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Il capitano è infermo. I soldati non arretrino
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Quando mi capita di scorrere fugacemente i titoli di cronaca nera da quel sito di gossip che è divenuto il Corriere.it, rimango costantemente esterrefatto dalla quantità sempre in aumento di orrori, omicidi e violenze a carattere domestico. Il dato relativo al numero di padri che sterminano l’intera prole e poi si tolgono la vita impressiona sopra ogni cosa, quasi fosse diventato un cliché, un carattere ereditario del maschio contemporaneo – un ordine impartito da ‘chissà dove’, che come una falce sta mietendo sempre più vittime tra coloro che per primi avrebbero dovuto assumersi il compito di essere difensori della vita facendosi colonne portanti della famiglia (pensiamo all’esempio di San Giuseppe, a cui tutti i padri dovrebbero ispirarsi).

Le possibili ragioni di carattere “sociale” (ambiente, formazione, etc.), quelle di carattere “economico” (lavoro, debiti, etc.) o quelle maggiormente “psicologiche” (che scaturiscono dall’instabilità della coppia moderna, dal ruolo della donna all’interno della famiglia, etc.) potranno essere indicate come cause scatenanti che indurrebbero sempre più uomini a compiere gesti di ordinaria follia; ciononostante continuo a considerarle cause ‘secondarie’ o ‘pratiche’, sospettando che la vera origine di tale male vada ben “al di là” della sfera propriamente umana, cittadina ed etica. Se l’uomo si sta rompendo interiormente ed in maniera tanto dilagante, la causa principale, a mio parere, non va semplicemente ricercata nella società (altrimenti avrebbe avuto ragione Rousseau nel dire che l’uomo buono si corrompe per colpa della società cattiva); quello a cui stiamo assistendo, in senso più profondo e metafisico, assomiglia piuttosto ad uno scatenamento di forze che vanno oltre la natura visibile, forze che agiscono intorno all’uomo assediandolo dall’esterno, e verso cui l’uomo, oggi, si è votato, nella misura in cui le sue passioni sono per lui come idoli che adora.

Sto pensando al pozzo abissale descritto da San Giovanni nell’Apocalisse. E aprì il pozzo dell’abisso: e dal pozzo salì un fumo (…) e dal fumo del pozzo uscirono per la terra locuste. Attraverso un fumo che si sparge sulla terra, vengono riversate nel mondo mostruose creature, che l’apostolo chiama locuste (o cavallette), con le quali, secondo l’interpretazione esegetica più solida e comune, va probabilmente intesa una precisa categoria di demoni, i quali colpiranno gli uomini con tormenti atroci e simili ad una ossessione demoniaca di massa, perché a loro fu dato un potere [sugli uomini], come lo hanno gli scorpioni della terra (Apoc., cap. IX). Questo terrificante flagello assomiglierebbe ad un’aspersione di follia causante ogni genere di errore e di vizi; non si parlerebbe, qui, di qualche pandemia di massa (malattie e carestie sono anch’esse descritte nell’Apocalisse ma non in questo specifico passo), ma piuttosto di un ‘qualcosa’ che colpirà l’uomo in una sfera più intima e soprannaturale secondo la visione post-carolingia dell’unità sostanziale tra anima e corpo basata sulla psicologia aristotelica.

Se ad un tempo val pena di notare che secondo il parere di differenti correnti interpretative tali locuste – scatenatesi al suono della quinta tromba – potrebbero anche simboleggiare le eresie giudaizzanti del terzo secolo, distrutte dal Concilio di Antiochia ma tornate a colpire la Chiesa per mezzo del protestantesimo in epoca moderna, e che l’ipotesi più probabile vuole che tale flagello si riverserà sulla terra solamente alla fine dei tempi (il settimo sigillo a cui questa tromba appartiene riguarda quasi certamente i tempi che precederanno di poco il giudizio finale), la distanza da tali avvenimenti appare sempre più ridotta a giudicare dallo stato indescrivibile (per idolatria, follia omicida, errore e disordine) in cui versa oggigiorno il genere umano.

Stiamo come assistendo ad una anticipazione preparatoria di quanto accadrà al culmine della visione apocalittica di San Giovanni.

Come prima della venuta del Salvatore, Dio, per bocca di Isaia, aveva promesso che il suo Spirito, che racchiude tutti i doni e tutte le benedizioni temporali e spirituali, si sarebbe sparso non solo su Israele, ma sul mondo intero, per rigenerarlo, trasfigurarlo, e renderlo degno del Messia (Io spanderò acque sopra la terra sitibonda e fiumane sopra la terra arida: spanderò il mio spirito sopra la tua posterità, e la benedizione sopra la tua stirpe, Isaia, cap. XLIV), così oggi pare di assistere ad una effusione universale ma di tipo opposto, ovvero atta a preparare il mondo per l’arrivo di colui che sarà il contro-salvatore, che nella sua persona condurrà l’iniquità alle più alte vette. Se la benedizione segue lo spirito di Dio, la maledizione seguirà la comparsa del nemico di Dio (la qual cosa la si può scorgere anche nello scompiglio che ha colpito l’ordine naturale, perché esso segue i destini dell’uomo in quanto la redenzione ridonda a gloria della stessa creatura inanimata).

Tenendo presente l’unità sostanziale tra anima e corpo così come è stata insegnata dai teologi a partire dal XII secolo, tale ‘fase preparatoria’, secondo la mia opinione, sta attuandosi più o meno nel seguente modo: nell’uomo, attraverso i suoi sensi – i suoi occhi intesi come “porta aperta sull’anima” – si è introdotta quella che potremmo definire un’ossessione di massa; essa non sarebbe più perpetrata attraverso lo spargimento di idee infami (di cui l’uomo è ormai già pienamente imbevuto) bensì attraverso lo scatenamento delle immagini, che sono immediatamente più incisive e distruttive delle idee (le quali necessitano invece di un più intenso lavoro di ‘loggia’ e di una crescita molto più lenta); le immagini invece, di cui ormai subiamo un quotidiano e ripetuto bombardamento, si riversano in noi difilato come fossero un sedimento en plein air; se nell’immediato esse veicolano un costrutto narrativo avente un senso (all’interno di un involucro quale può essere un film ad esempio), successivamente si svilupperanno autonomamente dentro di noi, andando a palesarsi alla nostra soglia razionale in maniera del tutto differente – simili a flash improvvisi di cui non conosceremo la provenienza – producendo “comandi” utili a sollecitare effetti (= impulsi) disordinati che influenzano la nostra libertà e le nostre scelte: un preciso stimolo sessuale, o istruzioni che suggeriscono un’azione violenta e macabra, a cui però l’uomo dovrà sempre dare la sua volontaria adesione.

Quello che volgarmente chiameremmo “lavaggio del cervello” in tal caso non punterebbe semplicemente a provocare un cambiamento di opinione (lo sposare una idea o votare un candidato piuttosto che un altro) ma vorrà favorire la perdizione dell’uomo propriamente intesa, la quale può realizzarsi in svariati modi: in una vita mortalmente peccaminosa, fino a giungere alla violenza sul più debole, all’omicidio, al suicidio. Da notare che tale “semina” – effettuata principalmente attraverso il mezzo audiovisivo e la multimedialità in generale – non può provocare la “lobotomizzazione” totale dell’individuo [Dio difatti non permetterebbe mai un tale stato di cose perché verrebbe meno anche il libero arbitrio (velle = volere > dove c’è volontà c’è libertà), esclusiva caratteristica dell’uomo e da cui derivano merito o colpa] ma certamente può produrre un indebolimento della sua struttura (capacità di resistere al male) conducendolo alla progressiva assuefazione verso uno stato di disordine morale (= peccato, sempre volontario). L’impiego deviato dell’immagine, d’altra parte, è nello specifico di portata apocalittica, poiché il contrassegno della bestia del mare (l’anticristo), che il falso profeta (la bestia della terra) obbligherà gli uomini ad adorare con prodigi, sarà proprio un’immagine (della cui natura nulla sappiamo con precisione): 14E sedusse gli abitatori della terra mediante i prodigi che le fu dato di operare davanti alla bestia, dicendo agli abitatori della terra che facciano un’immagine della bestia (...). 15E le fu dato di dare spirito all’immagine della bestia, talché l’immagine della bestia ancora parli: e faccia sì che chiunque non adorerà l’immagine della bestia, sia messo a morte (Apoc., cap. XIII)

I teologi insegnano che al demone è lasciata la facoltà di ispirare all’uomo “immagini” dall’esterno, attraverso i sensi; è da qui che provengono i sempre più intensi sussulti che sentiamo di subire anche durante la nostra preghiera, in particolar modo durante la preghiera mariana, quando l’assalto del nemico tenta di farsi più forte e ci ispira le immagini peggiori, anche di bestemmia. Vi sarà certamente capitato; non dovete preoccuparvene: anche Cristo, nella sua innocentissima anima, si è arrossato di vergogna al punto da sudare sangue. Solamente Dio può muovere l’uomo dall’interno, toccando il suo cuore e suscitando i moti della sua anima (per approfondimenti sull’argomento rimando al Trattato di demonologia dell’oblato P. Paolo Calliari).

Tale effetto esteriore, tale assalto demoniaco che oggi l’uomo va subendo con sempre maggior prepotenza, è molto diverso da un “esperimento sociologico di massa” o dal “contagio chimico” causato da alimenti geneticamente modificati o dall’aria che respiriamo. Essendo un lavorio condotto da poteri propriamente tenebrosi, i quali vantano i loro operai nel mondo, la realtà che si vuole provocare nell’al di qua è una “maledizione” contraria ed opposta a quanto ci dice San Paolo nella Lettera ai Romani, quando spiega che quei che sono nella carne, non possono piacere a Dio. Voi però non siete nella carne, ma nello spirito; l’Apostolo introduce qui l’inedito insegnamento secondo il quale l’uomo è un tempio allo Spirito Santo e che il regno di Dio è dentro di noi quando la nostra interiorità è lasciata all’abitazione del Padre che lo trasforma prima dal di dentro e quindi lo riveste anche esteriormente della sua stessa carne (pensiamo ad un San Pio o ad una Santa Gemma Galgani). Se l’azione che vediamo compiere dalle schiere nemiche uscenti dal pozzo infernale sono tutte concentrate a guastare la nostra abitazione interiore che spetterebbe allo Spirito, capiamo bene che le scie chimiche, qui, non c’entrano affatto, né tantomeno gli hamburger di McDonald’s (come mi è capitato di leggere recentemente).

Gli autori di una tale propaganda sono di due “specie”: anzitutto i demoni propriamente detti, veri ispiratori di questa ossessione, lasciati “liberi” da Dio di agire per sconquassare il mondo e prepararlo alla venuta dell’anticristo; quindi quegli uomini che nell’al di qua si assoggettano ai prìncipi di questo modo; tali uomini li conosciamo per nome: essi sono gli eredi di quell’Israele carnale il cui nome è: «prevaricatore» (Is., 48, 8), il quale fa convergere tutte le forze tenebrose di cui dispone materialmente per sovvertire coll’ordine della salute eterna anche quello della vita umana propriamente detta, mettendo in primo piano, davanti agli occhi dell’uomo, tutto ciò che allontana l’uomo da sé (ovvero dalla sua interiorità) e quindi da Dio.

Il panorama generale, dobbiamo ammetterlo, appare senza speranza. Il cattolico però dispone degli strumenti per respingere tali assalti (quella stanza a porte chiuse da dove pregare il Padre che vede nel segreto), ed è in grado di formarsi una ferrea volontà per allontanarsene e per rinunciare alle pulsioni che tali immagini suggeriscono, e, soprattutto, nel subirle, dispone degli strumenti per individuare con precisione gli attacchi del nemico: è l’arsenale che Dio, attraverso i Sacramenti, ci mette a disposizione.

Questo scontro per condurre più anime possibili nella fossa sottostante (pensiamo alla visione di Fatima, di ciò stiamo parlando) può essere vinto, e con relativa facilità. Cristo vivo è difatti il modello di ogni resiliente, perché nell’unità della sua Persona divina, l’interiore sua forza spirituale andò al di là della vetta morale dell’eroismo comunemente inteso dall’uomo. Egli non si stancherà e non s’accascerà scrisse Isaia sette secoli prima della sua venuta. L’insistenza delle profezie sul suo «non aprire bocca» non deve essere interpretata come una rassegnazione passiva del Signore dinanzi al dolore della sua Passione, ma come una grandiosa forza d’animo che, essendo diventato inutile il parlare, agì. Questo silenzio operoso di Gesù andò alla conquista di ciò che sarà per la moltitudine la salvezza; la sua non fu una serenità impassibile di chi nulla sente, ma la vera trasparenza dello spirito, in grado di far scorgere quel segnale per cui l’uomo errante nel buio ritrova la sua vera strada.

L’uomo di oggi è esattamente all’opposto di tale modello (a causa dell’abbandono di tale modello): molle e pervertito, attaccato su tutti i fronti (spirituale e fisico) senza dotarsi di alcuna difesa, ha smarrito l’efficacia del sacrificio d’amore di Cristo da cui proviene l’eroismo e la fortezza morale per poter combattere ad armi pari con il nemico; troppo indaffarato a lasciarsi conquistare da un mondo che è tutto esteriorità, va cercando al di fuori di sé una consolazione passeggera quasi fosse un animale selvatico, similmente a come fanno le falene di inizio primavera, che assetate di calore volano verso una luce artificiale.

La cosiddetta massa umana (che è la stragrande maggioranza delle persone) si è volutamente privata di queste armi a carattere difensivo, rendendo il suo mondo interiore un terreno più che fertile per far dilagare e crescere il vizio (pensiamo all’omosessualità ad esempio); nel peggiore dei casi, nei soggetti più deboli ed esposti, ecco che tali assalti conducono alle scelte peggiori, quegli atti irrazionali di “cronaca nera” come uccidere con un’ascia i propri figli — che fino a poco tempo fa erano scenari propri al genere horror della cinematografia, ma che oggi appartengono al nostro Occidente.

L’uomo poi va corrompendosi inevitabilmente per causa della colpa originale, la quale, seppur mitigata negli effetti, rimane comunque una grave violenza fatta alla natura umana, che Dio ha creata nella perfezione dell’essere, destinato alla beatitudine: quanto più l’uomo si allontana dalla verità che lo custodisce lontano dal peccato, tanto più si perverte. È una conseguenza fisiologica ed inevitabile. Una tale situazione non fa meraviglia; bisogna guardarla con sufficiente lucidità e come un segno dei tempi; bisogna difatti che i secoli vadano a compimento.

Perché il momento è tale che senza un intervento di ordine superiore, un risanamento generale appare assolutamente impossibile. L’uomo da solo non potrà mai farcela. Ma Dio sì. Lo ha già fatto e può rifarlo nuovamente.

Dio ha i suoi strumenti per ribaltare la situazione. Qui entriamo nella visione della necessità di un “castigo a carattere correttivo”, obbligatorio per tornare ad imboccare la retta via. Dalla sacra scrittura impariamo che è proprio attraverso la punizione che Dio propone i mezzi per rendere possibile, secondo la sua giustizia, ciò che all’uomo è impossibile, ovvero la restaurazione e la salvezza, ovvero l’amore per Lui. Il castigo sarà tanto più severo quanto più il popolo avrà abusato dei benefici divini. Ma tutta la teologica più pura e bella, sgorgata da secoli di studio dell’Antico Testamento, ci assicura che Dio quando punisce lo fa a malincuore, perché gode di poter perdonare e vorrebbe sempre salvare; si rattrista delle pene che è costretto ad infliggere ed allontana il castigo non appena il peccatore si converte. Le punizioni, le morti, i cataclismi narrati nell’Antico Testamento sono scandalosi solamente per quegli uomini piccoli e presuntuosi di sapere ogni cosa. Da Isaia impariamo che Dio non castiga per forza di cose, ma quando è costretto lo fa sempre sapientemente, nelle debite misure, per purificare e mai per spezzare. Scopo ultimo dei suoi castighi è di ricondurre a Sé; quando la giustizia ha compiuto l’opera sua, interviene la misericordia. Un giorno a venire la punizione si configurerà come la più grande di sempre (il cataclisma descritto nel cap. XVI dell’Apocalisse: folgori, e voci, e tuoni, e successe un gran terremoto, quale, dacché uomini furono sulla terra, non fu mai terremoto così grande), alla quale però seguirà una misericordia al pari la più grande, tramite la quale scaturirà il trionfo finale del regno di Dio (la Gerusalemme Celeste).

Oggi siamo prossimi a dover fare i conti con qualcosa che anticipa tale realizzazione. Dio difatti sa bene che non c’è nessuno che rientri tanto facilmente in sé, riformando la propria esistenza, come colui che vede svanire tutto ciò su cui aveva appoggiato la sua vita. Il dolore che ne consegue, già di per sé stesso sanativo e soddisfattorio, è appunto la sottrazione di un fallace e falso punto di appoggio, affinché l’uomo possa ritrovare ciò che è il suo vero bene.

Per rude che possa apparire la mano del Chirurgo divino, quando penetra col ferro nelle carni vive, l’operoso amore ne è la guida e l’impulso e soltanto il vero bene degli individui e dei popoli lo fa intervenire così dolorosamente” disse il Santo Padre Pio XII il 29 giugno 1941, Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo.

Il problema dell’ora presente è ben più grave quando le insensatezze di questo mondo (la corruzione dell’interiorità da cui derivano principalmente i disordini morali e poi sociali) si moltiplicano indecentemente anche tra le file di coloro che dovrebbero essere “luce del mondo”, di coloro che dovrebbero non solo dare il buon esempio, ma essere realmente la manifestazione carnale della presenza di Dio sulla terra.

Parlo dei nostri sacerdoti, che per lunghi secoli avevano lottato tanto eroicamente nell’apostolato per strappare alla schiavitù del peccato le anime. Come mai, oggi, questa luce del mondo si è a tal punto ottenebrata? Come mai il sale della terra è a tal punto sciapo e svanito? Coloro nella cui vita doveva esserci la “via di vita”, danno, coi loro atti, l’esempio dei peggiori disordini. Coloro che dovrebbero essere al nostro fianco mentre la nave rischia il naufragio, sono invece i primi a cedere, lasciandoci esposti alle peggiori intemperie.

La corruzione dei sacerdoti, sempre più dilagante al pari di quella dell’uomo del secolo, atterrisce e preoccupa ben più di quella dell’uomo mondano. Nella cronaca nera, accanto agli omicidi ed orrori causati dai padri di famiglia, si nota sempre più la presenza di scandali gravissimi nei quali sono coinvolti sacerdoti della Chiesa Romana. Casi certamente eclatanti ed isolati quelli di preti donnaioli che si recano nei bordelli vestiti in talare, o quelli che vedono parroci organizzano giri di orge omosessuali nelle chiese, o sacerdoti che vengono arrestati dalla polizia dopo fughe disperate, che però farebbero intuire una situazione di degrado molto profonda; nell’emergere di questa cronaca pare di intravedere la cuspide di una massa che rimane sotterranea.

Principalmente viene da domandarsi: quanti sacerdoti, oggigiorno, sono in grado di custodire il loro cuore sulla via della castità? Chi sceglie la strada della voluttà ha certamente sbarrata quella per andare a Dio. Questo è pertanto il requisito primario richiesto ad un consacrato. Ma oggi, mi domando, quanti tra loro sono ancora capaci di praticare l’amore di sé (unione della volontà) per amore di Dio, come diceva san Bernardo?

Quanti sacerdoti, poi, smarriscono la vocazione e dismettono l’abito? Il numero degli spretati apparirebbe in grande crescita. Sarebbe utile in tal senso conoscere la percentuale di quanti sacerdoti o religiosi abbandonano “il chiostro” per rientrare nel mondo. In televisione gli ex-sacerdoti a caccia dell’en plein di sacramenti – sposati o prossimi alle nozze – sono molto ambiti e richiesti; evidentemente innalzano lo share degli ascolti.

Corruptio optimi pessima: quando i buoni si pervertono, in loro la caduta è ancor più fragorosa e provoca maggiori danni nel prossimo. Se era sufficiente frequentare padre Pio per edificarsi e santificarsi per il resto della vita, perché era immagine realmente viva di Cristo sofferente, così l’immagine che questi sacerdoti depravati rilasciano nel mondo crea un danno che va ben oltre lo scandalo: sono il sintomo di una battaglia che avanza, facendo vittime sempre più eccellenti tra gli ufficiali.

Per prima cosa molti tra loro hanno iniziato a mancare gravemente nella dottrina; poi nella predicazione; quindi nella presenza inamovibile a supporto delle pecorelle smarrite a loro affidate; da tale “svuotamento” – della loro principale missione – sono inevitabilmente passati al baratro conclamato dei vizi individuali. Se per il bene comune il predicare bene è sempre preferibile al razzolare bene – perché il sacerdote incorruttibile esteriormente, ma che poi diffonde un’idea del Vangelo sbagliata, è peggiore del “vizioso” che ha una visione teologica corretta – il problema è che oggi si fa diffusamente male tutt’e due le cose.

Da una parte sappiamo che i peccati dei discepoli implicano e ricadono a responsabilità del maestro, tanto che il Signore per bocca di Isaia minaccia di vendicare nei pastori il sangue delle pecorelle che muoiono in peccato. Ma non sarà altrettanto vero che in questa battaglia finale abbiamo un disperato bisogno dei nostri Capitani, delle nostre guide, e che essi, a loro volta, hanno disperatamente bisogno del nostro supporto quali fedeli fervorosi?

Provo pena per molti di questi sacerdoti, partiti con una buona vocazione e che poi si sono ritrovati a dover vivere e maturare in un contesto ecclesiale così sfasciato, così poco virile, così poco ricolmo dello spirito di fortezza che la figura di Cristo ci domanda. Formati a pessime scuole (non per loro colpa), rimpinzati con stupidaggini pastorali alle quali è difficile sottrarsi, incatenati da vescovi spesso indegni (e spesso avanzi di loggia) ed assediati da parrocchiani senza un briciolo di dottrina.

Ma noi “tradizionalisti”, che ci vantiamo di conoscere meglio di altri la Verità, abbiamo una responsabilità in tutto questo?

Ci siamo mai domandati dall’alto della nostra dottrina cosa veramente comporta essere mura vive della Chiesa Romana, e cosa comporta essere gli eredi di innumerevoli doni spirituali di cui andiamo facendoci dispensatori?

La maestà e la gloria del vero Dio ci è stata comunicata sempre più perfettamente: con la legge naturale, attraverso la Rivelazione, e per mezzo della Tradizione. Il dono della nostra esistenza mortale, che ogni giorno ci viene elargito da un Creatore che tutto sostiene, è il più bello tra molti, poiché ci dà l’opportunità di continuare a conoscerlo, servirlo, amarlo. Se togli ad essi il tuo fiato vengono meno e ritornano alla loro polvere dice il salmista. L’uomo deve a Dio non soltanto il suo esistere, ma anche il suo sussistere.

Questo è il primo e più grande dono che non deve assolutamente andar sprecato; il tempo è sempre più scarso e ci sta sfuggendo di mano, lo avrete notato.

Leggendo il “Cantico di re Ezechia”, l’ardentissima preghiera di questo pio sovrano del regno di Giuda vissuto nel corso dell’VIII secolo a.C., veniamo a sapere quanto atroce sia la morte non già perché pone termine alla vita in sé, ma perché arresta per sempre il tempo utile per servire l’Altissimo: La morte non ti loderà: non aspetteranno quei che scendono nella fossa l’adempimento delle tue promesse. I vivi, i vivi sono quelli che ti celebreranno, come io pure in questo giorno (…) Salvami, o Signore, e noi canteremo i nostri salmi per tutti i giorni della nostra vita nella casa del Signore.

Se i morti che muoiono dopo la resurrezione di Cristo non discendono più nello sceol come al tempo del pio Ezechia, nel limbo come sotto la legge antica, ma se ne vanno in Paradiso, ove possono continuare a lodare Dio nella visione beatifica, tuttavia vi è una lode di Dio possibile soltanto in questa vita, nell’unione di anima e corpo, che se Platone vedeva come una prigione (e sant’Ambrogio ne riprese in parte l’idea) San Bernardo insegnò invece che il nostro corpo non è una gabbia bensì uno strumento di penitenza necessario alla salvezza; anzi, che l’anima senza il corpo sosta in una condizione imperfetta ed innaturale. Solo da questa terra, difatti, possiamo far progredire la nostra carità e far così salire il grado di vita soprannaturale che per tutta l’eternità misurerà la nostra capacità di lode e la nostra potenza d’intercessione. Solo su questa terra possiamo prender parte alle fatiche dell’apostolato; ed è appunto di queste opere di progresso personale che Nostro Signore intendeva parlare quando disse che dopo morte più nessuno può lavorare.

Ricordo questo perché la Chiesa, anche se colpita nel suo centro vitale, in questa notte dello spirito che sta attraversando, anche se contornata ed assuefatta dal “brutto” della sua nuova liturgia, e dal “banale” dalle sue fatue parole, ciononostante continua a consacrare i doni che Cristo ci ha lasciato salendo in croce (le azioni sacramentali di un clero corrotto rimangono pur sempre ex opere operato ed una Messa brutta rimane pur sempre valida); ciononostante, dico, continua a porre nelle nostre orecchie indurite le parole di vita di San Paolo, quelle per cui: lo spirito di Lui, che risuscitò Gesù da morte, abita in voi; Egli che risuscitò Gesù Cristo da morte, vivificherà anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito abitante in voi.

Le porte delle regioni inferiori, le porte dell’abisso visto da San Giovanni, visto dai pastorelli di Fatima, non prevarranno mai sulle Promesse di Dio, nonostante tutto quello che sta accadendo di fronte ai nostri occhi.

Cristo volle resuscitare Lazzaro comandando alla morte stessa nella sua personificazione (e l’inferno e la morte furono gettati nello stagno di fuoco, Ap., XX,14) di abbandonare la presa del corpo già in corruzione dell’amico uscente dal sepolcro. Dio comanda alla morte anzitempo di abbandonare l’uomo. Cristo ordina che a Lazzaro vengano tolti immediatamente i segni della sua sepoltura. Che il buio del sepolcro si allontani definitivamente (almeno per i restanti anni che Dio gli concesse, come fece con re Ezechia).

Ecco che allora, nonostante l’iniquità oggi dilagante, lungo tutto il corso della storia, la sola Chiesa Cattolica, mantenendo il giusto e preciso senso del piano divino per la salute del mondo, si è sempre dimostrata la più salda custode di tutto ciò che dell’uomo è il suo vero bene. In tutte le ore gravi – scrive il dotto padre P. G. Girotti, commentando la sacra scrittura nel libro di Isaia – la Chiesa del Cristo Gesù, quella che realmente vive per il sacrifizio del “Servo di Jahvé”, ha sempre detto la sua parola di verità, di conforto, di giustizia.

Ed ecco perché la battaglia finale ha da essere combattuta dentro questa Chiesa nonostante le sue mura appaiano tanto diroccate e bisognose di profonda purificazione. Mi rivolgo a tutti i tradizionalisti che leggeranno queste righe.

Nella rovina attuale della teocrazia universale voluta da Dio con la Nuova Alleanza, vi è già il germe dal quale deve nascere la Restaurazione, che sarà la nuova creazione descritta da S. Paolo (2 Cor. 5. 17), proprio come nel seme nascosto sotto terra e in via di dissoluzione vi è già il germe della nuova pianta.

I consacrati, questa massa di preti insopportabili, spesso attaccati alle ricchezze di questo mondo, spesso pavidi e di lingua melliflua, rimangono tuttavia in prima fila sotto i colpi diretti del nemico, che li odia proprio per il fatto della loro immarcescibile consacrazione; ecco che noi, allora, dobbiamo farci trovare nelle immediate retrovie di questa lotta, anche se avremo davanti a noi dei capitani non così valorosi quanto desidereremmo.

Accettiamo la realtà dei fatti: i nostri sacerdoti non sono più profeti; non sono più dottori; non sono più apostoli; non hanno più, nemmeno, il carattere dell’uomo giusto e realmente forte nel sopportare le pene per rimanere fedele alla giustizia. Molti tra noi, se credono di essere più apostoli di loro, più dottori di loro e più forti di loro, e di vivere più santamente di loro (cosa certamente possibilissima), si facciano allora avanti per aiutarli, e li spronino con il loro esempio a tornare sulla retta via. Dio si serve anche di noi come suoi strumenti; dopotutto non siamo il suo Popolo? Non siamo noi ad essere stati chiamati “figli della luce”? (Efes. 5, 8)

Non vorrei rievocare il tanto abusato passo di San Paolo, ma devo farlo anche in questa occasione per tornare nuovamente a ripetere quali sono gli strumenti che abbiamo a nostra disposizione per calarci sul terreno di battaglia: Rivestitevi di tutta l’armatura di Dio, affinché possiate resistere alle insidie del diavolo. Non abbiamo infatti da lottare contro la carne e il sangue, ma contro i prìncipi e le potestà, contro i dominanti di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti maligni dell’aria (Efesini, VI).

L’armatura di Dioscrive padre Sales nel commento alle lettere paoline – è il complesso di tutte le armi necessarie ad un soldato per difendersi e per assalire, e cioè che proviene o è data da Dio. Resistere, ossia, secondo la forza del greco, star fermi senza cedere un palmo di terreno, contro le insidie (= astuzie) del diavolo, il quale, con le sue tentazioni, e servendosi del mondo e della carne, ci tende agguati per trascinarci al male.

Non abbiamo da lottare (il greco indica una lotta corpo a corpo) contro la carne e il sangue, cioè contro uomini mortali e deboli, ma contro i principati e contro le potestà. Questi due nomi indicano due categorie di spiriti perversi, di demoni dominatori di questo mondo; il loro capo viene chiamato dio di questo mondo (II Cor. IV, 4), mondo che viene detto tenebroso perché riempito dal peccato di tenebre intellettuali e morali. Come attesta l’esorcista padre Calliari nel suo pregevolissimo trattato sulla demonologia, i demoni dell’aria sono a tal punto numerosi in questa finale battaglia che se potessero rendersi visibili ad occhio umano, essi riempirebbero il cielo oscurando il sole.

Questo scontro è dunque già in atto, che vogliamo prendervi parte o meno, ed è alle sua fasi veramente conclusive. Non facciamo la fine di coloro che fuggono davanti al leone nell’arena. Moriremmo comunque, ma senza conseguire la palma propria del martirio. Il nostro compito in questa battaglia, se vogliamo essere veri soldati e non semplici chiacchieroni (il difetto più grave del mondo tradizionalista…), è quello di assistere con il nostro esempio le nostre guide, soprattutto in due cose: nella preghiera e nel sacrificio; se loro non lo fanno quanto e come dovrebbero, dobbiamo farlo noi al fine di colmare il vuoto da loro lasciato.

Non comportiamoci al pari degli stolti giudei, che venivano tenuti nell’ignoranza da avarissimi capipopolo, sentinelle cieche, cani muti i quali non scorgevano più i pericoli che minacciavano il gregge (Is., LVI, 10) e sprezzanti della verità nascondevano al popolo i misteri della teologia trinitaria ed i veri segni che dovevano avvertire dell’imminente venuta del Messia; non siamo più nemmeno infanti da latte, che devono essere nutriti con alimenti per fanciulli come scrisse San Paolo. Quali cattolici che vivono in tempi bui, siamo stati sufficientemente ammaestrati come perfetti figli ad una più profonda conoscenza delle cose attinenti alla Fede per tramite dell’inesauribile Verità divina che la Chiesa ha sempre posseduto manifestando tutto a tutti in pienezza. Abbiamo quindi un palato ben formato, che deve saper prendere il “cibo” degli adulti con la sapienza che contempla. Non avremo scusanti se falliremo, perché i doni sono stati troppo abbondanti e ci sono stati serviti in palmo di mano.

L’elemento d’espiazione a favore degli altri, per i colpevoli, è l’essenza del ritratto del Servo di Jahvé. Come potremo rivestirci di Cristo senza operare come Lui? Oggi nessuno ha più bisogno di soccorso dei nostri stessi sacerdoti.

È anche colpa nostra, dopotutto, se i nostri “ufficiali” versano in tali e disastrose condizioni. Quand’è l’ultima volta che ci siamo dimostrati veramente santi e fervorosi in loro presenza? Quante volte, invece, li abbiamo lasciati nell’errore della loro manchevole preparazione, nell’indifferenza e nel giudizio senza appello, nella fuga lontana, per accorrere ad oasi dove trovare maggior ristoro, nelle belle liturgie latine? È senz’altro cosa virtuosa viaggiare per 80 chilometri alla ricerca di una Messa antica, ma oggi siamo chiamati ad un compito ancora più urgente ed importante, che è quello di combattere dove Dio ha posto il nostro operare. Sotto i colpi del nemico si invoca l’aiuto di Dio dalla trincea, non si torna al caldo in fureria.

Dobbiamo prendere sotto braccio i nostri capitani e sollevarli nuovamente a battaglia. Siamo più numerosi di loro; siamo noi il corpo della Chiesa. Che le nostre preghiere ed una condotta di vita santa li aiuti a respingere l’assalto che oggi stanno subendo, cosicché, a loro volta, potranno tornare a domandare grazie per il mondo intero, poiché Cristo non è morto per soli e pochi eletti.

Voi che abitate dalla parte di mezzodì – dice Isaia – andate incontro all’assetato, e andate incontro al fuggitivo, portando pane” (cap. XXI, 14)

Voi che abitate dalla parte di mezzodì, ovvero voi che sentite dentro il calore dello spirito di Cristo, muovetevi a compassione di quelli che non riescono a fuggire il mondo e che sono affaticati. Assisteteli con le vostre ammonizioni e con le vostre preghiere.

Oggi, mentre i dottori non godono di buona salute, tocca a noi farci sotto, perché siamo le mura dell’edificio divino, ed anche Isaia chiama i santi di Dio “restauratori di mura” (cap. LVIII, 12). Se l’edificio si regge sulle colonne, e senza colonne le mura non sopportano lo sforzo causato dal peso della struttura, e tutto l’edificio rischia di collassare, le mura hanno però il compito di coprire e difendere le colonne dalle intemperie che sono al di fuori, e che sono penetrate al di dentro anche a causa nostra. Ristabilite le mura, tornerà Dio a porvi le sue sentinelle.

È ancora Papa Pacelli che ci indica la mèta alla quale dobbiamo giungere senza lasciarci abbattere dalle pubbliche calamità ponendo dinanzi allo sguardo della nostra fede il programma provvidenziale nella storia umana:

«Per la fede che si è illanguidita nei cuori umani – disse Pio XII nel 1941 – per l’edonismo che informa e affascina la vita, gli uomini sono portati a giudicare come mali e mali assoluti tutte le sventure fisiche di questa terra. Hanno dimenticato che il dolore sta all’albore della vita umana, come via ai sorrisi della culla; hanno dimenticato che il più delle volte esso è una proiezione della Croce del Calvario sul sentiero della Resurrezione; hanno dimenticato che il solo vero male è la colpa che offende Dio; hanno dimenticato ciò che dice l’Apostolo: i patimenti del tempo presente non hanno proporzione con la futura gloria che si manifesterà in noi; e dobbiamo mirare all’autore e consumatore della fede, Gesù, il quale propostosi il gaudio, sostenne la Croce. (…) A questa Croce fulgente di via, di verità, guardarono i Protomartiri romani e i primi cristiani nell’ora del dolore e della persecuzione. Non guardate solo alle spine onde il dolore vi affligge e vi fa soffrire, ma ancora il merito che dal vostro soffrire fiorisce come rosa di celeste corona e troverete allora, con la grazia di Dio, il coraggio e la fortezza di quell’eroismo cristiano, che è sacrificio e insieme vittoria e pace superante ogni senso; eroismo che la vostra fede ha diritto di esigere da voi».


Allora basta indietreggiare, basta accampare scuse, basta trovare colpevoli, basta giudizi temerari, basta pretendere di dover essere salvati aspettando il santo che ci ammonisca e ci riconduca sulla retta via.

Torniamo noi per primi a pugnare valorosamente, e stiamo certi che ci verrà comunicata una virilità di carattere proporzionata al combattimento, che ci farà sopportare con virile coraggio la tribolazione, e l’opera della nostra redenzione porterà i suoi frutti salutari di ravvedimento, di espiazione, di merito per noi e per coloro che sono in difficoltà. E al momento opportuno, quando torneremo a meritarcelo, quando la battaglia infurierà al di sopra delle nostre forze, solo allora ci verrà mandato un novello condottiero, che ci guiderà in vista dell’ultimo e vero Esodo, quello che ci prepara all’entrata nel Regno di Dio.

La fede cristiana ha segnato il trionfo della verità divina e nuovi trionfi di verità e di giustizia è destinata a segnare nella storia umana, quando, dopo la purificazione col sangue, gli uomini ritroveranno la bellezza e il valore dello spirito.

Combattiamo fin da quaggiù con la forza degli uomini liberi, perché il Regno dei Cieli è preda di coloro che usano violenza.

Lorenzo de Vita



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