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Dal Family Day al Family gay, ovvero: tutti contro nessuno
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Da tempo era nell’aria. L’accelerazione, anche sulla scena internazionale, delle fasi finali del golpe omosessualista sotto la regia dei potentati massonici ha evidentemente imposto di stringere i tempi. Il cambio di paradigma si è già di fatto realizzato: i rapporti contro natura sono percepiti grossomodo come equivalenti a quelli famigliari, l’omosessualità da vizio privato è divenuta ufficialmente pubblica virtù. Manca soltanto – e ormai, visto il clima che si respira, è quasi un dettaglio – la legalizzazione formale del vincolo omosessuale nel Paese che, sulla carta, conserva ancora il titolo di centro della cristianità: l’abolizione definitiva dell’istituzione famigliare tramite l’introduzione nell’ordinamento del «matrimonio» tra persone dello stesso sesso (comunque lo si voglia denominare) è indefettibilmente in agenda, ma richiede ancora qualche scaramuccia simulata prima di poter essere consacrata nella pace generale delle coscienze, anche quelle dei cristiani «ideologici» e attardati che si ostinano a dirsi recalcitranti.

Ebbene, in lontananza, si percepiva da tempo il ritorno in casa nostra di un qualche tipo di raduno di famiglie. Buono per funzionare da collettore del residuo dissenso, al fine di normalizzarlo, tacitarlo e farlo confluire nel corso trionfale della politica gay friendly statale ed ecclesiale. Cosa fatta, capo ha.

Ecco dunque che per il prossimo 20 giugno è stata indetta nella capitale, a piazza San Giovanni, la tanto attesa manifestazione catto-ecumenica destinata ad accompagnare un popolo ancora scosso da qualche non sopita turbolenza ideologica nel seno della più evoluta civiltà europea. Sulla carta si celebrerà la festa della famiglia canonica [gli slogan sono quelli insipidi fatti entrare nell’automatismo discorsivo come filastrocca mandata a memoria, per sollevare dall’onere di pensare: il matrimonio è solo tra un uomo e una donna, ogni bambino ha diritto (?!) ad avere una mamma è un papà, i genitori hanno quello di educare i propri figli, e così via]; in realtà non si mira che ad allargarne generosamente i confini a una vasta gamma di derivati.

L’evento pubblico diventerà così, tra squilli di tromba e lanci di coriandoli, l’occasione imperdibile per benedire tutte le possibili variazioni sul tema.

Vale la pena di ripercorrere le farraginose tappe della gestazione di tale evento per meglio comprendere lo spirito che lo anima. Soprattutto, per ammirare il coraggio e l’orgoglio che caratterizzano i suoi gagliardi promotori.

Adinolfi lantesignano



Vista l’inerzia dell’associazionismo ufficiale obbediente all’attendismo dei vescovi, qualche mese fa era stato l’outsider Mario Adinolfi a lanciare la sua iniziativa, sull’onda dei molti consensi raccolti in giro per l’Italia con le conferenze dei circoli Voglio la Mamma. Da buon animale politico, abile oratore e appassionato arringatore di folle desiderose di radunarsi sotto una bandiera alternativa, il parlamentare piddino aveva fissato l’appuntamento del 13 giugno al PalaLottomatica a coronamento di una campagna di raccolta firme contro la pratica dell’utero in affitto. Una battaglia di retroguardia la sua, con un oggetto circoscritto alla propaggine estrema di un sovvertimento ben più profondo: come dire, il tentativo velleitario di incerottare il sintomo ultimo e più eclatante di una patologia risalente senza aggredirne le radici, incistate ormai nel tessuto di una società in avanzato stato di decomposizione. Eppure, un’iniziativa a suo modo ardita nel panorama stagnante della galassia ecclesiale, che qualcuno evidentemente nelle alte sfere non ha gradito. Al punto da far giungere all’improvvido pioniere un segnale capace di indurlo a cancellare d’improvviso l’appuntamento per il quale si era già tanto speso, e con particolare entusiasmo.

Con un post strabiliante apparso su facebook, i promotori dell’evento al PalaLottomatica hanno ritirato l’iniziativa dichiarandosi paghi della «prima grande vittoria» conseguita con lo slittamento della discussione parlamentare sul ddl Cirinnà al mese successivo, ed esternando al contempo la propria preoccupazione – condivisa da non meglio identificati «altri» – a non creare in nessun modo un clima di «contrapposizione ideologica» con gli organizzatori del Gay Pride, in programma a Roma nella stessa data del 13 giugno. Di conseguenza, si è ceduto cavallerescamente il passo agli orgogliosi portatori di gaiezza. Ubi maior, minor cessat.

Già dal post in questione si intuiva la presenza sottotraccia di un sommovimento più ampio, rispetto al quale il raduno chiamato da Adinolfi poteva apparire come una «fuga in avanti», un assolo anche un po’ tracotante perché irrispettoso delle precedenze istituzionali. Coll’immancabile richiamo all’«unità», vi si preconizzava quindi, contestualmente, una successiva mobilitazione ecumenica. A occhio, qualcuno nell’episcopato si è accorto che conveniva rendere «ufficiale» un evento di cui molta gente sentiva l’urgenza, parassitando anche il consenso capitalizzato da Adinolfi.

Family Day o Family gay? Programma numero uno

Di lì a poco infatti veniva annunciata da più parti, e sin dall’inizio con un evidente deficit di coordinazione, la grande manifestazione romana del prossimo 20 giugno, in cui finalmente dovrebbero confluire i cattolici di ogni ordine, grado e credo religioso: il tanto atteso Family Day, riedizione aggiornata dell’omonimo raduno del 2007.

«L’obiettivo – si legge nel comunicato della Manif pour Tous – è replicare con un secondo Family Day la manifestazione che otto anni fa riempì la piazza storica della capitale (piazza San Giovanni, ndr) e contribuì non poco all’affossamento della proposta dei DICO messa allora in campo dal Governo Prodi»; allora, «la mobilitazione, e le conseguenti prese di distanza degli esponenti cattolici del Governo, frenarono di fatto il percorso del ddl, che si arenò del tutto in autunno».

Stesso nome, dunque, e stessa piazza. Una riproposizione quasi scaramantica, evocativa del successo passato. Anche stesso obiettivo? Qui viene il bello.

Se all’epoca si trattava di fermare i Dico, oggi si tratta, sulla carta, di bloccare il ddl Cirinnà, l’omologo aggiornato dell’aborto prodiano/bindiano. Peccato però che per ottenere tale scopo – in omaggio alla imperitura teoria del male minore, che per sua natura comporta un inesorabile slittamento in peius – la più parte dei nuovi difensori della famiglia (nel frattempo deformata nella mentalità diffusa) ritengano ora doveroso concedere alle coppie omosessuali il riconoscimento giuridico dello status di conviventi, con tutto il corredo di diritti connessi, tranne quei tre che – in attesa di sollecito intervento giurisprudenziale, poiché si sa bene di poter contare sull’alleato potente e sicuro della magistratura di ogni ordine e grado – rimarrebbero in un primissimo momento appannaggio dei rapporti famigliari fondati sul matrimonio tra un uomo e una donna: cioè adozione, pensione di reversibilità, riserva di legittima.

Si è già diffusamente parlato su queste colonne del progetto truffaldino partorito dagli illustri ideologi del Sì alla Famiglia (Introvigne, Mantovano), sotto forma di testo unico, volto a garantire una felice sistemazione alle coppie omosessuali. Ora i suoi cattolicissimi autori tentano di renderlo la base giuridica a schizofrenico sostegno dell’iniziativa di piazza, presentandolo come lo «strumento più adeguato» «per raggiungere l’obiettivo condiviso di una società rispettosa e aperta nei confronti delle persone omosessuali».

La patacca, già rifilata agli «incolpevoli» Pagano e Sacconi, per essere da loro presentata in ambedue i rami del Parlamento quale nuovo cattolicissimo disegno di legge idoneo a dare veste giuridica alle convivenze omosessuali, è infatti poi resa oggetto di una lettera indirizzata a tutti i deputati e i senatori e fatta sottoscrivere da 58 cattolicissimi «intellettuali» di chiara fama in qualità di sostenitori della manifestazione del 20 giugno (tra di essi lo stesso suo portavoce Massimo Gandolfini). Come si vede, la preoccupazione dominante nell’Italia del 2015, per gli intellettuali e i politici di qualunque colore, cultura e fede religiosa, è quella di serenamente accasare le coppie omosessuali.

Se nel primo Family Day l’obiettivo era l’affossamento dei Dico, smascherati come la via maestra per l’introduzione delle unioni tra persone dello stesso sesso, bisogna ammettere che se ne è fatta di strada, se nel secondo Family Day una proposta che va ben oltre gli stessi Dico – quanto a portata rivoluzionaria del paradigma famigliare – è caldeggiata dai suoi stessi promotori.  Infatti, la proposta di regolarizzazione delle convivenze, che aveva preso forma con i c.d. DICO, mirava proprio a quella delle unioni tra persone dello stesso sesso (visto che è evidente a chiunque che, se i conviventi eterosessuali non si sposano, è perché ritengono più vantaggiosa la scelta di «libertà»).

Non per nulla l’affossamento dei DICO avvenne allora proprio perché a un certo punto fu chiaro a tutti dove in realtà si voleva andare a parare: evidentemente otto anni fa brillava ancora qualche lume di ragione, e l’anormalità non era ancora per tutti divenuta normale.

Ora, viene spontaneo chiedersi come mai proprio il Family Day sia stato riproposto oggi per far passare quello stesso progetto contro cui otto anni fa era stato ideato: vale a dire i diritti delle persone stabilmente conviventi.

Contrordine compagni. Cambio di programma

E infatti qualcuno, al di qua o al di là del Tevere, deve essersi accorto sia del controsenso onomastico, come anche dell’eccessivo zelo programmatico suscettibile di mettere a rischio i buoni rapporti con il popolo invertito: in fondo, una manifestazione dichiaratamente contro il disegno di legge Cirinnà sulle unioni omosessuali (tanto più se tacitamente favorevole alle stesse sotto le mentite spoglie del testo unico) non può non finire per mettere in discussione la sostanza virtuosa dell’omosessualità, ormai unanimemente riconosciuta come nuovo valore universale, secondo l’ordine inderogabile imposto dalle centrali operative di Bruxelles e di Washington.

Gli incauti promotori sono quindi stati richiamati perentoriamente all’ordine, ed ecco la svolta. Alla conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa, l’8 giugno scorso, il portavoce unico ufficiale del comitato organizzatore – al quale ultimo pure, nel frattempo, viene cambiato il nome in corsa: era «Da mamma e papà» ed è ribattezzato «Difendiamo i nostri figli» – si esibisce con ammirevole disinvoltura in una virata acrobatica: espunge categoricamente dal programma l’opposizione alla Cirinnà (insieme a quella alla Scalfarotto e alla Fedeli, testi connessi per materia) e assicura che la mobilitazione a Piazza San Giovanni «non ha niente a che fare con il Family Day del 2007» e non è né contro il disegno di legge Cirinnà, né contro gli omosessuali, né «contro qualcuno».

Il messaggio ufficiale, lanciato in sede altrettanto ufficiale dal portavoce ufficiale, diviene dunque il seguente: manifestiamo contro niente e contro nessuno. Una vera e propria chiamata alle armi.
Del resto, quello di non essere «contro» è il pensiero fisso che ossessiona il nuovo esercito del cattolicesimo postconciliare. Sullo sfondo della pace universale, ottenuta col principio di non belligeranza, tutto viene livellato: scompaiono i criteri di valutazione, scompare ogni differenza tra il bene e il male, in vista del raggiungimento della pace eterna. E pazienza che sia stato Cristo stesso, quella volta, a consacrare la lotta contro il male, dicendo con discreta chiarezza «chi non è con me, è contro di me» in una pagina del Vangelo sconosciuta ai nuovi fedeli così come ai loro pastori riformati.

Di fatto, dunque, nell’arco di un tanto breve lasso di tempo, una manifestazione pubblica, indetta in tutta fretta al preciso scopo di contrastare una altrettanto precisa iniziativa legislativa, e quelle ad essa complementari, ha cambiato nome e ha cambiato pure obiettivo. E la gente, reclutata in forze a mobilitarsi per riempire la piazza, si trova a spendersi per una causa cangiante, in via di progressiva evaporazione estiva; quantomeno, sicuramente decisa altrove e sopra la propria testa. È infatti chiarissimo che ciò che viene sbandierato come un grande movimento spontaneo di popolo, in realtà è condotto al guinzaglio dal litigioso concordato tra forze di Governo della Chiesa e dello Stato, tendente al ribasso nel tentativo disperato di raggiungere un comun denominatore più che minimo, minimissimo. Praticamente irrilevante.

Linchino al Gay Pride

Nel frattempo, il 13 giugno – benedetta dall’intero arco costituzionale, nel silenzio del vicariato di Roma e pagata dai contribuenti – si è svolta la parata arcobaleno in programma, quella a cui sono stati graziosamente ceduti il passo e la scena dai prodi difensori della famiglia. In testa al corteo, insieme alla sua giunta al gran completo, il sindaco Ignazio Marino con fascia tricolore, a rappresentare «la nostra capitale, la città dell’accoglienza, la città che crede nell’amore» marciando felice dietro lo striscione rosa con lo slogan della giornata di festa: «Liberiamoci». E in effetti molti dei partecipanti – come abbiamo potuto constatare – si sono prontamente liberati dei vestiti e del decoro.

Madrina della manifestazione Federica Sciarelli, la giornalista conduttrice di «Chi l’ha visto?» che, parlando di cose evidentemente più grandi di lei (al pari di Dario Franceschini) declama norme di cui è incapace di comprendere il significato: «Mi porterò la Costituzione, così potrò leggere l’articolo 29, che riconosce i diritti della famiglia ma non specifica che la famiglia deve essere formata da un uomo e una donna. A quanto pare i costituenti, con la loro carta dei diritti e dei doveri, devono aver guardato più lontano di noi».

Tra i carri più importanti, insieme a quello di Mucassassina e del Gay Village, viene esibito come un fiore all’occhiello della parata quello del circolo Mario Mieli – il cui presidente in carica Andrea Maccarrone è non per nulla portavoce del coordinamento Roma Pride – i cui intenti programmatici sono accessibili a chiunque sul web, eccettuata – a quanto pare – la procura della Repubblica. Infatti, tra tanta ricchezza speculativa che il fondatore ha profuso tra i suoi discepoli, ricordiamo solo queste poche edificanti parole:

«Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto lEdipo, o il futuro Edipo, bensì lessere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare lamore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica».

I bambini, secondo il pensiero di Mieli, possono «liberarsi» dai pregiudizi sociali e trovare la realizzazione della loro «perversità poliforme» grazie ad adulti consapevoli. Un nutrito campionario dei quali si è evidentemente raccolto a Roma per l’occasione.

Ora, come sappiamo, i promotori di quell’altra manifestazione, indetta per il prossimo 20 giugno e in cui sono confluite anche le truppe di Adinolfi rimaste orfane del Palaottomatica, sostengono secondo copione che essa non è contro nessuno. Ne possiamo dedurre che non sia nemmeno contro tutti costoro.

Non si capisce bene a questo punto da chi dovremmo difendere i nostri figli scendendo in piazza, considerato anche che l’assessora alle Pari Opportunità del comune di Roma, signora Alessandra Cattoi, ha annunciato dal palco del Gay Pride: «da settembre vogliamo formare i dipendenti comunali sul linguaggio di genere, con un piano di formazione a tappeto».

Le ragioni del caos

Questa la parabola di un monstrum in divenire, di un ircocervo nato azzoppato perché incrocio forzato tra le varie anime di un cattolicesimo oramai solo di nome, che ha perduto l’orgoglio della propria identità perché ha perduto la percezione della verità. Perché ha perduto la fede. Il cambiamento in corsa della ragione sociale della manifestazione è un fatto interessante proprio perché paradigmatico. Di cui vale la pena tentare un’analisi.

Al richiamo iniziale qualcuno ha risposto con entusiasmo eccessivo, pensando di poter scendere in piazza per esprimere il proprio sacrosanto sdegno «contro». Contro un disegno eversivo e diabolico che ci impone di scambiare le categorie del reale, di cancellare d’un tratto la verità e la logica, di consegnarci docili e remissivi ai carnefici nostri e dei nostri figli. Contro l’avanzata di un potere tentacolare che ghermisce le nuove generazioni nel vuoto educativo generalizzato.

Ma è scattato subito il sistema di sicurezza. La nuova religione del dialogo e della tolleranza, dei ponti e dei tavoli, non ammette dissidenti. Quello che qualche anno fa era ritenuto comunemente pura follia, anzi nemmeno concepibile, oggi è diffusamente digerito, a partire da coloro che dovrebbero essere preposti alla difesa della cittadella. Ai quali non è venuto in mente a tempo debito di adottare alcuna contromisura, e che ora fanno a gara per rassicurare tutti che l’invasore è un ospite prezioso, da accogliere con tutti gli onori.

Il modello omosessuale, imposto dai potentati sovranazionali come forma virtuosa di vita, ha vinto giorno per giorno in questi anni le naturali resistenze della gente comune. Si fa strada indisturbata l’idea che sia l’oggettiva presenza di un fenomeno a garantire la sua normalità, che il fatto stesso della sua esistenza implichi una necessaria presa d’atto e comporti il conseguente automatico riconoscimento di una tutela giuridica. Idea che, elaborata dai raffinatissimi maîtres à penser del nostro tempo, nella sua pochezza ha tutti i numeri per attecchire subito come communis opinio.

«Coppie formate da persone omosessuali sono presenti nella nostra società, e... questa circostanza non può essere semplicemente ignorata dal diritto», dicono ad Avvenire Introvigne e Mantovano (Alleanza Cattolica).

«È una realtà che due persone dello stesso sesso possano provare attrazione, simpatia, affetto, il desiderio di un progetto comune», dice al Corriere della Sera monsignor Galantino, segretario generale della CEI.

Tutti i pensatori sono dunque concordi nel riconoscere che ciò che esiste è di per sé meritevole di essere tutelato dal diritto. Ciò che è reale è razionale, e anche di più.

Un concetto la cui evidenza si può peraltro cogliere efficacemente con riguardo a varie situazioni, come Cosa Nostra, la rapina a mano armata, i furti con destrezza e soprattutto l’evasione fiscale: tutte realtà che, in virtù della loro indubbia diffusione, richiederebbero per ciò stesso una immediata valorizzazione giuridica.

Ecco dunque che si avverte la necessità impellente, per tutti, di disciplinare le relazioni omosessuali. Perché la patologia, quando è diffusa, diventa ipso facto fisiologia.

E guai a coloro che osano ancora parlare di patologia, di patologia virale ad alta contagiosità grazie alla sua glorificazione martellante.

Non si può dire che c’è un potere paradossale e nefasto acquisito proditoriamente dai movimenti omosessualisti, e tantomeno che questo potere è incarnato negli individui che vantano come segno virtuoso di distinzione le proprie particolari tendenze sessuali, per giunta contro natura. Guai.

Non si può dire che c’è un esercito di persone (uno spaccato del quale si è visto sfilare per le strade di Roma sabato 13 giugno) che vestono tutte la stessa divisa e sventolano tutte la stessa bandiera da issare sulle case italiane, guidato da truppe scelte che esibiscono l’omosessualità come distintivo. Che c’è una guerra in corso e che le guerre comportano una contrapposizione delle forze in campo.

In tutto questo il gender non è che un parafulmine, di cui tutti blaterano compulsivamente e su cui ora si concentrano gli strali dei benpensanti per spersonalizzare la lotta. Esso è parte integrante del piano omosessualista, una sua precisa arma strategica: se il sesso è una variabile indipendente, frutto di libera scelta – come vuole questa cosiddetta teoria – la scelta omosessuale è un’espressione rispettabile di libertà, al pari di quella di una professione o di un capo di abbigliamento. Ma è chiaro che non si può combattere questa menzogna grossolana senza combattere chi l’ha elaborata a fini di conquista.

Mentre quindi tutti si concentrano sulla teoria del gender e si impegnano nella sua banale confutazione, la penetrazione dell’omosessismo prosegue indisturbata la propria marcia implacabile nei gangli vitali della società e nei centri di potere internazionali e nazionali. Al punto che, se anche per ipotesi si riuscisse a far eliminare dai programmi scolastici ogni informazione su questa invenzione grossolana – come auspicano quelli di piazza San Giovanni secondo l’ultima versione del loro manifesto – l’omosessualità manterrebbe comunque il posto privilegiato che già ora le è riservato dalle direttive ministeriali quale variante virtuosa della sessualità. Essa infatti è ormai presentata come realtà umana degna di ogni tutela e promozione sociale in omaggio ai «diritti», alla libertà, alla uguaglianza, al rispetto, all’amore senza confini, a tutto quel repertorio di concetti manipolati che menti ormai indifese per mancanza di strumenti critici, espunti dalla scuola di regime, hanno assorbito secondo copione.

Alla fine...

Alla fine, molte persone di buona volontà andranno a Roma, con le migliori intenzioni e sincere speranze, ma saranno carne da cannone per chi vuole solo approntare una resistenza simbolica, cioè creare la scenografia di cartapesta funzionale a garantire il pluralismo di facciata dietro manovre totalitarie ordite altrove.

Perché il portavoce Gandolfini, in conferenza stampa, dice cose così: «il tema degli omosessuali non ha niente a che fare con il nostro Comitato. (…) La nostra manifestazione è di tipo propositivo, dice la bellezza della famiglia, non è contro nessuno, quindi non è contro gli omosessuali».

Dove la famiglia della cui bellezza si deve raccontare è evidentemente (essendo i manifestanti aperti a tutti e contro nessuno) quella di tutti i colori fondata sull’amore, di cui la c.d. famiglia naturale è null’altro che un sottoinsieme residuale e – diciamocelo – anche un po’ superato.

Dal palco di piazza San Giovanni, a suggello del raduno, si diranno cose analoghe. Il 21 giugno la stampa di regime – Avvenire in testa – riecheggerà le medesime note.

Il repertorio delle frasi autorizzate è dettato dall’alto, ovvero da chi risponde agli ordini dei potentati sovranazionali e professa con ogni evidenza un’altra religione. Il manovratore non va disturbato, anzi, va oliata la sua macchina da guerra.

In tutto questo, è evidente, il problema principe è nella Chiesa, il problema è la Chiesa. Che senza più pudore mostra fazioni contrapposte, l’una contro l’altra armata (in deroga all’ordine di non belligeranza), ma tutte – almeno quelle visibili – protese nell’appeasement col mondo.

Il motore di avviamento della manifestazione del 20 giugno è stato Kiko Arguello, si dice col placet silente di Bergoglio che, dopo la virata programmatica, ha reso esplicito il suo sostegno; e infatti esponenti neocatecumenali sono sia i vertici italiani della Manif pour Tous, sia il portavoce del comitato organizzatore Gandolfini. Dalla loro parte, sin dalla prim’ora, il cardinale Bagnasco presidente della Conferenza Episcopale. Il freno a mano in seconda battuta è stato tirato da Galantino, segretario generale della conferenza episcopale, ostile alla manifestazione divisiva e teorizzatore del dialogo ad oltranza e verso tutti. Costui – si sa – è stato nominato da Bergoglio ed è suo braccio destro. Bergoglio nel frattempo non è stato con le mani in mano e, incontrando gli scouts dell’Agesci, ha raccomandato loro di costruire «ponti, non muri nella società» (e questi lo hanno preso subito in parola e si sono uniti festanti, a centinaia, al Gay Pride dello stesso pomeriggio brandendo cartelli inneggianti all’amore senza discriminazioni), e volerà presto in Argentina a incontrare Simón Cazal, numero uno del gruppo per i diritti LGBT SOMOSGAY, sposato dal 2012 con Sergio López.

Come si può vedere, un quadro caotico ma neanche tanto. Oltre l’agitarsi di comprimari e di comparse, al di sopra e al di fuori di ogni dissidio sui contenuti, si staglia sullo sfondo il marchio papale: quel «divide et impera» funzionale all’esercizio incontrastato del proprio potere, obiettivo esclusivo, e terrorizzante, dell’attuale pontificato.

Elisabetta Frezza




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