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Sulla «inferiorità mentale» del negro e di altri...
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E così il professor James Watson ha dovuto scusarsi di aver detto che i negri sono meno intelligenti dei bianchi: meno per convinzione, credo, che per panico.
Il suo fitto calendario di conferenze (pagate benissimo) s’era di colpo ridotto: le università cancellavano gli inviti a catena.
Scopritore della struttura del DNA, Nobel 1962, Watson è la dimostrazione vivente, esemplare, della direzione a cui porta il brutale scientismo riduzionista anglosassone: al razzismo biologico.
Ma le riflessioni non possono finire qui.
Sfidiamo il tabù che ha rovinato l’esimio scienziato.
Magari ha ragione lui.
Un mio giovane amico ingegnere, di nessuna propensione al razzismo - anzi ha lavorato due anni nell’Africa occidentale, sia per fare esperienza di lavoro duro, sia per “dare una mano” allo sviluppo laggiù - mi ha raccontato sgomento il seguente episodio.
Un giorno, in ufficio, il suo impiegato negro, giovane computerista gli dice di aver spedito una email d’affari.
«Ah peccato!», esclama l’ingegnere, «volevo rivederla, non era completa».
«Nulla di male, l’ho appena mandata!», grida il negro, e si precipita a ….strizzare con le mani il cavo del computer, quasi potesse con ciò rallentare la mail.
Persino i missionari, in privato, raccontano episodi del genere.
Come minimo, bisogna ammettere che i negri (anche quelli americani) rivelano immense stupefacenti lacune nel «sapere moderno», effetto di migliaia d’anni di un processo di civilizzazione cui non hanno partecipato.
Attenzione però.
Sarebbe interessante indagare quanti bianchi italiani hanno dell’elettricità la stessa idea del negro di cui sopra, come di una sorta di fluido o liquido che scorre nei «tubi».
Magari, al più, sanno che la corrente elettrica è molto più rapida del pigro fiume Limpopo, a cui il negro pensa quando gli si parla di «corrente».
Vagamente, ha sentito parlare di «velocità della luce».
Inoltre: forse che i camorristi napoletani, che impediscono lo sviluppo di Pompei da cui ricavano i loro micragnosi introiti, rivelano un’intelligenza superiore al negro?
E le tifoserie che si scontrano in piazza per una partita, sono più intelligenti?
E’ più intelligente di un negro, Conchita?

Parlo di Conchita de Gregorio, giornalista di Repubblica, e non delle ultime.
Questa settimana è lei che conduce la rassegna-stampa mattutina a RAI3.
E la cosa più divertente e rivelatrice sta nelle risposte che dà alle domande dei lettori: un repertorio dei luoghi comuni autorizzati e vigenti.
E’ come se Conchita traesse prontamente le sue risposte, le sue «idee», le sue «opinioni», da un ricettario di “idées reçues” che tiene sulla scrivania.
Sentita la domanda, l’ascoltatore avvertito può già immaginare la risposta di Conchita, sfogliando idealmente quel vocabolario anche prima di lei.
Non è difficile.
Il ricettario è quello del «politicamente corretto», permissivo-trasgressivo, radical-chic, dei cosiddetti «valori laici» di Repubblica.
Il repertorio completo.
A cui la brava Conchita aderisce di tutto cuore, senza nemmeno immaginare che tali «idee» possano essere discusse e contraddette.
E chi le contraddice - come la Chiesa che ha chiesto per i farmacisti il diritto all’obiezione di coscienza per non vendere una pillola abortiva - suscita la sua indignazione e la sua rivolta: si è trasgredito al ricettario delle “idees reçues”.
Come ci si permette di pensare altrimenti?
«Idee ricevute», chiamano infatti i francesi i luoghi comuni: ossia idee che la gente non pensa in proprio, ma riceve dal suo ambiente di riferimento già confezionate.
Attualmente, il permissivismo trasgressivo ha l’assenso di Conchita perché è il «senso comune» vigente, ciò che pensano tutti, che è autorizzato.
Fosse vissuta mezzo secolo fa, quando il senso comune vigente era ancora grosso modo cattolico, la stessa persona vi avrebbe aderito con la stessa a-criticità.
Cento anni prima, Conchita sarebbe stata la Maestrina della Penna Rossa, e avrebbe custodito la vigenza dell’epoca, il patriottismo risorgimentale-massonico alla De Amicis.
Infinite maestrine della penna rossa hanno difeso il senso comune vigente al tempo loro: fascismo in Italia, comunismo in Russia, si sono fondati fortemente sull’entusiasmo volonteroso di queste custodi ed educatrici.

Ahimè, questa funzione a-critica di sorveglianza del conformismo corrente è spessissimo femminile.
Per questo motivo un grande medico del primo ‘900, Moebius, scrisse un trattatello dal titolo «L’inferiorità mentale della donna».
Odiatissimo dalle femministe, oggi libro-tabù.
Moebius aveva le stesse ragioni e gli stessi torti di Watson: etichettare come «naturale» un fenomeno «culturale».
Una cosa infatti accomuna (salvo eccezioni) negri, donne, camorristi e tifoserie: tutti sono bipedi fortemente «socializzati».
Il che non significa che siano socievoli.
Significa che traggono tutto il loro sistema di convinzioni, di credenze, e di «valori» non dalla propria testa, ma dal gruppo a cui aderiscono.
Come esseri pensanti, non vivono in proprio, ma sono vissuti dal gruppo sociale.
In Africa o in America, se il negro pare meno intelligente, è essenzialmente perché la società negra non valorizza l’intelligenza.
Valorizza altre cose: i complessi rapporti di parentele, di amicizia e di solidarietà tribale; il machismo, la potenza sessuale, il «manas» dei capi, i poteri magici degli stregoni.
Nella società camorrista, i «valori» che vengono «promossi» e approvati sono ben noti: e il disprezzo collettivo schiaccia chi mostri, poniamo, un qualche interesse allo studio.
Fra le donne, non è l’intelligenza che conta davvero.
Contano altre cose, dalla socialità vigente alla chiacchiera salottiera, fino alla maternità (anche le giornaliste progressiste in carriera, verso i 40, sentono l’urgenza biologica di avere un figlio: e allora, dopo anni di pillole e preservativi, si trascinano da un laboratorio all’altro di fecondazione in vitro, artificiale, teleguidata).
Il fenomeno è molto più vasto e generale, non riguarda solo negri, donne e camorristi.
Nella sua forma più acuta, questo conformismo è enormemente visibile negli adolescenti.
Essi aderiscono spasmodicamente al giudizio del gruppo o del branco dei coetanei, alle sue mode, ai suoi «modi», linguaggi e segni di status: fino al punto da soffrire acutamente, dolorosissimamente, se non possono avere «quel» capo di vestiario o «quel» telefonino o quella griffe che sono, al momento, approvati dal gruppo.
Essi «dipendono» totalmente dal gruppo chiuso degli altri adolescenti.
Come mai?

Perché gli adolescenti non possiedono ancora un «io» proprio, che è il risultato faticoso di maturità, esperienze e solitudine.
Il loro «io» è quello collettivo, che trovano presente nel branco.
I loro desideri non sono «loro», sono quelli dello sciame coetaneo.
A questi aderiscono compulsivamente, per non essere giudicati «male» dal collettivo: e lo fanno senza a-criticità, credendo per di più di essere, solo se si vestono come gli altri, «originali» e «autentici».
Commovente e ridicolo spettacolo della pubertà, in qualche modo fisiologico.
Tollerabile, purchè sia passeggero.
Ma passeggero non è, specie in certe epoche.
Oggi vediamo un pullulare di conformismi adulti: potrei raccontarvi come la micro-società dei giornalisti abbia i suoi totem e i suoi tabù.
C’è un conformismo degli scienziati - chi esprime dubbi sull’evoluzionismo in quell’ambiente è «fuori».
C’è un conformismo degli economisti: il liberismo globale vigente è la sola teoria autorizzata. Persino una teoria che si sa sbagliata viene mantenuta vigente dal «sistema» di promozioni e di punizioni sociali, e applicata rovinosamente, almeno fino a quando non se ne impone un’altra al «senso comune».
Il Fondo Monetario ha imposto la teoria autorizzata a Paesi deboli, fino a rovinarli: constatata la rovina, ha continuato ad applicarla.
Così il sistema tolemaico resistette a lungo al sistema copernicano, fino a quando quella visione del mondo cosmico non divenne «autorizzata», essa stessa luogo comune, «idea ricevuta» che non occorreva ripensare in proprio fino in fondo.
Ma la post-modernità ha anch’essa la sua Scolastica conformista, il ricettario delle idee pronte, surgelate e pre-cotte.
Colpa del grande Aristotile: che, troppo generoso, definì l’uomo «animale razionale».
Se davvero fossimo razionali, i fenomeni sociali più atroci sarebbero incomprensibili.

Pensiamo alla società azteca, che dal fatto più ricorrente ed evidente del cosmo - il sorgere e tramontare del sole - ricavò la razionalissima conclusione che, se non si facevano migliaia di sacrifici umani, il sole si sarebbe spento per mancanza di nutrimento.
Ma non c’è bisogno di andare così indietro nel tempo.
Pensate a Pol Pot e al regime massacratore «scientifico» che instaurò; e pensate a Veltroni, che riscuote applausi per aver ammesso - con un certo ritardo - che i campi della morte comunisti sono simili ai lager nazisti.
Razionali?
Per favore.
«Sociali» sì, ossia conformisti.
Veltroni ha detto la cosa «autorizzata» oggi, ma che trent’anni fa non si poteva dire senza rischio personale di carriera.
Sicuramente l’uomo è un animale «culturale», ma ciò non è lo stesso che affermare che l’uomo è un essere «pensante» per natura.
La natura ha dato all’uomo la facoltà, la potenzialità di pensare.
Ma l’uomo - negro africano, bianco banchiere di Wall Street, giornalista di Repubblica - evita più che può di usare questa facoltà così faticosa, così «innaturale».
Generalmente, si limita ad aderire alla costellazione di convinzioni, tabù e credenze generali che ha ricevuto dalla società cui appartiene.
Vive nella «cultura» vigente, preconfezionata, come fosse il mondo: reale, tangibile, oggettivo.
Le società umane, in questo «mondo» conformista e pre-cotto, ci vivono benissimo.
Possono viverci per secoli, per millenni, credendo come gli aztechi che il sole debba essere alimentato da sangue umano: senza esprimere il minimo dubbio su questa teoria.
Conchita vive nel «mondo di Repubblica» con l’agiata convinzione a-critica con cui il watusso vive nel «mondo» dei suoi valori tribali: dove la cosa che dà prestigio e potere non è l’intelligenza e il pensiero, ma la quantità di vacche nell’armento, l’aver ucciso un leone con la zagaglia, essere ornati di scarificazioni di moda.
Società tradizionali hanno vissuto così, immobili, per millenni.
Ciò non è sempre un male.
In ogni caso, consente agli individui di risparmiare molta energia psichica, lasciandone a sufficienza per le «normali»occupazioni quotidiane.
Solo che nelle società tradizionali (asiatiche per esempio) lo scopo sociale autorizzato e approvato era almeno altissimo: la liberazione da questo mondo, la saggezza, il contatto col divino.
Ciò che non si può dire di Repubblica né di Wall Street.
No.


L’uomo, normalmente, non pensa.
Si mette a pensare solo quando è «obbligato» a farlo.
Ossia quando il suo «mondo» - il sistema di credenze vigenti nella sua società - viene messo in crisi.
Può accadere per fattori esterni, l’arrivo dell’uomo bianco nelle isole del Pacifico, tra i negri, o tra i pellerossa.
Anche allora, tuttavia, la società può reagire escludendo il pensiero: preferendo l’estinzione al pensare.
Abbiamo esempi contrari: in Giappone, l’arrivo dell’uomo bianco (le navi dell’ammiraglio Perry) suscitò un ripensamento epocale della costellazione di valori e credenze nazionali, e la decisione di adeguarsi alla modernità studiandola a fondo per impadronirsi dei suoi segreti tecnici.
Ma si noti: fu una decisione presa dall’alto, e approvata socialmente.
L’imperatore ordinò ai suoi giapponesi «Pensate, studiate».
Ai samurai, impose di diventare imprenditori.
E fu lui a mandare i migliori in Europa e in America a studiare scienze, filosofie, sistemi giuridici, persino la pittura.
Solo perché il pensiero divenne sinonimo di patriottismo, fedeltà e prestigio, ci si mise a pensare da capo.
Perché «pensare» è un processo difficile e doloroso, che si fa solo quando ci si sente in pericolo nel mondo, spersi nel mondo delle credenze socialmente approvate, che si sentono  ormai tragicamente inadeguate alla propria stessa sopravvivenza.
Per pensare, l’uomo deve fare una cosa «innaturale»: entrare in sé stesso.
Abbandonare provvisoriamente la società, le sue approvazioni e i suoi divieti, e rimettersi a
ri-pensare in proprio ciò che aveva dato per scontato.
Ma è proprio vero che la Terra è piatta, o non sarà una palla?
Come si può fare una macchina capace di volare?
Esistono davvero i microbi?
Entrare in se stesso è terribile, e la maggior parte degli uomini evitano in tutti i modi di farlo.
Perché ciò significa trovarsi a tu per tu con se stessi.
Nella propria solitudine radicale.

La società («loro», «gli altri») mi suggerisce cosa devo volere: discoteca, Coca Cola, successo soldi, o anche solo coca(ina).
Ma «io», personalmente »io», che cosa voglio?
Sono quelli i miei desideri, le «mie» aspirazioni?
«Loro» mi dicono che mestiere devo fare.
Ma «io», che mestiere voglio fare?
«Loro» vietano di pensare all’evoluzionismo in modo critico.
Ma «io» sono in grado di pensare altrimenti?
E di sfidare le punizioni e le emarginazioni che loro sono in grado di applicare contro chi «pensa altrimenti»?
Non solo questo è difficile e poco produttivo per il proprio successo sociale, per il quale conviene fare quel che si è sempre fatto da tutti gli altri.
L’incontro con il proprio «io» può essere penoso: si può scoprire di non avere un «io», ma al suo posto un repertorio, un ricettario di «idee» e «opinioni» che abbiamo ricevuto dal collettivo.
Ed a cui non corrisponde alcuna esperienza veramente, autenticamente «nostra».
Solo in casi disperati si può adattarsi ad un simile esercizio.
Quando il nostro mondo crolla.
In Occidente, il pensiero cominciò perché il cinismo dei sofisti aveva messo in crisi la costellazione della cultura greca.
Era entrato un dubbio fondamentale e dirompente sugli dèi, sul valore dei «misteri» di Eleusi e dell’iniziazione.
E ciò devastava l’ordine sociale, dava valore alla ricchezza comunque conseguita; si insegnava a far prevalere nei tribunali «il discorso ingiusto» sulla giustizia.
Bisognò ripensare: che cosa è il giusto?
Cosa è il vero?
Cos’è il bello?
Ciò che per secoli era stato trasmesso «a bocca chiusa» (questo significa la parola «mistero»), l’indicibile saggezza - che Sparta conservava nel suo alto silenzio - dovette essere ripensato da capo, esplicitato, argomentato, dibattuto polemicamente.
Cominciò Socrate - e subì la pena capitale.
Continuò Platone.
E’ cominciato così, l’Occidente.

La società dovette riconoscere a chi pensava (pochissimi) il prestigio.
E’ questo che ha dato alla civiltà nostra una certa elasticità, e una qualche capacità di superare le crisi epocali, superiore a quella degli africani.
Ma questo riconoscimento è del tutto teorico anche in Occidente.
Chiunque abbia pensato da capo - persino nella scienza, entità che gode del massimo prestigio - ha incontrato opposizioni, disprezzo e incredulità, difficoltà, spesso punizioni ed emarginazioni.
Il caso ritorna con speciale gravità oggi.
La costellazione di valori  dell’Ottocento - la modernità positivista, che ha dato all’uomo bianco i suoi successi imperiali e tecnici - è palesemente in crisi.
Riconosciamo che non è più adeguata.
E ci angoscia il pullulare di «costellazioni di valori» che nascono ogni giorno da micro-società, siano i camorristi o i giornalisti, gli economisti o i discotecari, che si affermano con arroganza e che viviamo come una rottura della unità fondamentale della nostra cultura.
Ammettiamo di essere entrati in un tempo nuovo: ma non sappiamo nemmeno definirlo, tanto che lo chiamiamo «post-modernità».
Pensate la differenza: già i primi umanisti chiamarono la loro epoca «Rinascimento».
Noi, siamo quelli che «vengono dopo» i moderni.
E infatti, continuiamo ad applicare più o meno gli stessi parametri, da mezzo secolo, ripetendo e riproponendo gli stessi errori: c’è persino chi indica, come rimedio a questa frattura dell’unità, una «rifondazione comunista».
Oppure uno scientismo biologico sostanzialmente hitleriano, o un riduzionismo smentito ogni giorno dalle scoperte; o un relativismo etico dissolutore e suicida.
Sarebbe urgente mettersi a ripensare da capo tutto: sistema scolastico, sistema giuridico, basi della scienza, filosofia, le recenti esperienze storiche.
Sarebbe urgentissimo rigettare le idee ricevute e sottoporle a critica a tutto spettro, senza tabù.
Ma mai come oggi, ciò è vietato.
Mai come oggi, i grandi media ripropongono i conformismi di cinquanta e di trent’anni fa, censurando, deridendo, demonizzando e silenziando chi prova a «pensare».
Infinite maestrine della penna rossa (da Odifreddi a Conchita, da Veronesi a Visco, ai cattedratici universitari) sono lì a custodire il ricettario dei luoghi comuni, a mantenerlo vigente con le punizioni sociali relative.
Mai come oggi la cappa è stata più densa e priva di fessure, totalitaria.

Oh, se avesse ragione il professor Watson!
Vorrebbe dire che noi bianchi abbiamo nel DNA bianco, «per natura», la forza di lacerare questa cappa.
Ma temo molto che non sia così.
E se non è così, vuol dire che a forza di conformismo e divieti di pensare, stiamo diventando negri (1).


1) A conferma di quanto detto, vedrete che diversi lettori mi scriveranno rimproverandomi per aver usato la parola »negro», da loro ritenuta politicamente scorretta e magari poco cristiana, in quanto offensiva. Questo occhiuto conformismo che impone divieti sulle parole, e che i privati lettori si sentono in dovere di applicare poliziescamente, dice tutto sulla nostra triste condizione sociale a-pensante.