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. … la disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti. Alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una «educazione» che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi. Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni – qualunque sia l’ideologia politica dei governanti».

E tuttavia, come ha ben notato il direttore Blondet, è come se a fianco di questo Papa, o dentro di lui, ve ne fosse un altro, uno che con questa Tradizione ha poco a che fare, uno non tanto giustizialista, ma quasi giacobino, uno non buono, ma buonista, una specie di «doppio» che in taluni casi prevale: sempre in taluni circostanze sembra esserci, a fianco di quella umile, semplice e spontanea, una personalità estetizzante, provocatoria, talvolta al limite del narcisismo, spregiudicata e al contempo intellettualmente fragile, culturalmente ambigua, teologicamente contraddittoria. È come se l’altra faccia di Francesco I sia quella di Narciso-Vanesio I. Ed è questa l’immagine che il potere preferisce e propaganda.

È il Pontefice che sembra elogiare il primato della coscienza sulla verità, quello che condanna il proselitismo, quello secondo cui «la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile», quello che entusiasma il pensiero laicista, che esalta i teologi progressisti e modernisti, che scatena tutti i novatori temporaneamente sedati dal breve pontificato di Benedetto XVI. C’è chi invoca un Vaticano III, chi pensa che sia già iniziato con la «teologia della prassi» del nuovo Pontefice, che sia in atto una sorta di concilio permanente secondo il desiderio del cardinal Martini in questa specie di «primo pontificato in streaming».

Talune affermazioni del Pontefice hanno lasciato tutti sconcertati, persino coloro che le condividono, al punto che Eugenio Scalfari nella puntata di «Otto e mezzo» del 16 settembre - cito testualmente - gongola:

«Quello che mi ha colpito di più sono due cose: […]il Papa dice che la verità non è assoluta, ma una verità di relazione: cioè i cattolici giudicano dal loro punto di vista… quelli che hanno fede… ma, nel quadro della fede però il loro giudizio è dal loro punto di vista. Parliamo del rapporto fede-ragione che è uno dei cardini dell’architettura religiosa. Questa è una cosa. La cosa importante che lui dice è che i non credenti debbono obbedire alla propria coscienza e questa è la sfida dei non credenti. Loro non hanno una verità rivelata perché non credono. Lei è un non credente? - gli domanda Lilli Gruber. Risponde Scalfari: «Io sono un non credente. Non solo sono un non credente, ma non cerco Dio, no non cerco Dio…. so che la nostra mente non arriva a darsi ragione dell’esistenza di una trascendenza e quindi la nostra mente ha il pensiero di Dio, ma non lo configura. […] Allora papa Francesco accetta che la verità anche per i credenti è sempre una verità in relazione al loro giudizio. Per i non credenti la verità è la propria coscienza e quindi l’autonomia. E quindi se il suo predecessore disse che il relativismo era il nemico principale della fede, lui non dice questo, dice l’incontrario. Questo è quindi uno degli aspetti principali. L’altro degli aspetti principali è quando lui risponde a una mia domanda: quando la nostra specie finirà non ci sarà più nessuno in grado di pensare Dio e quindi Dio sarà morto. Allora lui dice: Dio è una realtà (è ovvio è il Papa ci mancherebbe pure …!). Quando la nostra specie finirà, perché effimera, a quel punto la luce di Dio entrerà tutta in tutti --- dice esattamente così: entra tutta in tutti, il che vuol dire che Dio diventa non più trascendente ma immanente, cosa che probabilmente sfugge a chi non segue bene queste cose, ma il Papa dice che alla fine dei tempi la luce, perché Dio è luce, la luce di Dio entra tutta in tutti: vuol dire che Dio si identifica con le anime, tutta in tutti e questa è l’immanenza, non è più la trascendenza».

Con buona pace di tutti i «normalisti», l’ermeneutica di Scalfari è fondata ed è parso ad un certo momento davvero che, per dirla con il Catechismo della Chiesa cattolica si stesse realizzando «la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell'apostasia dalla verità».

Confortata dal nuovo corso, la «Chiesa della misericordia», da Francesco I evocata a più riprese, pure - ne sono sicuro - contro il suo intendimento, si mostra da subito attraverso i suoi «funzionari ecclesiastici» di una ferocia implacabile (la vicenda dei francescani dell’Immacolata è un’autentica vergogna!) e trova subito zelanti interpreti «a teologia variabile» più papisti del Papa (è la triste sorte toccata a Palmaro e Gnocchi). Ovunque si respira, a partire dalle parrocchie, un’aria da resa dei conti finale contro tutti coloro che, in ambito ecclesiale, partendo dalla Tradizione, si sono resi protagonisti e interpreti di una forma di «critico amore» verso tutte le ambiguità che negli ultimi cinquant’anni hanno portato troppo spesso alla perdita del cuore della fede.

Questo clima plumbeo si è accompagnato nei mesi scorsi ad un conformismo codino, che ha impedito a chi ne è stato interprete persino di chiamare le cose col loro nome, sicché per tutti costoro le contraddizioni del Papa (rilevate testualmente dallo stesso Scalfari) non esisterebbero, le ambiguità sarebbero stati solo fraintendimenti del suo autentico pensiero, come se l’infallibilità papale garantisca il magistero persino via Twitter, quasi che il cinguettio digitale non sia quello di un social network, ma quello della colomba dello Spirito Santo.

Per fortuna, improvvisamente, tra il coro degli osanna e le adulazioni dei «cortigiani della nuova curia anticuriale», mentre «fior di monsignori paraculo» tentano subito di rifarsi una verginità ed una credibilità, persino acquistando vecchie auto per ostentare farisaicamente una improbabile sobrietà capace di conformarsi al nuovo «corso bergogliano», si è levata solitaria, innocente, rivoluzionaria, infantile e perciò evangelicamente vera e «scandalosa» la voce di chi (Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro), evidentemente il Papa lo amano davvero. Avere il coraggio da soli e «a mani nude» di dire, anzi di scrivere «Questo Papa non ci piace» e di farlo non a difesa di interessi di bottega, di politica ecclesiale, di lobbies teologiche, ma proprio a difesa del Papa e della Verità della Chiesa, dimostra che ci si può arrabbiare e ci si arrabbia davvero solo per amore.

È stata la voce che ha rotto un silenzio cupo e ipocrita, è stata una voce simile a quella del bambino della favola della «Re nudo», è stato lo scandalo di chi ha gridato il suo dolore per tutto ciò che non capisce e per tutto ciò che lo ha ferito, senza infingimenti o perplessità, senza circolocuzioni, senza ipocrisie, senza paludamenti curiali, senza sottigliezze clericali, senza astuzie intellettuali, col coraggio del cuore puro, col linguaggio evangelico del «sì sì, no no».

E infatti hanno evangelicamente pagato subito, senza neanche preavviso: licenziati in tronco da radio Maria, il cui direttore, se possibile, ha dimostrato ancora una volta come le radici dorotee, cioè democristiane, siano talvolta ben più profonde delle tanto sbandierate radici cristiane. Non bastasse i due (Gnocchi e Palmaro , intendo!) sono stati subissati da critiche di vaticanisti di professione, pronti ad estrarre il cartellino giallo e persino quello rosso, nella veste per qualcuno inedita di «zuavo pontificio». Intorno a loro un silenzio assordante e un vuoto pieno di timor panico, a fugare anche solo il sospetto di connivenza con i due reprobi.

Peccato che da qualche tempo a questa parte sia stato lo stesso Papa Francesco a rendersi conto di averle talvolta sparate un po’ grosse: può darsi sia stato lo stesso Benedetto XVI ad invitarlo ad una maggiore prudenza, può darsi sia stato qualcuno dei suoi collaboratori a fargli notare che il suo pensiero era stato equivocato in qualche caso era proprio erroneo. Si dice che siano state anche le critiche appassionate e sincere di Gnocchi e Palmaro (cui il Papa ha telefonato per informarsi del suo stato di salute) a farlo riflettere. Ipotesi non confermate: certo è che le molte preghiere che accompagnano questo Pontificato, tra cui di certo quelle intense di tutti coloro che credono nella Chiesa di sempre, non possono che aver aiutato a far capire al Papa la necessità di confermare nella Fede e di confermare la Fede, della quale egli non è padrone, ma depositario.

Dicevamo di un «qualche» cambio di direzione, di puntualizzazioni, di precisazioni: segno che, alla faccia di tutti i normalisti che oggi dicono «avete visto, avevamo ragione noi, ve l’avevamo detto che il pensiero del Papa era in realtà in linea con la dottrina della Chiesa», qualche cosa di storto c’era. E dunque erano Gnocchi e Palmaro ad aver visto giusto, era loro la ragione per aver lanciato l’allarme. Se non ci fosse stato equivoco, non ci sarebbe stato bisogno di chiarimento: invece l’equivoco c’è stato (eccome se c’è stato!), tanto che da parte vaticana si è riconosciuto esserci stati - cito testualmente - «qualche equivoco, un errore o imprecisione» e infine una critica allo «spirito di mondanità che ci porta a questa voglia di essere progressisti, al pensiero unico».  È stato Sandro Magister ad informarci di almeno quattro episodi che starebbero a indicare un cambio di direzione nella predicazione del Pontefice e nella strategia comunicativa di «oltre Tevere».

Partiamo dal ritiro - in data 15 novembre - della trascrizione del colloquio tra Eugenio Scalfari ed il Papa dal sito del Vaticano, con la motivazione ufficiale che «c’era qualche equivoco e dibattito sul suo valore» Segue la lettera inviata a monsignor Marchetto a proposito della interpretazione del concilio Vaticano II (ricordiamo che monsignor Marchetto è stato il primo a dare il via ad una lettura critica del concilio Vaticano II, in opposizione a quella celebrativa e tutta apologetica proposta dalla «scuola di Bologna» di Alberigo e Melloni). Con questa lettera Papa Francesco corregge per sua esplicita ammissione l’ intervista da lui rilasciata a "La Civiltà Cattolica» ed ha voluto che questa lettera fosse letta in pubblico. Eccone il testo:

«Caro Mons. Marchetto, con queste righe desidero farmi a Lei vicino e unirmi all’atto di presentazione del libro: «Primato pontificio ed episcopato. Dal primo millennio al Concilio ecumenico Vaticano II». Le chiedo che mi senta spiritualmente presente. La tematica del libro è un omaggio all’amore che Ella porta alla Chiesa, un amore leale e al tempo stesso poetico. La lealtà e la poesia non sono oggetto di commercio: non si comprano, né si vendono, sono semplicemente virtù radicate in un cuore di figlio che sente la Chiesa come Madre; o per essere più preciso, e dirlo con »aria» ignaziana di famiglia, come «la Santa Madre Chiesa gerarchica». Questo amore Lei lo ha manifestato in molti modi, incluso correggendo un errore o imprecisione da parte mia, – e di ciò La ringrazio di cuore –, ma soprattutto si è manifestato in tutta la sua purezza negli studi fatti sul Concilio Vaticano II. Una volta Le ho detto, caro Mons. Marchetto, e oggi desidero ripeterlo, che La considero il migliore ermeneuta del Concilio Vaticano II. So che è un dono di Dio, ma so anche che Ella lo ha fatto fruttificare. Le sono grato per tutto il bene che Lei ci fa con la sua testimonianza di amore alla Chiesa e chiedo al Signore che ne sia ricompensato abbondantemente. Le chiedo per favore che non si dimentichi di pregare per me.?Che Gesù La benedica e la Vergine Santa La protegga. Fraternamente, Francesco Vaticano 7 Ottobre 2013».

Ricevendo il 31 ottobre il cardinale Darío Castrillón Hoyos, il Papa gli ha assicurato di “non avere problemi con il rito romano straordinario e con quanti lo seguono, secondo lo spirito indicato nel motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI”). Ma forse la svolta più significativa del pontificato, salvo sorprese che, dati i precedenti, sono tutt’altro che da escludersi, è venuta dalla «Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Marthae di Lunedì, 18 novembre , in cui il Papa, secondo quanto riferisce l’Osservatore Romano, se la sarebbe presa con «lo spirito del progressismo adolescente» secondo il quale, davanti a qualsiasi scelta, si pensa che sia giusto andare comunque avanti piuttosto che restare fedeli alle proprie tradizioni. Dopo aver ricordato le conseguenze per quella parte del popolo d’Israele che aveva accettato questo «pensiero unico» e si era lasciato andare a gesti sacrileghi, Papa Francesco ha sottolineato che simili atteggiamenti si riscontrano ancora «perché lo spirito della mondanità anche oggi ci porta a questa voglia di essere progressisti, al pensiero unico». Anzi: come capitava allora, quando chi era trovato in possesso del libro dell’alleanza veniva condannato a morte, succede così anche oggi in diverse parti del mondo «come abbiamo letto sui giornali in questi mesi». Negoziare la propria fedeltà a Dio è come negoziare la propria identità. E a questo proposito il Pontefice ha ricordato il libro Il padrone del mondo di Robert Hugh Benson, figlio dell’arcivescovo di Canterbury Edward White Benson, nel quale l’autore parla dello spirito del mondo e «quasi come fosse una profezia, immagina cosa accadrà. Quest’uomo, si chiamava Benson, si convertì poi al cattolicesimo e ha fatto tanto bene. Ha visto proprio quello spirito della mondanità che ci porta all’apostasia». Farà bene anche a noi, ha suggerito il Pontefice, pensare a quanto raccontato dal libro dei Maccabei, a quanto è accaduto, passo dopo passo, se decidiamo di seguire quel «progressismo adolescenziale» e fare quello che fanno tutti. E ci farà bene anche pensare a quanto è accaduto dopo, alla storia successiva alle «condanne a morte, ai sacrifici umani» che ne sono seguiti. E chiedendo «Voi pensate che oggi non si fanno sacrifici umani?», il Papa ha risposto: «Se ne fanno tanti, tanti. E ci sono delle leggi che li proteggono».

Aggiungiamo poi che, nell’Evangeli gaudium, quasi dimentico di ciò che aveva scritto a Eugenio Scalfari ed in cui, con grande soddisfazione dell’ex direttore di Repubblica, sembrava adombrare l’idea di un primato della coscienza (e quindi dell’idea che la forma) sull’essere e la realtà, Francesco scrive: «Esiste anche una tensione bipolare tra l’idea e la realtà. La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma. Da qui si desume che occorre postulare un terzo principio: la realtà è superiore all’idea […] La realtà è superiore all’idea. Questo criterio è legato all’incarnazione della Parola e alla sua messa in pratica: « In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio » (1 Gv 4,2). Il criterio di realtà, di una Parola già incarnata e che sempre cerca di incarnarsi, è essenziale all’evangelizzazione. Ci porta, da un lato, a valorizzare la storia della Chiesa come storia di salvezza, a fare memoria dei nostri santi che hanno inculturato il Vangelo nella vita dei nostri popoli, a raccogliere la ricca tradizione bimillenaria della Chiesa, senza pretendere di elaborare un pensiero disgiunto da questo tesoro, come se volessimo inventare il Vangelo. Dall’altro lato, questo criterio ci spinge a mettere in pratica la Parola, a realizzare opere di giustizia e carità nelle quali tale Parola sia feconda. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi e gnosticismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo».

Sembra dunque che lo stesso Pontefice si sia reso conto di quanto una certa frettolosa imprudenza nel comunicare possa produrre smarrimento tra i fedeli ed equivoci nei confronti di chi nella Chiesa non si riconosce, o ingiustificata arrendevolezza nei confronti dei nemici della Chiesa stessa. Ecco perché tra tutte le posizioni che sono emerse in questo periodo credo davvero che quella di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro sia stata quella più limpida, giusta e coraggiosa, giacché senza far mancare il giusto appoggio a quella sollecitudine sociale che il Papa ha mostrato da subito, essi hanno avuto il coraggio di dire al Papa le cose su cui aveva sbagliato, invitandolo implicitamente a fare attenzione alla possibili strumentalizzazione del suo pensiero e del suo agire.

Io credo che occorra su questa medesima linea continuare a pregare per il Papa, ma ritengo che occorra anche continuare ad essere con lui molto onesti, molto franchi, se davvero si intende - per il pochissimo che ognuno di noi può fare - aiutarlo a condurre la barca di Pietro.  Troppi sono i cortigiani che lo inviteranno a procedere «in avanti», che lo solleciteranno a sfidare la paura, che lo solleticheranno con l’adulazione del consenso del popolo. Per parte nostra noi chiediamo al Papa ancora e solo di confermarci nella Fede disempre, certo secondo il Suo stile, nel rispetto della Sua personalità e del suo carisma, ma secondo quanto ci è stato trasmesso. Ed al Papa vorremmo oggi fare presente che se è bastato un attimo, una frase, uno stralcio di un’intervista a far passare l’idea che il Papa stesse per accantonare la Verità e potesse entrare in contraddizione con i suoi predecessori, ci vorranno molte, molte, molte settimane perché quegli stessi mezzi di comunicazione possono invece riconoscere il contrario. In questo senso credo che le osservazioni di Gnocchi e Palmaro a proposito del rischio massmediatico debbano indurre il Papa ad avere più fiducia in chi magari «pregando, conta le preghiere» (come egli avrebbe rimproverato i «tradizionalisti» ed i seguaci della fraternità San Pio X, che al precedente Pontefice hanno recapitato un «bouquet»con centinaia di migliaia di rosari) rispetto a coloro che contano il suoi followers su Twitter.   Speriamo qualcuno avverta il Papa che, dopo le più recenti puntualizzazioni, due sono i rischi che corre il suo Pontificato: un cambio di atteggiamento da parte dei media, che dopo averlo adulato, lo sottoporranno ad un «trattamento critico» sottolineando che, dopo le promesse di apertura alla modernità dei suoi primi gesti da Pontefice, egli non sia coerente con quelle premesse e si sia fatto risucchiare all’interno di posizioni conservatrici. 

Altra possibilità è che l’enfasi circa il suo Pontificato da parte dei mass media continui, ma sia rivolta esclusivamente a tutti quegli aspetti  -magari secondari  - del Suo Magistero che appaiano come innovativi, per segnare tutte le discontinuità rispetto al passato e quindi, analogamente a ciò che è avvenuto con il concilio Vaticano II, sostituire il Pontificato reale con «la rappresentazione del Pontificato», facendo cioè dire e pensare al Papa cose che coincidono invece con le aspettative di chi le riferisce.

Sono convinto poi che da parte dei suoi adulatori della prima ora gli verrà rimproverata in un secondo momento una fragilità intellettuale, una labilità espressiva, una certa incapacità di essere coerente con le sue stesse premesse, una incapacità di tenere un discorso filosofico ad un livello adeguato, per farlo scivolare verso preoccupazioni pastorali o di voler operare quello stesso proselitismo, che egli in realtà dice di non voler praticare.

Nella migliore delle ipotesi i «salotti buoni», così impregnati di pensiero laico, lo guarderanno con una certa sufficienza, come si guarda uno che viene «dall’altra parte del mondo», da una provincia remota e arretrata dell’Impero e pretende di catturare gli animi oramai consumati di chi è abituato alla più raffinata e scettica delle speculazioni intellettuali.

Temo per il Papa che, terminata la luna di miele con questo stanco Occidente, si ripeta per lui l’amara esperienza toccata all’apostolo Paolo ad Atene e descritta nel capitolo 17 degli atti degli apostoli:

«Con lui discutevano pure alcuni filosofi epicurei, e stoici. Alcuni dicevano: "Che vuol dire questo cianciatore?". E gli altri: "Egli pare essere un annunziatore di divinità straniere", perché annunziava loro Gesù e la risurrezione. Così lo presero e lo condussero nell'Areopago, dicendo: "Potremmo sapere qual è questa nuova dottrina che tu proponi? Poiché tu rechi cose strane ai nostri orecchi, vogliamo dunque sapere che cosa significano queste cose". Or tutti gli Ateniesi e i forestieri che dimoravano in quella città non avevano passatempo migliore che quello di dire o ascoltare qualche novità. Allora Paolo, stando in piedi in mezzo all'Areopago, disse: "Ateniesi, io vi trovo in ogni cosa fin troppo religiosi. Poiché, passando in rassegna e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: AL DIO SCONOSCIUTO. Quello dunque che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi fatti da mani d'uomo, e non è servito dalle mani di uomini come se avesse bisogno di qualcosa, essendo lui che dà a tutti la vita, il fiato e ogni cosa; or egli ha tratto da uno solo tutte le stirpi degli uomini, perché abitassero sopra tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche prestabilite e i confini della loro abitazione, affinché cercassero il Signore, se mai riuscissero a trovarlo come a tastoni, benché egli non sia lontano da ognuno di noi. Poiché in lui viviamo, ci muoviamo e siamo, come persino alcuni dei vostri poeti hanno detto: "Poiché siamo anche sua progenie". Essendo dunque noi progenie di Dio, non dobbiamo stimare che la deità sia simile all'oro o all'argento o alla pietra o alla scultura d'arte e d'invenzione umana. Ma ora, passando sopra ai tempi dell'ignoranza, Dio comanda a tutti gli uomini e dappertutto che si ravvedano. Poiché egli ha stabilito un giorno in cui giudicherà il mondo con giustizia, per mezzo di quell'uomo che egli ha stabilito; e ne ha dato prova a tutti, risuscitandolo dai morti". Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo beffavano, altri dicevano: "Su questo argomento ti ascolteremo un'altra volta". Così Paolo uscì di mezzo a loro».

In questa medesima strategia di «manipolazione» del Papato infine il pericolo è che le forti prese di posizione di Francesco I in ambito politico e sociale siano contrabbandate in maniera tale da avvalorare - Suo malgrado - l’immagine di un «Papa comunista», quindi automaticamente di un «Papa progressista e modernista», laddove invece egli sembra riprendere e attualizzare la dottrina sociale della Chiesa.

Di qui l’importanza che egli tenga conto delle osservazioni di chi si esprime criticamente nei confronti delle sue prese di posizione «filosofiche» e «teologiche». Ove egli in questo ambito non si attenga nella sostanza a quello che è l’insegnamento tradizionale della Chiesa e non usi le evangeliche «astuzia e prudenza», rischierà di trovarsi a veder demolito alla sera ciò che ha costruito alla mattina e di veder vanificato anche il suo sforzo di riaffermare la Giustizia, ove essa non si accompagni ad un identico sforzo di riaffermare la Verità tutta intera.

Non saranno mesi facili quelli che attendono il Papa, ma a Lui ricordiamo che i cattolici fedeli alla dottrina trasmessaci dalla Tradizione sono certo un po’ di irruenti e magari «ruvidi», ma che gli vogliono bene e gliene vogliono anche, anzi, ancor di più quando li sente protestare, così come vogliono bene alla Chiesa, al di fuori della quale non riuscirebbero a vivere. Al Papa auguriamo di avere al suo fianco molti collaboratori che, amandolo, abbiano sempre il coraggio di esprimere il loro pensiero, piuttosto che nuovi cortigiani disposti ad assecondarlo «a prescindere», costringendolo poi magari a imbarazzanti retromarce o puntualizzazioni postume.

Per concludere invece sulla vicenda Gnocchi-Palmaro, una riflessione per padre Livio Fanzaga.

Dato che la radio che egli dirige è la radio che più di ogni altra fa eco alle presunte apparizioni di Medjugorje, padre Livio, che su questo fenomeno ha preso una posizione non certo in linea con quella ufficiale della Chiesa (la quale, ricordiamolo, al momento afferma che il fenomeno non consta di soprannaturalità), dovrebbe trarre con coerente lucidità verso se stesso le stesse conclusioni che ha tratto per i due presunti «ribelli» al Papa, visto che proprio Papa Francesco ha di recente pronunciato, riguardo a simili presunti fenomeni soprannaturali, queste testuali parole: «La curiosità ci spinge a voler sentire che il Signore è qua oppure è là; o ci fa dire: "Ma io conosco un veggente, una veggente, che riceve lettere della Madonna, messaggi dalla Madonna". E il Papa commenta: "Ma, guardi, la Madonna è Madre, eh! E ci ama a tutti noi. Ma non è un capoufficio della Posta, per inviare messaggi tutti i giorni". "Queste novità allontanano dal Vangelo, allontanano dallo Spirito Santo, allontanano dalla pace e dalla sapienza, dalla gloria di Dio, dalla bellezza di Dio". Perché "Gesù dice che il Regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione: viene nella saggezza". "Il Regno di Dio è in mezzo a voi!", dice Gesù: è "questa azione dello Spirito Santo, che ci dà la saggezza, che ci dà la pace. Il Regno di Dio non viene nella confusione, come Dio non parlò al profeta Elia nel vento, nella tormenta" ma "parlò nella soave brezza, la brezza della sapienza".

Come ha riportato sempre Sandro Magister nei giorni scorsi è tra l’altro circolato il testo di una direttiva inviata il 21 ottobre dal prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Gerhard Ludwig Müller, ai vescovi degli Stati Uniti, tramite il nunzio apostolico in quel paese, Carlo Maria Viganò:

«Reverendo Monsignor Jenkins, Le scrivo su richiesta di Sua Eccellenza Reverendissima Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il quale richiede che i Vescovi degli Stati Uniti siano avvisati, un’altra volta, dei seguenti fatti (con riferimento alla mia lettera del 27 febbraio 2013, con lo stesso numero di protocollo). Sua Eccellenza desidera informare i Vescovi che uno dei cosiddetti veggenti di Medjugorje, il signor Ivan Dragicevic, sarà presente ad alcuni incontri in alcune parrocchie del Paese, durante i quali illustrerà fatti riguardanti il fenomeno di Medjugorje. È stato anche anticipato che il Signor Dragicevic avrà le «apparizioni» durante questi incontri. Come lei sa bene, la Congregazione per la Dottrina della Fede sta indagando su alcuni aspetti dottrinali e disciplinari del fenomeno di Medjugorje. Per questa ragione, la Congregazione ha affermato che, riguardo la credibilità delle «apparizioni» in oggetto, tutti debbano accettare la dichiarazione, datata 10 aprile 1991, dai Vescovi della ex Repubblica Jugoslava, che dice: «Sulla base delle ricerche che sono state condotte, non è possibile affermare che ci siano state apparizioni o rivelazioni soprannaturali». Ne deriva, perciò, che i chierici e i fedeli non possono partecipare ad incontri, conferenze, o celebrazioni pubbliche in cui la credibilità di queste «apparizioni» venga data per certa. Con lo scopo, quindi, di evitare scandali e confusione, l’Arcivescovo Müller richiede che i Vescovi siano informati del caso appena possibile. Colgo questa opportunità per presentare i miei sentimenti di profonda stima, e rimango sinceramente Vostro in Cristo. Carlo Maria Viganò, Nunzio Apostolico».

Come è scritto nel Vangelo, se «con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio», l’ineffabile direttore di radio Maria, se fosse coerente, dovrebbe licenziare se stesso, in tronco e con la stessa sensibilità e delicatezza con cui ha sbattuto alla porta, senza preavviso e dopo molti anni di collaborazione gratuita, Gnocchi e Palmaro.

Ma questo certamente nessuno – Gnocchi e Palmaro in primis – lo vuole: la Chiesa della Tradizione è da sempre davvero anche la Chiesa della Misericordia.

Domenico Savino




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