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La Turchia bloccata nella corsa all’atomica
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Aveva a bordo sei scienziati nucleari l’aereo turco precipitato venerdì 30 novembre nelle montagne orientali della Turchia.
Complessivamente, le vittime sono 57.
L’aereo, della compagnia Atlas, era decollato da Istanbul.
E’ caduto a sette miglia dall’aeroporto di arrivo, la cittadina di Isparta, senza inviare alcun segnale di allarme o di problemi a bordo.
Il pilota ha segnalato alle 1.36 del mattino di vedere la pista, e la torre di controllo gli ha dato le istruzioni per l’atterraggio: è stata l’ultima comunicazione.
Il tempo era bello.
Apparentemente l’apparecchio, un McDonnell Douglas  83, è esploso in volo. La zona dell’incidente è stata immediatamente circondata e isolata da truppe turche armate (1).
Poco trapela sui particolari.

Il governatore della provincia, di nome Uzun, che potuto visitare la zona, ha parlato della fusoliera quasi intatta, delle ali mancanti e dei motori scagliati a grande distanza, sulle pendici del monte più alto della zona, di 3000 metri.
«Non ho mai visto una cosa del genere», ha detto Uzun.
Dei sei fisici nucleari presenti a bordo, e diretti ad una non meglio specificata conferenza, si fa il nome di uno solo, il più famoso, Engine Arik, il più autorevole docente di fisica nucleare all’università del Bosforo di Istanbul. 
L’autorità turca di aviazione civile ha dichiarato, ovviamente, che non ci sono motivi per credere che la tragedia sia causata da atti di sabotaggio o terrorismo.
Ma il cordone militare che ha isolato la zona e il silenzio reticente del governo suggeriscono ben altro.
Se è stato un attentato, non è difficile capirne il senso.

C’è un solo paese nell’area che abbia una enorme potenza nucleare militare, e quel paese è ben deciso a mantenere il suo monopolio, al punto da preparare un attacco preventivo contro l’Iran, sospettato di mettere in pericolo tale monopolio.
In USA, lo scandalo Plamegate (dove Cheney per stupida vendetta rivelò il nome dell’agente Valerie Plame della CIA) ha mostrato che gli Stati Uniti possiedono un’efficiente rete di informatori per rintracciare i movimenti anche clandestini di materiale nucleare tra i paesi dell’ex URSS e l’aria medio-orientale, onde controllare e bloccare ogni sforzo di proliferazione atomica.
Valerie Plame era a capo di questa rete, e lavorava «undercover», sotto mentite spoglie, con tutti i suoi agenti.
 D’altra parte, il governo di Ankara ha manifestato di avere – al contrario dei governi europei – una chiara visione della nuova situazione geo-strategica provocata dall’intervento americano in Irak e Afghanistan, e di tutti i suoi rischi e possibilità.
Il fedele alleato degli USA per mezzo secolo ha capito di essere stato tradito, e non è impossibile che ne abbia tratto la sola conclusione logica: conseguire un armamento nucleare per assicurare, in una zona sempre più instabile e dominata da forze irrazionali, la propria autonomia e la propria deterrenza.
E’ noto che anche altre nazioni dell’area, fra cui Egitto ed Arabia Saudita, sono giunti alla stessa conclusione.

A Mosca, gli ambienti militari dicono apertamente la stessa cosa: buona parte del conflitto in atto, apertamente e clandestinamente, nell’area medio-orientale, è inteso a mantenere il monopolio atomico di Israele. (2)
Non è con il beneplacito di Washington che Ankara sta compiendo le sue incursioni aeree e corazzate contro il Kurdistan iracheno, per liquidare i santuari del PKK e le speranze del secessionismo kurdo; Washington ha dovuto far buon viso a cattivo gioco, anzi offrire l’intelligence per colpire i santuari, solo perché è troppo debole per poter inimicarsi definitivamente un così rilevante «alleato» come la Turchia, e perché con l’intelligence puntuale spera di limitare le incursioni turche alle basi del PKK; ben sapendo che il regime filo-israeliano di Kirkuk, che è già di fatto uno stato separato dall’Irak, è in realtà nel mirino di Ankara.
Per valutare il crescente accumulo di situazioni incendiarie nella zona, basta ricordare che Mosca sta spostando parte della sua flotta da guerra nei porti di Latakia e Tartus in Siria, e che ciò ha suscitato reazioni di panico in Israele, dove i militari hanno lamentato ad alta voce che la presenza russa «disturba la nostra sorveglianza elettronica e i nostri centri di difesa aerea», ossia il suoi sistemi di spionaggio che guardano dentro la Siria, e ciò «minaccia la nostra sicurezza nazionale» (la ben nota solfa).

Ma è su Israele che pesa la responsabilità morale di aver iniziato la corsa al riarmo nucleare, non solo fornendosi di troppe testate per una semplice deterrenza, ma anche minacciando di usarle contro avversari non forniti di tali armamenti, e dunque privi di deterrenza alcuna.
Così come è responsabilità della Casa Bianca l’attivismo militare russo nell’area medio-orientale: esso è la risposta alla minacciata installazione in Polonia del sistema anti-missile più a ridosso del territorio russo, e contro cui Putin e i militari hanno messo in guardia in modo sempre più reciso e deciso, ultima goccia in un decennio di provocazioni e di insidie alla zona d’influenza russa, fra cui la creazione di «democrazie» in Ucraina e Georgia.
La crisi del Kossovo, che Bush vuole portare alla indipendenza a dispetto di tutti i vicini, sta facendo il resto.

Alti gradi russi hanno discusso con Belgrado – specificamente con gli ultranazionalisti del Partito Nazional-Radicale Serbo (SRS) – la possibilità di impiantare basi militari permanenti in Serbia. Mosca ha accelerato la consegna all’Iran del combustibile nucleare per Bushehr, che languiva da anni, in aperta sfida alle demenziali ingiunzioni di Bush a Teheran di «smettere immediatamente» anche il programma nucleare civile.
Come non bastasse, Cina ed India, storici nemici, stanno compiendo manovre militari congiunte, mentre il Pakistan affonda in una crisi di cui non si vede uno sbocco.
E sono tutti paesi con armi atomiche.
Per contro, con il cambio di governo in Polonia, l’impianto del sistema antimissile USA comincia a diventare meno certo.
I nuovi governanti polacchi, più realisti dei celebri gemelli, capiscono che occorre andare d’accordo con Mosca, o almeno non sfidarla.
E l’America sta per perdere la sua storica egemonia finanziaria e monetaria, affondata com’è nella crisi, forse terminale, della sua ideologia speculativa e del sistema finanziario che ha imposto al mondo per sessant’anni.
E’ ovvio che in questa situazione potenzialmente esplosiva, sotto le aperte dichiarazioni e gli atti evidenti, si muovano freneticamente reti di spionaggio clandestine, agenti di ogni genere e provocatori di ogni specie.

Israele non può minacciare apertamente Ankara, questo «buon alleato dell’Occidente», di annichilimento atomico, come sta facendo con Teheran; d’altra parte il regime turco è affollato di generali dunmeh (fra cui il capo di stato maggiore Bukuyanit) e di filo-israeliani con le mostrine, che certo forniscono a Sion le informazioni più riservate di cui ha bisogno per mantenere il suo monopolio dell’arma assoluta.
Un «incidente aereo» in cui scompaiono sei scienziati probabilmente essenziali per un potenziale progetto di armamento nucleare turco è certamente il modo più efficace per bloccare e ritardare programmi del genere.
E’ anche quello politicamente più accettabile.
Liquidare le teste pensanti quando sono ancora poche (lo hanno fatto anche in Iraq, ammazzando oltre 300 scienziati) può bastare; e la forma di «incidente» consente di mantenere buoni rapporti ufficiali con la Turchia. 



1) Sabrina Tavernise, «None survive Turkish plane crash», New York Times, 1 dicembre 2007.
2) Mike Whitney, «Putin agonistes: missile defense will not be deployed», GlobalResearch, 20 dicembre 2007.
Putin e I generali moscoviti, ricorda Whitney, sanno che Washington persegue nientemeno che lo smembramento della Russia – come già ha fatto in Irak – in tre stati di importanza ridotta. Lo sanno perché hanno letto l’articolo che Brzezinsky ha scritto su Foreign Affairs del CFR, »A geostrategy for Eurasia»), e che prospetta proprio lo smembramento- «Given (Russia’s) size and diversity, a decentralized political system and free-market economics would be most likely to unleash the creative potential of the Russian people and Russia’s vast natural resources. A loosely confederated Russia -- composed of a European Russia, a Siberian Republic, and a Far Eastern Republic -- would also find it easier to cultivate closer economic relations with its neighbors. Each of the confederated entitles would be able to tap its local creative potential, stifled for centuries by Moscow’s heavy bureaucratic hand. In turn, a decentralized Russia would be less susceptible to imperial mobilization». (Zbigniew Brzezinski,«A Geostrategy for Eurasia»). L’ultima frase è quella che conta: «Una Russia decentralizzata sarebbe meno capace di mobilitazione imperiale».
Infatti, Brzezinski ha sempre paventato l’emergere di una zona di integrazione politico-economia fra Europa ed Asia. Come ha scritto nella sua opera capitale di strategia post-sovietica, «The Grand Chessboard», «Eurasia is home to most of the world’s politically assertive and dynamic states. All the historical pretenders to global power originated in Eurasia. The world’s most populous aspirants to regional hegemony, China and India, are in Eurasia, as are all the potential political or economic challengers to American primacy. ... Eurasia accounts for 75 percent of the world’s population, 60 percent of its GNP, and 75 percent of its energy resources. Collectively, Eurasia’s potential power overshadows even America’s Eurasia is the world’s axial supercontinent. A power that dominated Eurasia would exercise decisive influence over two of the world’s three most economically productive regions, Western Europe and East Asia. A glance at the map also suggests that a country dominant in Eurasia would almost automatically control the Middle East and Africa. What happens with the distribution of power on the Eurasian landmass will be of decisive importance to America’s global primacy and historical legacy».