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Siamo noi i farisei?
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Nei giorni del Papa in Israele, durante una Messa feriale, una lettura mi colpisce come uno schiaffo. E’ il Salmo 2:

«... S’accampano i re della terra
e i potenti hanno fatto alleanza
contro il Signore e il suo consacrato:
‘Spezziamo (dicono) le loro catene,
e il loro giogo gettiamo via da noi!’
Colui che siede nei cieli se ne ride,
(...) e parlerà nella sua ira:
(...)
‘....Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato!
(...)
Ti darò le genti come tua eredità,
tua porzione saranno i confini della terra.
Li spezzerai con verga di ferro
come vaso d’argilla li frantumerai
».

Perchè uno schiaffo? Per noi cristiani, questo salmo annuncia  il regno universale di Cristo, e il suo giudizio dell’ultimo giorno. L’Apocalisse XII indica nel figlio maschio della Donna vestita di sole il destinato a «governare le nazioni con scettro di ferro», Cristo Giudice, per noi.

Ma provate a leggere il salmo come lo leggono gli israeliani, oggi trionfanti, tornati nella loro terra promessa, secondo loro esuadimento dell’Alleanza. Non a Gesù, ma a se stessi riferiscono le parole: «Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato». E in senso del tutto politico la promessa che segue: ti darò i goym «in tua eredità», dominerai fino ai confini del mondo. E quel dominio sulle genti non ebree sarà tutto un «frantumare come vasi», uno «spezzare con verga di ferro», un imporre «catene» un mettere al giogo. Perchè così e solo così gli ebrei intendono il loro comandare. Non già la cordiale chiamata a partecipare all’opera comune, che fu il «comando» per Roma, ma il contrario: incatenare, soggiogare uomini, frantumare ossa, spezzare vite. Per gli «altri», non c’è mai una parola di pietà. Agli altri, nessun diritto è riconosciuto.

Letteralmente così. La Bibbia letta senza la luce di Cristo è un libro spaventoso, che incita al crimine (1). Ed è così che lo leggono - come un programma politico - gli abitanti di uno Stato ultra-armato, con 200 testate nucleari, e nessuno scrupolo mai dimostrato verso il prossimo. Gente che ha sferrato guerre contro i vicini, e da ultimo guerre contro inermi, sempre più fitte: in Libano nel 2006, contro i prigionieri di Gaza. Biblicamente, li torna a spezzare con verga di ferro, li frantuma come vasi d’argilla. E lo farà sempre, perchè questo intende per il suo «riscatto», l’avverarsi della promessa, esclusiva a vantaggio di Israele.

Questo salmo mi si staglia ancora bruciante nel cuore, davanti alle parole del Papa che (dicono i giornali) ribadisce «l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo», o secondo altre versioni, «il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo».

Il Papa, sul monte Nebo, ha ribadito «l’unità dei due Testamenti». Ha auspicato che «l’odierno incontro possa ispirare un rinnovato amore per il canone della Sacra Scrittura, e il desiderio di superare ogni ostacolo alla riconciliazione tra cristiani ed ebrei, nel rispetto reciproco e nella cooperazione al servizio di quella pace a cui la parola di Dio ci chiama».

Personalmente, lo confesso, provo sgomento. L’unità dei due Testamenti è precisamente ciò che i rabbini rifiutano. Il rabbino Jacob Neusner, grande interlocutore del Papa, non può essere più esplicito: «Il cristianesimo non è la ‘religione figlia’ e non esiste alcuna tradizione giudaico-cristiana. Giudaismo e cristianesimo sono religioni del tutto autonome»… Toaff: «La religione ebraica è per il popolo ebreo e basta» (2). Quanto alla «pace e cooperazione» cui dovrebbe portare la «parola di Dio», gli ebrei ne hanno un’idea opposta. Nessuna cooperazione, solo frantumazione, dominio attraverso il terrore.
Ohimè, sembra una triste e comica scenetta televisiva: «Dobbiamo stare vicini-vicini», continua a dire la gerarchia cattolica, a gente che, giustamente dal suo punto di vista, recalcitra e la respinge.

Toaff non poteva essere più chiaro: «L’epoca messianica è proprio il contrario di quello che vuole il cristianesimo: noi vogliamo portare Dio in terra, e non l’uomo in cielo». La religione ebraica «non parla mai dell’aldilà». L’epoca messianica è quella presente, per loro; ne è segno il ritorno in massa in Israele; è l’inizio del regno dell’aldiquà.

Non è questione di unirsi nei «canoni della Sacra Scrittura» (fra l’altro, per i rabbini, ai non-ebrei è vietato leggere i canoni: sotto pena di morte, nel regno a venire), bensì del modo diverso di leggerli.  Per loro, il Salmo 2 non è una metafora: si tratta di incatenare e soggiogare i re e i popoli della terra.   Nè il programma prevede alcuna «riconciliazione tra cristiani ed ebrei», ma frantumare, spezzare con verghe di ferro. E ora, per loro, il regno è imminente. E siccome, palesemente, siamo alla fine del «tempo dei gentili», Israele esegue fisicamente la frantumazione (3).

E’ questo il «Regno» di costoro «e basta». Dovremmo piegarci?

Subito dopo, però, mi trovo a chiedermi se questa mia personale revulsione non sia peccaminosa chiusura alla Parola. Se - più precisamente - non sia la stessa revulsione che i farisei provarono davanti a Gesù, e che li indusse a rigettarlo e ad ucciderlo.

Perchè non avevano torto, i farisei, dal loro punto di vista. Poco o nulla nelle loro scritture li preparava a un Messia proclamante «il Mio regno non è di questo mondo», a un Re senza potere.

Quasi tutto invece, alla promessa di un dominio perenne su tutti gli altri popoli, all’incontrastato asservimento (nel «terrore di Te») delle genti, rese tributarie dei loro tesori, creditrici in eterno di Israele che non sarà «debitore di nessuno».
Ancor oggi il rabbino Neusner lo dichiara: «... mentre i cristiani credono (...) nel regno dei cieli, gli ebrei costituiscono, in terra e nella propria carne, il regno di sacerdoti».

Si ha un bel sottolineare la «continuità» tra l’Antico Testamento e il Cristo; ci fu, eccome, «rottura».  Rabbi Neusner lo conferma: Gesù, dice, si rivolge «ad ogni uomo, a tutti gli uomini», anzichè «allo Stato e all’ordine sociale di Israele, l’Israele Eterno» (4). Ci fu rottura, eppure Cristo pretese che gli ebrei e i farisei accettassero, aprissero il cuore alla novità del Suo messaggio. Che rinunciassero alle loro certezze e dottrine, per il Vangelo universale. Era, per loro, molto difficile: l’ambiguità dei sacri testi ammetteva la lettura carnale.

Per questo mi domando: non siamo noi, il sottoscritto, don Nitoglia, Arai, come quei farisei che non capirono i tempi nuovi? Che stettero puntigliosamente attaccati alle loro scritture e alla loro lettura?

E’ un interrogativo serio, perchè ne va della salvezza dell’anima.

Perchè, se non ve ne siete accorti, il nostro, di noi cattolici, sta diventando un «vecchio testamento», o almeno un testamento intermedio, che deve essere superato, che sta evolvendosi.

Lo disse chiaro l’allora cardinal Ratzinger in un discorso pronunciato davanti ai rabbini a Gerusalemme già nel ‘94: «Dopo Auschwitz» (questo nuovo Sacrificio fondante del cattolicesimo) non si può più ammettere che «la fede in Gesù di Nazareth come figlio del Dio vivente, e nella croce come redenzione dell’umanità implica necessariamente una condanna degli ebrei per la loro cecità, in quanto colpevoli della morte del figlio di Dio» (5).

E già tre Papi, ormai, hanno sancito che l’accusa di deicidio non si deve più elevare, che l’Alleanza degli ebrei resta imperitura, che hanno il diritto di aspettare ancora il Messia. E che non hanno bisogno di convertirsi a Gesù, mantenendo una loro autonoma via di salvezza.

Ora, secondo gli Atti degli Apostoli (2, 14-41), scritti da San Luca evangelista, il giorno di Pentecoste il primo Papa, Pietro, pieno di Spirito Santo, arringò così la folla ebraica: «Uomini d’Israele, udite queste parole: Gesù nazareno fu un uomo accreditato da Dio presso di voi con prodigi, portenti e miracoli, che per mezzo di lui il Signore operò fra voi, come ben sapete. Dio, nel suo volere e nella sua provvidenza, ha permesso che vi fosse consegnato, e voi lo avete ucciso, per mano di empi senza legge. Ma Dio lo ha risuscitato (...). Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Messia questo Gesù che voi avete crocifisso».

«A queste parole furono profondamente turbati, e dissero a Pietro e  agli altri apostoli: ‘che cosa dobbiamo fare, fratelli?’. Pietro rispose: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo... Salvatevi da questa generazione perversa».

Non c’è ostilità in Pietro, ma condanna sì: accusa «gli ebrei» di aver ucciso Gesù. E chiede loro di farsi battezzare, anzitutto loro: «Per voi è infatti è la promessa e per i vostri figli», oltrechè «per tutti coloro che sono lontani e che il Signore chiamerà». Ebrei e goym: la vecchia alleanza dunque non basta a salvare (come ribadirà Paolo), e dopo Cristo, «non c’è più nè giudeo nè greco».
Dunque, il primo Pietro dice il contrario degli ultimi Pietri. Ora, si pone il cocente problema: se noi cattolici «tradizionalisti» sbagliamo a restare fedeli al primo Pietro, come i farisei sbagliarono a restare attaccati alle loro Scritture che promettevano ossa frantumate e catene agli altri popoli. Certo, il Nuovo Testamento ci parla di un regno imperituro, di una alleanza «nuova ed eterna». Ma  non stiamo sbagliando lettura? Anche i farisei non leggevano nella Bibbia che la loro Alleanza doveva passare.
In linea di principio, nulla impedisce che Dio ci prepari una ulteriore novità. Una novità che noi, precisamente a causa della nostra fedeltà al Cristo sofferente, al Crocifisso, siamo a rischio di non capire, e di rifiutare. In linea di principio, non possiamo nemmeno escludere che ciò che noi chiamiamo l’eresia gioachimita, sia vera: come all’età del Padre è succeduta l’età del Figlio, così a questa succederà l’ultima età, più perfetta, dello Spirito. O che alla Chiesa di Pietro debba succedere una «chiesa di Giovanni», tutta spirituale, come quella di Pietro è - è stata - disciplinare e giuridica.

Noi ci ritraiamo all’idea che Cristo sia «insufficiente», che la rivelazione debba ancora essere compiuta, perchè con  Cristo (come dice Cacciari) non siamo ancora «figli», ma «servi», obbligati ad obbedire ai comandamenti, quindi non liberati. Ma non si ritrassero così, esattamente, i farisei di fronte a Cristo, all’idea che la loro Alleanza era «insufficiente», che il messaggio di Dio subiva una evoluzione?

Leon Bloy giunse a prevedere questo nostro ritrarsi di fronte alla Terza Età, quella in cui il Paracleto si sarebbe rivelato come il «Liberatore» finale. Nel suo saggio «La salvezza dai giudei», egli ci annuncia che la «Chiesa dei Santi e confessori» dovrà «necessariamente», contro il Nuovo Venuto futuro (lo «Spirito Creatore») rinnovare «lo scatenamento della sinagoga» contro Gesù.

Bloy disse anche che gli ebrei, nella terza età, avrebbero riconosciuto invece il liberatore come loro messia; perchè già oggi, condensando in sè «tutte le laidezze del mondo», lo rappresentano e prefigurano. Del nuovo messia, infatti, Bloy conosce il nome: è colui che è stato relegato nell’Abisso, e che aspetta la sua liberazione e rivelazione come Paracleto. E’ il portatore di luce, Lucifero (5).

D’accordo, d’accordo: per noi, questa è una versione della solita eresia, della solita gnosi luciferiana, l’annuncio che «la salvezza si ottiene attraverso il peccato», il desiderio di «liberazione» da ogni legge morale, la felicità della carne nell’aldiquà. D’accordo. Ma fu Maritain, con sua moglie Raissa ebrea, a pubblicare il libello di Bloy, giudicandolo «sublime». Su Maritain si sono formate generazioni di futuri Papi. E come sapere se non dobbiamo attendere il Regno di Lucifero, il regno d’Israele frantumatore, come ultimo e definitivo?

La Chiesa  gerarchica sa forse più di noi. Sul monte Nebo, il Papa si è paragonato a Mosè che vide solo da lontano la terra promessa: «Come Mose, anche noi non vedremo il pieno compimento del piano di Dio nell’arco della nostra vita. Eppure abbiamo fiducia...». Il Papa «guarda con fede e speranza al futuro che Egli ha in serbo per noi e per il mondo intero». Attenzione: il futuro; non l’aldilà, ma «il mondo a venire», come lo chiamano gli ebrei.

Sa qualcosa che noi non sappiamo? Che i cuori cattolici siano in evoluzione, che la Chiesa sia come tutte le religioni una via protesa «alla ricerca della verità», l’ha pure ripetuto ai dignitari musulmani. La verità, ci si rivela nel tempo, a poco a poco.
Dopotutto, «dopo Auschwitz», abbiamo capito qualcosa che il primo Pietro non capiva: che gli ebrei non devono pentirsi e convertirsi, che non hanno bisogno di Gesù. Il povero pescatore di Galilea era meno evoluto dei cardinali e del Concilio. Noi abbiamo fatto progressi.

Ciò significa che i Vangeli, che noi tre o quattro ci ostiniamo ad opporre alle innovazioni; quei testi, encicliche, padri della Chiesa che con tanta dottrina gon Nitoglia si impunta ad opporre alla Chiesa giudaizzante, «indissolubilmente legata» ai figli di Abramo, hanno cominciato ad essere «vecchio testamento». Duemila anni che sono passati, e devono essere superati. E che noi, come i farisei, rischiamo di renderci sordi e ciechi, per ostinazione, al nuovissimo testamento, al piano di Dio per il futuro.

Può essere, amici. Può essere benissimo. Dio è libero, e non si fa legare dai nostri testi invecchiati.  Come sapere se questo annuncio è una lieta speranza, oppure un inganno fatale, l’avvento dell’Anticristo?

Non so. Quale criterio può guidarci in questa nebbia? Forse solo questo: «Dai frutti li riconoscerete». Gesù guarì malati, sfamò folle, percorse la Palestina «facendo il bene». Se dobbiamo attendere una terza rivelazione, definitiva e libereatrice, di una cosa dovremmo essere sicuri: che non potrà consistere in ossa frantumate, in verghe di ferro con cui spezzare popoli che Israele considera nemici, in un terrore sul mondo, in bombe atomiche, in servitù permamente dei noachici. Che non potrà essere un regno chiuso nell’aldiquà, secondo la lettura del Salmo 2 come la fanno i rabbini.

Altrimenti, quel regno sarà il regno della pura forza senza limiti. Un regno, cioè, dove la forza del più forte è l’ultima istanza, la legge contro cui non c’è appello. Un regno dove i deboli, gli oppressi, gli affamati, non potranno invocare nè giustizia, e nemmeno misericordia. Se non c’è aldilà, non c’è infatti misericordia. Nessuna lacrima verrà asciugata, nessuna ingiustizia pagata. Nessun bambino di Gaza incenerito potrà fare appello ad una giustizia superiore a quella scritta nel Talmud; nè un derubato dal salario, o dalla finanza speculativa, potrà invocare alcun tribunale. I tribunali, nell’aldiquà, sono al servizio del più forte. Nell’aldiquà, la forza è l’ultima verità, e non ce n’è un’altra, come afferma Leo Strauss.

Di questo tipo di regni, ne abbiamo già visti. E sappiamo che la loro promessa di liberazione dell’uomo nell’aldiquà, si è rivelata menzogna, massacro, omicidio. Essi sono la prefigurazione dell’ultimo regno a venire?

Viviamo nella promessa che quest’ultimo regno mondiale, che si crede eterno, è destinato a cadere. E la nostra adesione, il frantumatore di popoli, non l’avrà mai.

E tuttavia, cerchiamo di non chiuderci, come i farisei. Da questo travaglio può venire il bene; anzi, ciò ci è stato promesso. Aspettiamo l’alba.

Nella nebbia che ci avvolge, ci sostiene una immagine, che fu donata ai pastorelli di Fatima, in quella parte del segreto che ci è stato dato conoscere: angeli che spargono, da annaffiatoi di cristallo, il sangue di infiniti martiri con cui aspergono le anime che si avvicinano a Dio. Da quel giorno, aggiungiamo al Rosario una frase che fu insegnata a Fatima: «... porta in cielo tutte le anime, soccorrendo soprattutto le più bisognose della tua misericordia».

Se questa preghiera ci è stata dettata, vuol dire che è per principio possibile che si salvino «tutte le anime», anzi «il mondo intero», senza distinzione di etnia, di fede, o senza fede. Altrimenti, non ci avrebbero detto di pregare così. Nonostante il mondo di qua appaia spaventoso, e la fede «perdente», Cristo sta salvando, e il sangue dei martiri può aver raggiunto la pienezza e abbondanza sufficiente per la conversione di «tutti», nell’ultimo misterioso istante di questa vita - vita che non dura. Le porte dell’inferno, nonostante ogni sviamento e inganno, ogni trucco di colui che «può fare prodigi tali da sedurre, se possibile, anche gli eletti», non prevarranno: come minimo, vuol dire che l’Eucarestia mantiene tutto il suo valore salvifico. Nonostante tutta la nuova teologia, ci resta l’Eucarestia, che è il nostro pane. Significa la Presenza Reale, e la sua abissale Misericordia: a cui dobbiamo aprire il cuore, non per ecumenismo vieto, ma con la convinzione che Cristo-Logos è venuto per tutti, e che questi duemila anni hanno accumulato abbastanza sangue, martirio, carità per «tutti».

Questa è forse una «evoluzione» ammissibile: la misura della carità è stata colmata, è oggi sovrabbondante.




1) Lo storico Arnold Toynbee sottolineò che il genocidio dei pellerossa che avvenne nell’America del nord, fu opera di protestanti biblici, che si credevano il popolo eletto, il nuovo Israele, e definivano i pellerossa «Amorrei, Cananei», popoli che nella Bibbia il Signore ordina di sterminare: e mise a confronto questo con il diverso atteggiamento dei cattolici spagnoli in Sudamerica verso i nativi.
2) Citato da Curzio Nitoglia, «Dal giudaismo rabbinico al giudeoamericanismo»,  Effepi, 2008, pagina 197. Anche per le citazioni seguenti rimandiamo a questo volume.
3) Anche Carlo Schmitt, il filosofo della politica, la modernità era il campo della «lotta tra cattolicesimo ed ebraismo circa l’interpretazione del senso della storia universale. Tale conflitto non era per Schmitt una questione accademica, ma vitale. La modernità è per lui il campo di questo grandioso scontro dal quale, con la secolarizzazione, gli ebrei uscirebbero vincitori (...). Se fosse vero, l’eone cristiano equivarrebbe a un errore (...). L’escatologia cristiana, basata sul peccato originale e sulla redenzione dell’uomo nell’aldilà, si sta rivelando come l’interpretazione perdente nella storia universale. Vincente è quella ebraica: l’umanità è in cammino progressivo verso il «regno di pace» futuro, lontano nel tempo ma situato nell’aldiquà  (...). Dal punto di vista del teologo politico che considera il cattolicesimo romano come il katèchon, la forza che frena l’Anticristo, ciò equivale alla vittoria dell’elite ebraica che vuole la dissoluzione (Franco Volpi, ‘Il nichilismo’, Laterza, 1997, pagina 89-90)».
4) Jacob Neusner, «Disputa immaginaria fra un rabbino e Gesù - Quale maestro seguire?», Piemme, 1996, pagina 46.
5) Joseph Ratzinger, «Molte religioni, una sola Alleanza», Edizioni San Paolo, 2005. Nel discorso, Ratzinger si sforza di dimostrare che «la morte di Cristo in croce trova una spiegazione teologica a partire dall’intima solidarietà con la Legge e con Israele», con «il giorno dell’Espiazione» (Yom Kippur). Come per il Concilio, predica dunque l’ermeneutica della «continuità» anzichè della «rottura». Immaginabile lo sconcerto dei rabbini israeliani. Parlava come fossero teologi accademici a talmudisti e a rabbini che in Israele, per esempio, vendono amuleti ai loro seguaci, fanno malocchi, credono alla kabbala magica. Ma detto questo, bisogna aggiungere: Ratzinger, in quel discorso ai rabbini, ha professato senza dubbio la sua «fede in Gesù di Nazareth». Ha detto, citando il catechismo (mi immagino le facce dei rabbini) quanto segue: «La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge (Torah). Il Discorso del Signore sulla  montagna, lungi dall’abolire o togliere valore alle prescrizioni morali dellla Legge antica, ne svela le virtualità nascoste (...). Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, dove l’uomo sceglie fra puro e impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza, la carità». Come poi questo si concilii con la vigenza della Antica Alleanza, è inspiegabile. Ma nel Papa mi pare di vedere un candore della colomba, cui manca forse l’accortezza del serpente: il Papa, ad esempio, interpreta l’11 settembre come aggressione dell’Islam all’occidente, perchè accetta la versione ufficiale, e dunque vede gli ebrei d’oggi come vittime  dei musulmani. E’ a mio parere un errore cruciale, un equivoco sulle vere forze anticristiche operanti nel mondo d’oggi. Ma dobbiamo perdonarlo ad un teologo ottantenne, con poca pratica del mondo e delle sue astuzie, menzogne e malvagità.



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