Sulla Siria, qualche informazione vera
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«Non erano tre francescani i decapitati», smentisce l’agenzia cattolica Sir. E poi: «Il cadavere di padre François era integro». Sono belle consolazioni, ammettiamolo: tre uomini sono stati decapitati dai «liberatori» che noi occidentali armiamo ed addestriamo, ma non erano francescani. Forse un ortodosso, chissà. E padre François è morto il 23 giugno, non nel video diramato... forse una pallottola vagante, forse aveva fatto resistenza. Sia pace all’anima sua.

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Fra tante disinformazioni su quel che avviene in Siria, cominciamo a mettere il lettore su un terreno solido: il lato petrolifero della tragedia, una delle possibili motivazioni.

Senza navigare su un oceano di greggio come il vicino Irak, la Siria ha riserve di un certo valore (molto più che i vicini Turchia, Libano e Giordania che sono a secco), e più che promettenti giacimenti di gas nelle acque territoriali. Soprattutto, la sua posizione geografica ne fa un punto di passaggio non-evitabile per il trasporto degli idrocarburi estratti dalla parte interna del Medio Oriente fino al Mediterraneo e ai mercati europei di consumo.

Un po’ di storia



I campi petroliferi siriani in corso di sfruttamento si trovano nel Nord-Est del Paese. Come si può notare dalla carta, i ricchissimi giacimenti iracheni si trovano sull’altro versante del confine, nel Kurdistan iracheno, area di Kirkuk. La linea di confine che praticamente divide i campi petroliferi non è stata tracciata per caso: è il risultato dell’accordo Sykes-Picot, con cui nel 1917 Francia e Regno Unito si divisero le spoglie dell’Impero Ottomano, dividendosi anche i giacimenti (lo stesso trucco è stato usato dagli inglesi quando, dovendo concedere l’indipendenza all’Irak, lo separarono dal Kuweit, e il confine tra i due nuovi Stati – per puro caso – divideva in due il gran giacimento di Rumaila, motivo dell’invasione di Saddam nel 1990). La Società delle Nazioni di allora (la stessa che impose le sanzioni all’Italia per l’occupazione dell’Etiopia) concesse la Siria in protettorato alla Francia, e l’Irak alla Gran Bretagna. Parigi si accorse presto che le era toccata la parte più magra del bottino imperiale; ci furono roventi tensioni (la Francia avendo l’impressione di essere stata infinocchiata da Londra). La soluzione venne nel 1927, quando i giacimenti del Nord-Irak furono operati da una società mista, la Irak Petroleum Company, con quattro azionisti detentori ciascuno del 23,75% del capitale: BP, SHELL, ESSO, e la Compagnie Française des Pétroles, appositamente creata. Il restante 5% restò a Gulbenkian, un miliardario armeno che aveva la concessione originaria. L’ingerenza degli interessi anglo-francesi (e americani) ha travagliato l’area da allora.

L’oleodotto Kirkuk-Banias

Questo antico oleodotto è stato creato nel 1952, ed ha funzionato egregiamente per mezzo secolo; solo nel 2003 è stato bombardato dall’aviazione USA e non è stato più riaperto. Come mai? Nel 2003 regime siriano ha condannato l’invasione americana dell’Irak (pardon, volevo dire «liberazione»), e Washington s’è accorta da quel momento che gli Assad sono contrari all’espansione della democrazia, e quindi un pericolosissimo nemico per tutti noi, e i nostri valori. Uno Stato terrorista, come del resto comprovava anche Israele. Dunque, andavano puniti e l’economia dell’intero Paese indebolita. Nel 2004 il Congresso ha varato il Syria Accountability Act, letteralmente la Legge che richiama la Siria alle sue responsabilità, un durissimo pacchetto di sanzioni commerciali e finanziarie, teso a minare ed isolare il regime.

L’oleodotto Kirkuk-Ceyhan



Per escludere la Siria dai benefici del greggio e delle royalties, è stato realizzato l’oleodotto da Kirkuk a Ceyhan in Turchia, che ostentatamente passa al difuori dei confini dello Stato damasceno. Il guaio è che, per evitarlo, l’hanno fatto passare per le aree kurde della Turchia; così la tubatura è stata praticamente consegnata in ostaggio al PKK e ai suoi terroristi, che per dispetto ad Ankara l’hanno fatta saltare più volte. Questa linea resta allo stato attuale il solo e vulnerabile mezzo per far giungere in Europa il greggio del Nord-Irak (sotto autonomia kurda).

La massima colpa di Assad

A guardare la tabella sotto, si capisce meglio perché il regime siriano è odioso e pericoloso per i nostri valori: la sua produzione petrolifera è gestita dalle sue compagnie nazionali Syrian Petroleum Company e Syrian Gas Company; i soci stranieri hanno solo quote di minoranza. Siccome le riserve petrolifere siriane sono valutate a 2,5 miliardi di barili ancora non sfruttate, si capisce che per i valori dell’Occidente sarebbe preferibile se il potere a Damasco lo prendessero i Fratelli Musulmani, che sono ferventi liberisti globali e dipendono dalle elemosine americane per reggersi al potere in Egitto, o ancor meglio se il Paese fosse spezzato in tanti pezzettini di un puzzle (l’espressione è del ministro franco-ebreo degli esteri Fabius) governati da jihadisti e takfiristi di «Al Qaeda», magari con l’aiuto della NATO. I liberatori ammazza-cristiani certamente si affretterebbero a sciogliere le due ditte nazionali e lasciare il grave onere dell’estrazione alle BP, SHELL, EXXON, e a Total, ossia ai francesi. Un po’ come nella Libia liberata. Un ritorno al 1927.


L’evoluzione

La tabella qui sotto mostra come la politica di autonomia petrolifera della Siria abbia funzionato: dopo un picco nel 1998, la produzione continua a diminuire. Un po’ perché i giacimenti sono vecchi e sfruttati da decenni, molto per la chiusura dell’oleodotto Kirkuk-Banias. Alla fine del 2011, la guerra civile ha intaccato ancor più la produzione (e il consumo). Damasco si regge economicamente per l’aiuto di Mosca e Pechino, oltre che di Teheran.



Belle prospettive di crescita

Il regime siriano, prima, s’era dato molto da fare per aumentare la capacità di produzione nazionale aprendo nuovi giacimenti. Aveva iniziato un vasto programma di esplorazioni e cercato soci europei: nel 2008 Nicolas Sarkozy aveva ricevuto Bashar Al Assad all’Eliseo, e negoziato con lui la concessione di un’area di ricerca per Total.


Per il gas, ancor meglio

Le risorse di gas nel Mediterraneo orientale sono, si assicura, enormi; l’Egitto già estrae in mare sopra il delta del Nilo, Israele febbrilmente sviluppa il campo «Leviathan» (rubato ai palestinesi), che dovrebbe cominciare a funzionare nel 2017. La Siria, come si vede, ha la sua bella fetta; ha delimitato le zone di prospezione nelle proprie acque territoriali, ma la guerra le impedisce di avviare le esplorazioni.



Non piace al Katar

Soprattutto, i giacimenti di gas siriani, abbondanti e più vicini ai mercati europei, farebbero troppa concorrenza al gas del Qatar. Questo emirato possiede la terza riserva mondiale di gas nel mezzo del Golfo Persico, il Qatar Morth Dome (900 miliardi di metri cubi), proprio a fianco del giacimento iraniano South Pars, insieme a cui costituisce la più grande riserva mondiale. Il problema per il Qatar è dare il gas in Europa. Nel 2009 l’emirato e la Turchia avevano tentato di negoziare con l’Arabia Saudita per la costruzione di un gasdotto che sarebbe passato sul territorio saudita, per poi raccordarsi al «Nabucco» (Azerbaijan-Turchia: il Nabucco, voluto dall’Unione Europea spinta dai francesi in funzione anti-russa ed anti-iraniana, è un totale fallimento: il gas prodotto dall’Azerbaijan non basta nemmeno lontanamente ad occupare la portata del Nabucco, nemmeno per la metà, rendendolo del tutto anti-economico). L’Arabia Saudita, concorrente del gas del Qatar ancorché sua «alleata» nel sunnismo e nella fornitura di ribelli liberatori in Siria, ha rifiutato il passaggio sul suo territorio. Il tracciato dovrebbe dunque per forza passare per Sud-Irak, Giordania e Siria onde raggiungere la Turchia, suo capolinea. E la Turchia ha già ultimato la sua parte della conduttura sul proprio territorio, ed aspetta avidamente l’arrivo del gas dal Qatar; Erdogan ha già firmato un accordo con 4 Stati europei garantendo la fornitura. Quanto alla monarchia del Qatar, arde dal desiderio di raddoppiare la sua produzione ed esportazione di gas naturale liquefatto (GNL) da 31 a 77 milioni di tonnellate. Che i liberatori e ribelli si diano da fare! Assad è l’ostacolo al passaggio; armi ai liberatori ceceni, sauditi ed italioti convertiti! Jihad e democrazia! Morte ai francescani ed altri idolatri!

Ma come si può intravvedere, le cose non funzionano come progettato. Assad must go! Assad se ne vada! , è il motto con cui l’Occidente ha accompagnato l’avanzata dei «liberatori». Per adesso, se n’è andato l’emiro del Qatar, lo sceicco Hamad, che ha appena abdicato a favore del figlio Tamin: si sussurra, su ordine di Washington. Lo sceicco s’era troppo allargato nelle sue ambizioni come imperialista occidentalista anti-Assad. Morsi ed Erdogan «must go», urla una parte consistente della loro popolazione.

Quanto all’ebreo francese, miliardario e ministro degli Esteri Laurent Fabius, che spinge freneticamente per l’intervento NATO contro la Siria, ha appena subito una umiliazione molto indicativa e per lui pericolosa (di cui ovviamente i nostri media non hanno parlato): l’intero corpo degli alti ufficiali francesi, generali dell’Armée in servizio e a riposo, hanno opposto un netto rifiuto alla volontà di Fabius di far iscrivere Hezbollah nella lista delle «organizzazioni terroriste» dell’Unione Europea. L’esercito francese infatti ha delle truppe di interposizione nel Sud del Libano: «Dovranno considerare Hezbollah come dei terroristi, e se sì, quali azioni dovranno intraprendere? Come si riducono i rapporti con gli abitanti sul Libano meridionale, dato che quasi tutti sostengono Hezbollah?». Queste le provocatorie domande che gli altissimi gradi hanno fatto avere a Fabius, ricordandogli che ben nove sono i centri «culturali» francesi in Libano, e tanti gli interessi che sarebbero in pericolo di attentati e ritorsioni: nel nome dell’interesse nazionale – alludendo al sospetto che Fabius coltivi un «interesse nazionale» per uno Stato diverso, quello ebraico. Quasi un ammutinamento. Magari persino Fabius must go, prima di Assad.

Sul terreno, dopo la riconquista di Al-Qusayr da parte delle truppe regolari siriane, le cose non vanno benissimo per i ribelli, che sono con le spalle al muro. Al Jaseera, la tv del Qatar, proprio in questi giorni, mostrava aspri combattimenti nella cittadina di Tal Kalakh, vicina a Qusayr, a dimostrazione dell’eroica resistenza dei ribelli e dei feroci, vili bombardamenti dell’armata di Assad «contro la sua stessa popolazione». Per disgrazia, a Tal Kalakh era presente proprio nelle stesse ore del 24 giugno Patrick Cockburn, inviato speciale per l’Independent di Londra, che ha scritto: «Fumo, non ne ho visto. E nemmeno annusato».

The pro-rebel Al-Jazeera Arabic satellite television channel claimed smoke was rising from the town. I did not see or smell any.

Ciò che Cockburn ha visto coi suoi occhi, è «la resa di 39 capi locali dell’armata di liberazione siriana, con le loro armi, che hanno cerimoniosamente deposto davanti al muro della stazione militare», e soldati siriani a posti di blocco «rilassati, senza elmetto, alcuni disarmati». (Tal Kalakh: Syria's rebel town that forged its own peace deal)

Apparentemente, era avvenuto un accordo fra i ribelli – almeno quelli locali, gli stranieri se la sono filata – e l’armata di Assad. Cockburn ha persino intervistato un capo ribelle locale, che gli ha detto di essere stato prima un poliziotto, e di contare di riprendere il suo lavoro dopo la pacificazione. Non sembrava spaventato né umiliato.

«I termini dell’accordo restano misteriosi», scrive Cockburn, ma è chiaro che siano stati i saggi anziani della cittadina, all’orientale, a fare da mediatori e a portare alla ragione i capi locali. Con l’appoggio di Monsignor Michel Naaman, Syriac Catholic priest in Homs, che è stato spesso attore di questi accordi di mediazione, e che gli ha detto: «I vecchi della città ne hanno visto troppa parte danneggiata, e non vogliono che sia distrutta completamente». Il che può contribuire a spiegare perché i jihadisti con accento straniero decapitino personaggi, che indicano come francescani. Tal Kalakh aveva, prima, 55 mila abitanti, ed oggi tutti sperano che la vita ritorni.



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