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Sempre più suicidi fra i soldati USA
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L’ultimo caso è avvenuto l’8 settembre a Fort Hood: un soldato di 22 anni litiga con il suo comandante diretto, un sottotenente di 24; il soldato spara e uccide l’ufficiale, poi rivolge l’arma contro di sè. Entrambi membri della 1st Cavalry Division, erano tornati a dicembre da un turno operativo in Iraq durato 15 mesi, la divisione era ora in riaddestramento a Fort Hood per essere reimpiegata in Iraq quest’inverno, stavolta per dodici mesi.

Per la prima volta, il colonnello Elspeth  Ritchie, lo psichiatra della US Army che di  solito non ha il permesso di rispondere alla stampa qualche verità, è stato autorizzato ad ammettere: «I ripetuti e prolungati turni di combattimento in Iraq e Afghanistan provocano problemi relazionali (sic), un fattore importante nei suicidi» (1).

Già gli psichiatri militari americani della seconda guerra mondiale avevano constatato che, dopo 180, massimo 220 giorni di operazioni belliche, anche il soldato più coraggioso è spezzato e inutilizzabile, peso morto per il suo reparto (non si fa l’abitudine all’orrore). Le troppo scarse truppe volontarie USA - 150 mila invece dei 400 mila richiesti invano dallo Stato Maggiore a Rumsfeld  per invadere l’Iraq - sono continuamente reimpiegate, come si vede, per 15 mesi consecutivi, oltre 400 giorni; i turni operativi continuamente prolungati, i riposi in patria sempre rimandati e accorciati.

Non per caso il suicidi di militari USA sono aumentati del 500% tra  il 2002 e il 2007, al più alto livello dal 1980, ossia da quando si tengono statistiche sui casi. I Marines, truppa d’assalto, sono i più esposti : fra loro i suicidi sono raddoppiati dal 2006 al 2007.

«Si tolgono la vita 120 reduci la settimana, 17 al giorno», dice Penny Coleman. Vedova di un reduce del Vietnam che si suicidò una volta a casa, Penny Coleman conduce una sua battaglia informativa contro il muro di gomma che cerca di nascondere questa  indicibile tragedia del bellicismo di Bush. Lo fa sul suo sito che si chiama, significativamente, «Flashback»: il ritorno ossessivo, per flash, delle memorie inconfessabili per i giovani veterani che tornano.

Il dato dei 120 suicidi per settimana non viene dagli organi militari; è stata la catena CBS a ricostruirlo, chiedendo a 50 Stati le statistiche della mortalità fra i reduci.

La Task Force sulla Salute Mentale del Pentagono riconosce che «40% dei soldati, un terzo dei Marines e metà delle Guardie Nazionali» (questi poveri soldati di risulta, i richiamati sbattuti in Iraq) soffrono di gravi disturbi mentali».

La «soluzione» trovata dal Pentagono è tipica: somministrazioni dello psicofarmaco propranalol per ridurre lo stress post-traumatico. Il tutto sancito da una legge del 2007 chiamata - ridicolo trionfalismo - «Psychological Kevlar Act».  Il kevlar, come noto, è la fibra che compone i giubbotti anti-proiettile. La promessa è di fornire la truppa di un giubbotto anti-proiettile farmacologico per la coscienza.

«Il moderno addestramento al combattimento», spiega il tenente colonnello Peter Kilner, docente a West Point, «condiziona i soldati a reagire per riflesso agli stimoli; con ciò aumenta al massimo la letalità del soldato, ma ciò si ottiene scavalcando la sua autonomia morale. I soldati vengono condizionati ad agire senza considerare le ripercussioni morali delle loro azioni; sono resi atti ad uccidere senza previa decisione cosciente. Se non riescono a a giustificare a se stessi il fatto che hanno ucciso un altro essere umano, essi probabilmente, e comprensibilmente, soffriranno un enorme senso di colpa. Questa colpa si manifesta come stress post-traumatico e guasta le vite di migliaia di uomini che hanno compiuto il loro dovere in battaglia».

Dunque è da questo che il kevlar psichico, il propranalol, protegge?

«Non posso fare a meno di pensare», scrive Penny, «che quella che si ottiene è una sorta di lobotomia morale. Non riesco a immaginare quale parte dell’io deve essere troncata o paralizzata   affinchè i soldati non siano turbati da ciò che essi, e non diciamo noi, sentirebbero altrimenti come moralmente revulsivo. Un soldato che ha perso un braccio può ancora tornare nel seno della sua famiglia, ha ancora dei valori della società che condivide. Ma penso al soldato che ha visto il suo camerata emulsionato da una bomba, a cui è ordinato di investire bambini per la strada per non rallentare il convoglio, o che si è accorto troppo tardi che la donna portava un bambino e non un ordigno, ed è stato amputato della capacità di sentire orrore e terrore; questo soldato che torna a casa senza poter più sentire pietà  o rimorso, ha perso qualcosa di più prezioso di un braccio».

E la amputazione morale è ovviamente più pericolosa per la società a cui torna dopo la guerra.

Le violenze domestiche nelle famiglie dei reduci sono, per ammissione del Pentagono, cinque volte più frequenti che fra la popolazione civile generale.

Nell’ambiente militare, in cui sono sciaguratamente arruolate donne, si sono registrati 2.374 casi nel 2005, con un aumento del 40% rispetto all’anno precedente; e il numero dev’essere
spaventosamente più alto se, come ha ammesso il generale di brigata K.C. McClain, si valuta che solo il 5% delle violenze sessuali vengano denunciate dalle vittime.

Parte dell’addestramento - o del condizionamento militare in USA - consiste nel «desensibilizzare»  i soldati maschi alle grida e ai gemiti di donne che sono violentate o torturate, durezza utile negli interrogatori (2).

«Non mi pare irragionevole dire che queste tecniche di desensibilizzazione hanno una relazione con l’altissimo tasso di violenze domestiche fra militari e reduci», dice la Coleman: «E’ poi tanto strano che uomini che sono specificamente addestrati ad ignorare il dolore e la paure di donne, abbiano difficoltà, una volta tornati a casa, nei rapporti con le mogli e le figlie?».
Gli orrori visti o commessi, l’esecuzione letale di ordini illegittimi, le uccisioni casuali da reazione, la moltiplicazione delle missioni in zona di operazione che distorce le percezioni, la colpa sorda e muta di aver commesso atti che in una società normale sono puniti... e per di più lo psicofarmaco che attutisce e paralizza il rimorso, esso stesso incitatore probabile di atti atroci («ammazzo, tanto poi prendo la pillola»).

Tutto ciò è mostruoso. E’ spaventosa questa deformazione di anime in guerre non necessarie, su cui grava già per sè un’ambiguità morale invincibile.

Quanto poi al kevlar psichico, è una fiducia mal riposta: le memorie-incubo degli atti commessi, dormienti per anni, risalgono alla coscienza dopo decenni; i suicidi possono avvenire anni dopo. per un flash-back innominabile.

Circola su internet una notizia, secondo cui 21 soldati  della 57ma Divisione  Aerotrasportata  avrebbero commesso suicidio in massa in Iraq, e sedici sarebbero morti, apparentemente dopo avere eseguito massacri di donne e bambini (3).

La fondatezza dell’informazione è incerta: la fonte è l’agenzia iraniana Fars, che cita elementi delle forze di sicurezza irachene; non esiste una 57ma Divisione. Ma se fosse accertata, segnerebbe un’ulteriore fase della malattia militare americana. Apparentemente, dal 2003 anno dell’invasione, 600 soldati americani, fra cui ufficiali di alto grado,  si sono tolti la vita in Iraq.




1) Penny Coleman, «Suicide attempts for vets jump 500% in five years, and government ignores it», Alternet, 11 settembre 2008.
2) Eric Baard, «The guilt-free soldier», Village Voice, 21 gennaio 2003.
3) «16 US troops commit suicide in Iraq», Fars  News agency, 2 settembre 2008.


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