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Gli Ebrei a Roma e di Roma
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Introduzione

Lo storico ebreo/tedesco Abraham Berliner, nella sua Storia degli Ebrei di Roma. Dall’antichità allo smantellamento del ghetto (Milano, Rusconi, 1992), scrive: “Non siamo assolutamente in grado di precisare con certezza storica quando gli Ebrei si siano stabiliti nell’Urbe. Possiamo tuttavia documentare la loro prima apparizione a Roma” (p. 11). Il Berliner cita, quindi, il I Libro dei Maccabei (cap. VIII) e Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche, XII, 10; XIII, 5-9), che ci narrano di tre ambascerie ebraiche dalla Palestina a Roma. La prima nel 159 avanti Cristo, a nome di Giuda Maccabeo; la seconda nel 144, a nome di suo fratello e suo successore Gionata ed infine nel 138 la terza, a nome di Simone, il terzo dei fratelli Maccabei.

S. Giustino Martire cita lo storico latino originario della Gallia Narbonense, Trogo Pompeo, il quale afferma che “gli Ebrei furono la prima popolazione orientale che avesse concluso una siffatta alleanza con il potente popolo romano” (cit. in A. Berliner, Storia degli Ebrei di Roma, p. 11 e 339).

Quindi, stando a quel che scrive il Berliner, se ne deduce che la prima apparizione di alcuni singoli Giudei a Roma risale al 159 avanti Cristo, ma non si può affermare con certezza quando gli Ebrei, come popolazione, si siano stabiliti a Roma.

Tuttavia lo storico ebreo/tedesco azzarda una congettura, secondo cui sarebbe lecito supporre che dopo l’alleanza tra Roma e la Giudea (159-138 a. C.) «gli Ebrei non abbiano tardato a guardare all’amica Urbe come a loro meta e luogo di fissa dimora. Pur ammettendo una certa lentezza nel flusso di immigrazione, è certo che a Roma il numero degli Ebrei crebbe rapidamente, sicché non possiamo che consentire con lo storico ebreo/polacco Heinrich Graetz (Storia degli Ebrei dai tempi antichi sino al presente, 1884, III, p. 142) quando scrive: “Senza dubbio già prima dell’intervento di Gneo Pompeo (63 a. C.) alquanti Ebrei erano presenti a Roma e nelle altre città italiane, dove si erano stabiliti forse provenendo dall’Asia Minore e dall’Egitto per ragioni commerciali. I primi Ebrei romani non furono sicuramente prigionieri, bensì gente di commercio che trattava con notabili romani l’approvvigionamento di grano e l’appalto delle tasse e vivevano da liberi cittadini”» (A. Berliner, cit., p. 12).

L’Abate Giuseppe Ricciotti nella Storia d’Israele (Torino, SEI, 1933, 2° vol., pp. 220) fa astrazione dalle “semplici ambascerie dei Maccabei del II secolo a. C.”, su cui Berliner insiste non poco, e scrive che “a Roma la Diaspora s’insediò stabilmente assai più tardi che ad Alessandria d’Egitto”, fondata nel 322 a. C. da Alessandro Magno.

Ora “ad Alessandria, sin dall’inizio della sua fondazione (322 a. C.), i Giudei palestinesi furono attirati da Alessandro Magno con la concessione degli stessi diritti dati ai Greci (G. Flavio, Guerra Giudaica, II, 18, 7; Id., Contra Apionem, II, 4; Id., Antichità Giudaiche, XIX, 5, 2); altri Giudei, sùbito dopo, parte per amore parte per forza v’immigrarono ai tempi del generale di Alessandro Magno, Tolomeo I (nominato satrapo d’Egitto nel 323 a. C.), che confermò loro la stessa parità di diritti” (G. Ricciotti, Storia d’Israele, cit., p. 211).

“La prima sicura notizia di un insediamento ebraico a Roma l’abbiamo sùbito dopo il 63 a. C., allorché Pompeo, conquistata in quell’anno Gerusalemme, ne trasportò a Roma molti prigionieri e li vendette schiavi (Filone d’Alessandria, Legatio ad Caium, 23; Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, I, 7, 6). Molti di costoro, liberandosi dalla schiavitù con vari mezzi, ma soprattutto grazie all’oro offerto in loro riscatto dai loro connazionali, rimasero stabilmente nell’Urbe in qualità di liberti. Ma furono cotesti i primi Giudei di Roma? Non sembra. Se si pensa che già nel 59 a. C., mentre Cicerone recitava la sua arringa in difesa di Flacco, scorgeva tra i suoi uditori molti Giudei, rilevandone la numerosità, la coesione morale e lo spirito d’intraprendenza; se si notano poi le sue parole circa l’aureum Judaeorum portato a Gerusalemme da tutta l’Italia e soprattutto da Roma (Pro Flacco, 28), si avrà ogni ragione di ritenere che nel 59 a. C. la colonia giudaica di Roma doveva essere parecchio più antica dell’importazione di schiavi fatta da Pompeo, appena 3 anni avanti. Questa ne avrà accresciuto di molto il numero; ma anche da prima dovevano esservi dei Giudei giuntivi per ragioni commerciali dai vari porti del Mediterraneo, e specialmente da Alessandria, da Cirene e dall’Africa proconsolare, che costituivano il granaio di Roma” (G. Ricciotti, Storia d’Israele, cit., p. 221).

Il Ricciotti spiega anche che i Giudei a Roma furono ben protetti da Giulio Cesare († 44 a. C.), che concesse loro ampi privilegi. Anche Augusto († 14 d. C.) si mostrò benevolo e durante il suo regno, nel 4 a. C., a Roma sono segnalati incidentalmente più di 8 mila Giudei, ma non erano certo l’intera comunità ebraica (G. Flavio, Antichità Giudaiche, XVII, 11, 1; Id., Guerra Giudaica, II, 6, 1). Invece sotto Tiberio, nel 19 d. C., alcuni Giudei derubarono i beni della matrona Fulvia per inviarli al Tempio di Gerusalemme, ma li stornarono e li impiegarono per loro tornaconto. Ora il marito di Fulvia, Saturnino, era amico dell’Imperatore Tiberio, che adirato espulse tutti i Giudei da Roma e ne deportò 4 mila in Sardegna (G. Flavio, Antichità Giudaiche, XVIII, 3, 5; Tacito, Annales, II, 85; Svetonio, Tiberius, 36). Tuttavia la punizione fu breve, infatti 12 anni dopo, nel 31, Tiberio riconfermò ai Giudei i privilegi concessi loro da Giulio Cesare e da Augusto, ed essi poterono ritornare a Roma. Claudio in un primo tempo fu loro favorevole, ma poi tra il 49 e il 50 li espulse da Roma (Atti degli Apostoli, XVIII, 2), poiché nella colonia giudaica di Roma, allora esistevano almeno 2 partiti, in violenta contrapposizione, uno seguiva il Messia Cristo e l’altro lo avversava. Di qui i tumulti dei secondi contro i primi, che irritarono l’Imperatore spingendolo ad espellere tutti (Ebrei e Cristiani) da Roma, ma il provvedimento di Claudio fu applicato con poco rigore (Dione Cassio, Storia Romana, XL, 6). Quel che è certo è che sotto Nerone, il successore di Claudio, i Giudei erano nuovamente in Roma, numerosi e più potenti di prima (Atti, XXVIII, 17). Poppea era una giudaizzante ed era loro protettrice presso l’Imperatore (G. Flavio, Antichità Giudaiche, XX, 8, 11).

La rivolta giudaica in Palestina contro Roma (66 – 70 d. C.) non provocò particolari misure di repressione contro i Giudei della Diaspora, fu solo imposto il “fiscus Judaicus / tassa giudaica” ai Giudei di tutto l’Impero, di modo che pagassero al tempio di Giove Capitolino in Roma, le due dracme che già versavano al Tempio di Gerusalemme, oramai distrutto (G. Flavio, Guerra Giudaica, VII, 5, 2).

Abraham Berliner scrive: “Nella capitale la popolazione ebraica originaria non era formata da Ebrei palestinesi, ossia da quelli che arrivarono in massa a Roma immediatamente prima e dopo la catastrofe della distruzione di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo. La componente più antica era costituita da Ebrei provenienti dall’Asia Minore, da Alessandria d’Egitto e dalle Isole, i quali oltre tutto erano di mentalità ellenistica ed usavano il greco per il culto e la lettura della Bibbia. È precisamente in contrapposizione a questi che sorse la ‘sinagoga degli Ebrei’, ovvero la comunità di coloro che, nelle adunanze, mantenevano la lingua ebraica” (A. Berliner, p. 68).

Quindi, per il Berliner, gli esordi di un insediamento di Ebrei in vasta scala a Roma risalgono esattamente ai patti di amicizia stretti dai fratelli Maccabei con Roma (dal 159 al 138 a. C.) per garantirsi da Antioco IV Epifane re di Siria e dai suoi successori, mentre non è possibile risalire con precisione alla data esatta dell’insediamento massiccio di Ebrei a Roma e occorre fermarsi approssimativamente ad un’epoca che precede la conquista di Gneo Pompeo della Palestina  (63 a. C.) ed è posteriore al patto di alleanza stretto con Roma dall’ultimo dei tre fratelli Maccabei (138 a. C.).

Cicerone - nella sua Oratio pro Flacco del 59 a. C. - scrive che a Roma, nella zona al di là della parte destra del Tevere, vivevano molti Ebrei, che erano stati fatti prigionieri dai Romani nelle loro guerre in Medio Oriente e deportati in Italia e che essi erano una “massa potente”. Non si può parlare di un vero e proprio Ghetto o Quartiere (Bor-ghetto) ebraico nella Roma pagana. Tuttavia gli Ebrei per facilitare la pratica della vita religiosa  e del culto amavano stabilirsi nella zona della sinagoga, così da dar vita ad una specie di quartiere ebraico in senso largo, ossia abitato non esclusivamente, ma da una certa moltitudine di Ebrei, la quale però data la sua rilevanza e il suo potere aveva portato Cicerone a parlarne con preoccupazione nella sua difesa di Flacco, in cui narra pure che il Senato aveva proibito agli Ebrei, che erano soliti organizzare collette per il Tempio di Gerusalemme, di trasferire oro a Gerusalemme (cfr. A. Berliner, p. 13 e 339).

Lucio Valerio Flacco era stato accusato di aver sottratto il denaro pubblico e di avere incamerato le offerte per il Tempio di Gerusalemme. Cicerone lo difese in qualità di avvocato e durante la sua arringa disse esplicitamente che la causa di Flacco fu celebrata nei pressi del Tribunale Aurelio ove vi era una “gran folla di Ebrei, di cui si conosce il grande numero, il grande affiatamento e la grande influenza nelle assemblee”, egli qualifica la loro religione come “barbara superstizione” (anche se siamo ancora nell’Antico Testamento, prima del deicidio e della nascita del Giudaismo talmudico o deviato) e ci informa che “la turba degli Ebrei, talora, si scatena furiosa nelle nostre assemblee popolari” (M. T. Cicerone, Arringa in difesa di Lucio Flacco, Torino, Utet, 1981, II vol., pp. 1093-1095). Come non pensare al processo contro Gesù, in cui il Sinedrio di Gerusalemme riuscì a piegare Ponzio Pilato, minacciando di appellarsi a Cesare in Roma, ove evidentemente avevano molti agganci? (cfr. F. Spadafora, Pilato, Rovigo, Istituto Padano di Arti Grafiche, 1973).

Da queste pagine ciceroniane sappiamo che gli Ebrei si erano organizzati a Roma con molta celerità, formando una comunità ben separata dai Pagani, molto influente, composta da numerosissimi elementi, che potevano diventare pericolosi se le sentenze pronunciate nei Tribunali non li soddisfacevano.  D’altronde se un avvocato del calibro di Cicerone doveva fare i conti con il potere materiale e il peso politico della comunità ebraica di Roma nel 59 a. C. significa che essa era realmente assai potente economicamente, socialmente e politicamente.

Il filosofo ebreo Filone d’Alessandria (20 a. C. – 50 d. C.), che difese la causa dei suoi connazionali e correligionari dinanzi all’Imperatore Caligola (37 - 41 d. C.), fu il primo ad affermare che gli Imperatori romani predecessori di Caligola avevano rispettato la nazione ebraica ed il suo culto e che Augusto (63 a. C. – 14 d. C.) non aveva condotto a Roma gli Ebrei come schiavi, assegnando loro la zona di Trastevere, ma che non ignorava come gli Ebrei fossero stati portati quali  schiavi a Roma e come avessero ottenuto la libertà e la cittadinanza romana e avessero vissuto a Roma sotto la tutela della legge sino ai tempi di Caligola. Dalle parole di Filone si deduce che prima della conquista della Siria da parte di Pompeo (64 a. C.) gli Ebrei erano abbastanza presenti a Roma.

Il Berliner (p. 15) ipotizza che dopo l’occupazione della Giudea da parte di Pompeo (63 a. C.) si fosse verificato un grande movimento migratorio verso Roma, la quale essendo una città politeista, aperta, cosmopolita, tollerante verso le diverse religioni e le diverse divinità non aveva problemi ad accogliere anche i Giudei, i quali a Roma erano protetti dalla legge, potevano esercitare la loro religione senza timore di essere perseguitati (una breve fase di persecuzione antiebraica avvenne dall’81 al 96 sotto Domiziano, ma poi cessò; mentre il Cristianesimo - da Nerone sino all’Editto di Costantino - contò innumerevoli persecuzioni).

Quel che colpisce è la “rapidità con cui gli Ebrei si organizzarono all’interno della società romana […] impegnandosi a procurare la libertà agli Ebrei portati nell’Urbe come prigionieri. Ogni volta che i Romani vincitori portavano a Roma prigionieri Ebrei, questi avevano la certezza d’incontrarvi la massima partecipazione dei loro correligionari liberi e benestanti già residenti nell’Urbe. Infatti nulla impediva che un prigioniero o uno schiavo riacquistasse col denaro la libertà” (A. Berliner, cit., pp. 15-16).

Una volta affrancati (liberti), gli Ebrei, godevano della cittadinanza romana, sicché potevano partecipare a tutte le assemblee politiche e agli affari pubblici, facendo sentire il loro peso, tuttavia era loro interdetto l’accesso alle cariche superiori (funzionario, senatore, cavaliere).

Se Cicerone nel 59 a. C. era preoccupato della potenza della comunità ebraica di Roma, ai tempi di Giulio Cesare († 44 a. C.) e di Augusto († 14 d. C.), come scrive Teodoro Mommsen (Storia di Roma antica, III, p. 549), essa si era accresciuta notevolmente ed era mal vista dalla plebe romana. Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche, XVII, 11, 2; Guerra Giudaica, II, 6, 1) ci dice che quando giunse a Roma una delegazione di 50 anziani Ebrei dalla Palestina dopo la morte di Erode il Grande (4 a. C.), essa fu accompagnata all’udienza con l’Imperatore da una folla di 8 mila Ebrei. Quindi la comunità ebraica era assai estesa a Roma.

Quando Tito, dopo la distruzione di Gerusalemme, portò a Roma alcune migliaia di prigionieri Ebrei, si mise in moto la macchina della solidarietà e “la benestante comunità ebraica romana si mobilitò per riscattarli in grande numero, accogliendoli poi nel proprio seno come liberti o libertini” (A. Berliner, cit., p. 30).

L’obolo di mezzo siclo al Tempio, che tutti i Giudei (anche coloro che non abitavano in Palestina) dovevano inviare una volta l’anno a Gerusalemme, fu cambiato da Vespasiano nella tassa da pagare a Giove Capitolino (Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, VII, 6, 6). Questa fu l’origine del “Judaicus fiscus, l’imposta giudaica”, che nel corso dei primi tre secoli dell’era cristiana gli Ebrei dovettero pagare a Roma.

Tirando le somme si può dire che la comunità ebraica a Roma appare circa nel I secolo avanti Cristo (grosso modo dopo il 138 a. C. e prima del 70 a. C.). Essa praticava la religione dei padri, il culto monoteistico, in mezzo ad una moltitudine di culti pagani politeistici, che non vedevano di mal occhio un altro culto aggiungersi alla miriade di pratiche religiose già esistenti nell’Urbe.

“Gli Ebrei attingono alla fede comune una coesione interna, che tuttavia non li trattiene dal partecipare attivamente alla vita civile e pubblica nei limiti tracciati dalla Legge di Mosè. Essi religiosamente restano Ebrei, ma diventano politicamente anche Romani. Ebrei romani. Non parteggiano per l’ideale ipernazionalistico che muove migliaia di correligionari della madrepatria a imbracciare le armi; perciò abbandonato di proposito tale ideale, non appoggiano in alcun modo la guerra nazionalistica della Giudea contro Roma (66 – 70 d. C.; 132 – 135 d. C.)” (A. Berliner, cit., p. 61).

La maggioranza degli Ebrei di Roma fece come Giuseppe Flavio, passò da una forma di rigido Giudaismo farisaico ad un Giudaismo mitigato e in un certo senso ellenizzante, aperto alla vita politico/economica di Roma, ma senza rinnegare la propria religione monoteistica.

Se il Tempio di Gerusalemme era stato distrutto, il Sacerdozio e il Sacrificio erano finiti, il popolo ebraico e la Legge talmudica erano rimasti. Gli Ebrei di Roma si accontentarono e ringraziarono Jaweh di aver preservato il popolo affinché rispettasse la Legge e di aver mantenuto la Legge affinché custodisse il popolo unito.

Il Berliner riconosce che gli Ebrei romani come Giuseppe Flavio furono mossi a “romanizzarsi”, pur restando Giudei, non solo dalla pietà religiosa, ma anche da un certo calcolo egoistico e di convenienza (p. 62).

Da parte sua “Roma combatté la Giudea non i Giudei, la nazione non la religione. Gli Ebrei di Roma furono perseguitati solo in poche eccezionali occasioni. […]. Non mancarono sicuramente agli Ebrei romani le occasioni di recarsi a Gerusalemme, spesso di soggiornarvi a lungo. Almeno una fonte talmudica (meghillàh, 26b) conosce l’esistenza di una sinagoga di Ebrei romani in Gerusalemme. Anche i   libertìnoi menzionati negli Atti degli Apostoli (VI, 9) non dovrebbero essere altri che i liberti romani e i loro discendenti” (A. Berliner, cit., p. 63).

L’afflusso dalla Palestina a Roma contò anche diversi eruditi Ebrei che spontaneamente si recavano nell’Urbe, la quale era la città dove si tolleravano facilmente i culti più disparati; vi furono anche non pochi commercianti della Giudea che si recarono a Roma e di lì nella Gallia, la Spagna e le zone del Reno e del Danubio. “Tuttavia fu nell’Urbe che gli Ebrei trovarono le condizioni migliori per il loro commercio […] da quei piccoli inizi crebbero i banchieri, che curavano le operazioni finanziarie dei membri della famiglia imperiale [i Rothschild non hanno inventato nulla di nuovo, ma hanno continuato una vecchia e consolidata abitudine, ndr] (cfr. Bruno Bauer, Vierteljahrschrift fur Volkswirtschaft, 1875, p. 107). […]. D’altronde non si pensi che la popolazione ebraica di Roma fosse composta esclusivamente o in prevalenza di grandi mercanti” (A. Berliner, cit., p. 64).

Dopo aver affrontato il problema dell’insediamento ebraico in massa a Roma, partendo dai prodromi - con i fratelli Maccabei - sino a Tito, nel 70 d. C., ci resta da vedere la questione della venuta e permanenza di San Pietro e San Paolo a Roma.

SECONDA PARTE

Pietro e Paolo a Roma — Dall’andata all’Urbe al Martirio a Roma

Introduzione

Per quanto riguarda il viaggio e la permanenza di San Paolo a Roma ne abbiamo già parlato brevemente nel capitolo XLII “La Chiesa primitiva era una setta anarchico/rivoluzionaria?”.

Abbiamo visto che gli “Atti degli Apostoli” parlano esplicitamente del viaggio e della vita di San Paolo a Roma (per quanto riguarda S. Pietro il discorso è un po’ più difficile e lo affronterò in appresso).

Al capitolo XII degli Atti degli Apostoli ci viene narrato il martirio di S. Giacomo il Maggiore, fratello di S. Giovanni l’Evangelista, che morì decapitato nel 42 in Gerusalemme per ordine di Erode Agrippa I (39 – 44). Il testo sacro recita: “In quel tempo il re Erode cominciò a maltrattare alcuni della Chiesa. E uccise di spada Giacomo fratello di Giovanni. E vedendo che ciò dava piacere ai Giudei, aggiunse di far catturare anche Pietro” (Atti degli Apostoli, XII, 1-2). In realtà Pietro fu fatto imprigionare, ma fu liberato miracolosamente da un Angelo (Atti, XII, 7). Nel 58 anche S. Paolo fu fatto arrestare dal Sinedrio, che avrebbe voluto lapidarlo, ma Paolo fu salvato dal tribuno romano Claudio Lisia, che fece intervenire immediatamente i suoi soldati (XXI, 27-40).

San Paolo a Roma

S. Paolo nel 58 venne trascinato davanti al tribunale romano in Cesarea dai Giudei (Atti degli Apostoli, XXIV, 1-9) e comparve davanti al tribuno Felice. Ora mentre i Giudei avrebbero voluto uccidere Paolo questi si appellò a Cesare per essere interrogato e giudicato dall’Imperatore romano, essendo Paolo cittadino romano (Atti, XXV, 1-12), allontanandosi dalla Palestina e dai Giudei. Quando S. Paolo nell’autunno del 60 partì da Cesarea marittima, dopo esservi restato circa 2 anni (dal 58 al 60), su una nave per andare a Roma ed essere interrogato da Nerone, venne consegnato ad un centurione romano di nome Giulio (Atti degli Apostoli, XXVII, 1), che “lo trattò umanamente, gli permise di andare a trovare i Cristiani [nei vari scali fatti dalla nave, ndr] e di ristorarsi” (Atti, XXVII, 3). Quando Paolo, dopo varie peripezie, giunse a Roma nella primavera del 61 (Atti, XXVIII, 16) gli “fu permesso di starsene da sé con un soldato che lo custodiva”.

Padre Sales commenta: “Le buone informazioni date dal tribuno Festo nella lettera con cui aveva fatto accompagnare Paolo a Roma e i buoni uffizi del centurione Giulio, fecero sì che l’Apostolo venisse trattato con molta indulgenza, e invece di essere relegato in una prigione, potesse rimanere da sé presso qualche cristiano, oppure in qualche casa d’affitto sotto la continua custodia di un soldato pretoriano. […]. Il soldato di guardia veniva cambiato spesso e così Paolo ebbe occasione di far conoscere il Vangelo a molti pretoriani (cfr. Filipp., I, 12). Paolo consacrò i primi giorni della sua permanenza in Roma sia a riposarsi alquanto dal lungo viaggio e sia ad istruire e confortare i Cristiani; ma poi il suo pensiero si portò ai Giudei e fatti chiamare i membri principali della comunità ebraica romana, spiegò loro il motivo per cui si trovava in catene. Inoltre disse loro che aveva voluto vederli per predicare loro che il Messia è venuto (v. 20). Parecchi Giudei di Roma si fecero Cristiani, mentre altri (la maggior parte) rimasero nell’incredulità. Ora gli increduli cominciarono a contraddire e ad opporsi a quelli che avevano creduto in Gesù e così nacque una rissa tra di loro (v. 24), allora Paolo disse ai Giudei: “Il cuore di questo popolo è diventato insensibile e sono duri d’orecchie ed hanno chiuso i loro occhi: onde non vedano, non odano, non intendano e non si convertano. Vi sia quindi noto come alle Genti è stata mandata la salvezza di Dio ed essi l’ascolteranno” (Marco Sales, Commento a Gli Atti degli Apostoli, Proceno di Viterbo, Effedieffe, 2016, p. 157-158, v. 16-18; 26-28).

Paolo a Roma dal 61 al 63 “dimorò due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e riceveva tutti quelli che andavano da lui, predicando il regno di Dio e insegnando le cose spettanti al Signore Gesù con ogni libertà, senza che gli fosse proibito” (Marco Sales, Commento…, cit., p. 159, v. 30-31). Dopo questi due anni Paolo fu rimesso in piena libertà. Qui si arresta la narrazione degli Atti sulla vita di S. Paolo a Roma. Per avere altre notizie sino alla sua morte occorre ricorrere ad altre fonti. Vediamole.

Ricorro, innanzitutto, al libro Paolo Apostolo scritto dall’Abate Giuseppe Ricciotti (Roma, Coletti, 1946), che come quasi tutte le opere sull’Apostolo delle Genti si basa sulle Lettere di San Paolo, in cui si trovano molte informazioni sulla sua vita, la sua predicazione e la sua dottrina[1].

Il Ricciotti ci parla della seconda prigionia romana di S. Paolo e della sua morte (Paolo Apostolo, cit., pp. 541-569). Secondo il valente esegeta «la seconda prigionia romana dovette prolungarsi per alcuni mesi, fra il 66 e il 67. […]. Nella scarsezza di notizie in cui ci troviamo possiamo congetturare che Paolo, ricercato dalla polizia imperiale sin dall’inizio della persecuzione neroniana (anno 64) e catturato nel 66, fosse sottoposto in Roma ad un processo assai minuzioso, sia perché rappresentante insigne della religione perseguitata e cittadino romano, sia perché essendo terminato il periodo delle persecuzioni sommarie si procedeva adesso con un metodo più accurato. Un accenno a siffatto metodo e insieme alla lunghezza del processo, sembra ritrovarsi in quelle parole di Paolo a Timoteo: “Nella mia prima prigionia nessuno mi fu a fianco”. […]. Questa prima difesa deve alludere ad una precedente udienza del secondo processo, nella quale Paolo riuscì a difendersi abbastanza efficacemente da distornare l’immediata condanna per un complesso di circostanze che ci sfuggono. […]. Dopo la prima difesa la prigionia continuò tra previsioni sempre più tristi e in condizioni assai dure. Non era la mitigata custodia militaris della prima prigionia, bensì la custodia publica scontata nel carcere comune insieme coi delinquenti volgari, che difficilmente ammetteva visite di parenti ed amici dei detenuti, che questo carcere fosse il Tulliano, chiamato nel Medioevo ‘Carcere Mamertino’, è affermato da una tradizione non attestata prima del V secolo e perciò, come dato positivo, di scarsissima autorità; tuttavia, la designazione, astrattamente, non è impossibile. La durezza del trattamento sofferta da Paolo questa volta appare indirettamente da alcuni accenni della II a Timoteo (I, 17); nel freddo della prigione sotterranea sarebbe stato comodo a Paolo di avere il mantello lasciato a Troade nell’Asia Minore (IV, 13); desiderò avere presso sé Marco, il segretario di Pietro, già pratico di Roma, per essere aiutato nel ministero che e gli continuava ad esplicitare anche dal carcere, giacché il solo Luca rimastogli a fianco  era insufficiente per i  molti incarichi affidatigli dal prigioniero (IV, 11); per la stessa ragione desiderò avere a fianco a sé Timoteo, facendogli urgenza di arrivare prima dell’inverno a causa delle tristi previsioni che aveva (IV, 21). Tuttavia il denaro, largamente distribuito ai soldati di guardia da Luca e dagli altri fedeli, dovette far sì che anche altri discepoli potessero visitare di tempo in tempo l’amato prigioniero».

Secondo il Ricciotti (Paolo Apostolo, cit., p. 564) la seconda udienza si tenne pochi mesi dopo la II a Timoteo e si concluse con la condanna a morte. Sùbito dopo la sentenza, secondo il costume romano, Paolo fu avviato fuori della città. Un centurione, un manipolo di pretoriani; in mezzo a loro il vecchio Paolo che si trascinava curvo e incatenato. La sentenza di morte di un cittadino romano si poteva eseguire solo con la decapitazione, ma questa doveva essere preceduta dalla flagellazione.

Infine mi rifaccio ad un libro molto utile ed interessante sia per San Paolo sia soprattutto per San Pietro a Roma (di cui poco sappiamo dalla S. Scrittura) scritto da Umberto Maria Fasola, Pietro e Paolo a Roma (Roma, Vision Editrice, 1980).

Il Fasola (cit., p. 116) scrive, giustamente, che è molto difficile ricostruire cronologicamente gli avvenimenti degli ultimi anni della vita di S. Paolo. Gli Atti ci parlano dell’arrivo dell’Apostolo delle Genti a Roma attorno al marzo del 61, quando sbarcò a Siracusa (in Sicilia), poi si recò a Reggio Calabria, quindi a Pozzuoli vicino Napoli e infine seguendo, in gran parte l’Appia, detta la “Regina viarum”, si diresse verso Roma. Un bel gruppo di Cristiani di Roma gli andarono incontro al Foro Appio, a circa 65 chilometri dall’Urbe, ove terminava, non lontano dall’attuale Latina, un canale navigabile proveniente da Terracina, di cui si servì l’Apostolo. Circa 15 chilometri oltre, verso Roma, alle Tres Tabernae, vicino all’attuale Cisterna di Latina e all’antica Velletri, a 50 chilometri da Roma un altro gruppo di fedeli lo accolse e lì, ancor oggi, sorge una chiesa con una lapide che ricorda l’avvenimento narrato dagli Atti degli Apostoli (XXVIII, 14-15). Inoltre gli Atti parlano anche dei 2 anni che Paolo visse sotto sorveglianza a Roma sino al 63, quando dopo il primo processo fu rilasciato e rimesso in libertà. Abbiamo notizie fondate di un suo viaggio in Spagna, ad Efeso ed in varie città della Grecia. La II Epistola a Timoteo ce lo presenta di nuovo incarcerato a Roma. Questa volta non è una “libertà vigilata”, ma si tratta di una prigionia dura “custodia publica” in carcere, assieme ai delinquenti comuni. Si opina che venisse arrestato a Troade  (nell’Asia Minore), dopo l’incendio di Roma. Nella II Epistola a Timoteo (IV, 13) l’Apostolo raccomanda al suo discepolo di portargli a Roma i libri, le pergamene e il mantello da viaggio. Il suo “segretario” affezionatissimo, S. Luca (l’Autore del Terzo Vangelo sinottico e degli Atti degli Apostoli) gli era rimasto vicino. Un certo “Alessandro, il ramaio” lo aveva denunciato. Paolo era “cittadino romano” e non poteva essere crocifisso, ma doveva essere decapitato, non in pubblico e fuori città. Nel II secolo  la tradizione ci addita il luogo del martirio a 3 miglia da Roma, alla sinistra della via Ostiense, che conduce al mare di Ostia, sulla strada per Ardea, chiamato “ad aquas Salvias” (dalla famiglia dei Salvi, che ne era la proprietaria), dove oggi sorgono tre magnifiche chiese, di cui una proprio sul luogo del martirio, in cui si venera il cippo sul quale l’Apostolo poggiò il collo per essere decapitato e da cui la testa rotolò nel terreno in pendenza verso il basso, facendo tre balzi, da cui, secondo una antica tradizione, sgorgarono “tre fonti di acqua”, da ciò l’appellativo di “S. Paolo alle Tre fontane”.  Poi il suo corpo fu deposto a mezza strada tra il luogo del martirio e Roma, nell’attuale Basilica di “S. Paolo fuori le Mura” sulla via Ostiense. Papa Anacleto pose sulle ossa di S. Paolo una tomba commemorativa (memoria). Nel 258 furono trasportate (assieme alle ossa di Pietro) nel cimitero ad catacumbas sulla via Appia ove oggi sorge San Sebastiano e poi riportate alla primitiva sepoltura, ove oggi sorge la Basilica di “S. Paolo fuori le Mura”, fatta edificare da Costantino, che cedette il passo ad una ancora più grande e bella fatta costruire da Teodosio, che fu terminata da Onorio nel 395 (cfr. Bibliotheca Sanctorum, Roma, Città Nuova, 1968, vol. X, coll. 164-228, voce “Paolo Apostolo” a cura di A. Penna).

San Pietro a Roma

Per avere notizie abbastanza complete su tutta la vita di S. Pietro ricorro ad un buon articolo composto da un allievo dell’Abate Ricciotti, don Angelo Penna, Canonico Lateranense e professore di esegesi alla Università Lateranense, pubblicato in Bibliotheca Sanctorum (Roma, Città Nuova, 1968, vol. X, coll. 588-650, voce “Pietro Apostolo”).

Pietro nacque a Betsaida in Galilea alcuni anni prima dell’era cristiana. Era figlio di Giovanni (Giov., I, 42); in Matteo (XVI, 17) è detto “bar Jona”, ossia “figlio di Giona”, probabilmente Giona è effetto di una alterazione o contrazione testuale del nome Giovanni, a meno che non si tratti di due nomi diversi. Era fratello di Andrea; quando conobbe Gesù era già sposato, ma non si dice nulla della moglie, mentre si narra della guarigione miracolosa da parte di Gesù della suocera, che viveva in Cafarnao, molto probabilmente anche la casa di Pietro si trovava ivi. Nel Martirologio Romano, è menzionata (31 maggio) una vergine Petronilla come figlia di Pietro, ma l’affermazione non è sicura. Tutta la famiglia era composta di pescatori. Insieme con Andrea Pietro conobbe Giovanni Battista e ne divenne discepolo (Giov., I, 40). Egli fu presentato poi a Gesù da suo fratello Andrea. Sùbito il Maestro gli promise un nome nuovo (Giov., I, 42), Kefa, ossia Pietra/Roccia/Pietro. Gesù promette di dargli “le chiavi del regno dei Cieli” e di renderlo “Roccia” su cui poggia la Sua Chiesa (Mt., XVI, 16-18), dopo la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo. “Le metafore delle chiavi, per indicare l’autorità, e della roccia, per porre in rilievo la saldezza, sono chiaramente attribuite alla persona di Pietro, non alla sede, alla fede o alla santità di lui” (A. Penna, Bibliotheca Sanctorum, cit., col. 590).

Nel Libro degli Atti degli Apostoli si leggono soprattutto gli episodi di gran parte della vita di due Apostoli principali: Pietro e Paolo, fatta eccezione per i primi 2 capitoli, in cui vengono nominati anche gli altri Apostoli, ma senza particolare rilievo: i veri protagonisti degli Atti sono Pietro e Paolo. Nella prima parte del Libro sacro (capitoli 1-12) tutto si svolge attorno a Pietro; nella seconda parte (capitoli 13-28) tutto campeggia su Paolo, di cui ci vengono date maggiori notizie quanto al suo apostolato in Italia e a Roma. Negli Atti risulta evidente il fatto indiscutibile del Primato effettivo o pratico, di giurisdizione e di magistero, esercitato da Pietro. Saulo convertito si dovrà rivolgere a lui dopo il ritiro nel deserto, nei 15 giorni passati a Gerusalemme (Gal., I, 18). Infine è Pietro che prende 2 decisioni dottrinali importantissime per segnare il passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento: l’ammissione dei Gentili nella Chiesa; la salvezza per la fede in Cristo come Messia e Dio, vivificata dalla carità, definita nel Concilio di Gerusalemme (anno 50). Questo è l’ultimo episodio narrato da S. Luca su Pietro. Infatti il Principe degli Apostoli scompare dopo la sua miracolosa liberazione dalla prigione da parte di un angelo, con le concise parole: “Uscendo, se ne andò in un altro luogo” (Atti, XII, 17). Si era con molta probabilità nel 42. Da quel momento è impossibile seguire i viaggi di Pietro. Tuttavia dall’esame delle Epistole paoline si possono desumere notizie tali che – unite con quanto è detto nel resto del Nuovo Testamento o è affermato da un’antichissima tradizione costante – rendono irragionevole un giudizio troppo pessimistico sulla possibilità di sapere qualcosa circa il peregrinare di Pietro. Ora la tradizione antica ha connesso il nome di Pietro, come Apostolo missionario, con due grandi città di quel tempo: Antiochia e Roma, oltre che Gerusalemme. È noto “l’incidente di Antiochia” avvenuto tra Pietro e Paolo a riguardo dei giudaizzanti (Gal., II, 11 ss.). Inoltre si legge in San Girolamo (De viris illustribus, in PL XXIII, col. 638; Comm. in Gal., II, 11-15, in PL XXVI, col. 366) che Pietro fu il primo Vescovo di Antiochia. Tale notizia pare sia stata desunta da S. Girolamo a partire da un’affermazione non pienamente esplicita di Eusebio da Cesarea (Chronicon), ripresa nella Tradizione patristica greca e latina e confermata dalla festa liturgica della Cattedra di San Pietro in Antiochia al 22 febbraio. Tuttavia Pietro ha legato specialissimamente il suo nome più che a Gerusalemme, lasciata nel 42, e che ad Antiochia soprattutto a Roma. La sua venuta a Roma oggi non è più messa in dubbio da nessuno studioso serio. Inoltre la Tradizione patristica su questo punto è imponente. Non vi è la certezza assoluta né sul 42 come anno della venuta di Pietro a Roma né sul 64 o 67 come anno del suo martirio (A. Penna, in Bibliotheca Sanctorum, cit., col. 601). Quel che è certo che Pietro morì a Roma, nel Circo di Nerone, che oggi è la Piazza San Pietro, ove fu crocifisso a testa in giù. Infine oltre le testimonianze dei Padri (Origene, Eusebio, Girolamo), gli scavi condotti da Margherita Guarducci nel Vaticano tra il 1940 e il 1949 hanno portato le conferme ulteriori e irrefragabili.

S. Pietro fu crocifisso sul Colle Vaticano, nel Circo di Nerone: oggi Piazza San Pietro, e il suo corpo fu seppellito dai fedeli molto vicino al luogo ove era stato martirizzato (sotto la cupola e l’altare del Bernini della Basilica di S. Pietro), sulla via Aurelia. Sul suo sepolcro papa Anacleto, sin dal I secolo, innalzò una pietra commemorativa detta in latino memoria. Il 29 giugno del 258, durante la persecuzione di Valeriano, le ossa di Pietro, come quelle di S. Paolo, furono trasportate nel cimitero ad catacumbas sulla Via Appia antica, dove oggi sorge la basilica di San Sebastiano, ma sotto Costantino furono ricondotte al Vaticano, nella loro tomba primitiva.

Secondo don Angelo Penna a Roma vi erano dei Cristiani già prima della venuta di Pietro e di Paolo nell’Urbe, ma ciò non autorizza a negare o minimizzare l’opera evangelizzatrice soprattutto di Pietro, che precedette (probabilmente di circa 20 anni) quella di Paolo. Inoltre la Chiesa di Roma ha sempre attribuito all’attività di Pietro un’importanza eccezionale per la propria fondazione e organizzazione, ben superiore a quella di Paolo, che pur è ben descritta dagli Atti e nelle sue Epistole.

Per quanto riguarda la data del martirio il 67 appare più spesso, soprattutto nell’antichità, invece tra i moderni, non pochi preferiscono il 64 per Pietro e il 67 per Paolo.

Anche se la storia di Pietro dopo il 42 non è documentata come quella di Paolo, la sua figura è stata sempre oggetto di una grandissima venerazione in Roma e nell’Orbe, non solo perché fu il primo Vicario di Cristo, ma anche perché “tra gli Apostoli è difficili segnalare una figura più umana e più amabile di questo vecchio pescatore di Betsaida della Galilea” (A. Penna, cit., col. 604).

I professori Ignazio Schuster e Giovanni Battista Holzammer (Manuale di Storia biblica, Torino, SEI, II ed., 1952, 3° vol., La Chiesa di Gesù Cristo nell’età apostolica, pp. 723-724) scrivono che Pietro dopo aver lasciato Gerusalemme, dove era stato imprigionato e liberato miracolosamente da un angelo, “se ne andò altrove” (Atti, XII, 17). Ciò, secondo i due studiosi tedeschi, “dimostra che San Luca, l’Autore degli Atti degli Apostoli, sapeva dove. Perché San Luca non ne fa il nome e interrompe qui il suo racconto su Pietro, non dovrebbe essere difficile l’indovinare. Egli scriveva gli Atti per Teofilo cristiano insieme e romano. Ora i Cristiani di Roma non avevano davvero bisogno di essere istruiti sull’attività di San Pietro. D’altra parte poteva essere pericoloso, specialmente in quei tempi in cui si era scatenata la persecuzione neroniana, e i Giudei odiavano i Cristiani e soprattutto gli Apostoli, lo scrivere qualcosa che potesse tradire ai nemici il soggiorno e il campo d’azione del Capo supremo della Chiesa. D’altra parte non abbiamo solamente delle ipotesi alle quali appoggiarci per ritenere che San Pietro sia venuto a Roma intorno al 42. Abbiamo in proposito delle notizie attendibili. Secondo S. Girolamo egli venne a Roma il secondo anno di Claudio (nel 42) e poté contare i 25 anni di Episcopato, essendo arrivato sino all’ultimo anno di Nerone (67 – 68). Lo stesso ci aveva già detto Eusebio (Hist. eccl., 2, 14 ss.). che Pietro sia stato a Roma e vi sia morto martire, non può essere messo ragionevolmente in dubbio, dal momento che abbiamo le più autorevoli testimonianze sin dal tempo degli Apostoli”.

Per quanto riguarda il centro dell’attività apostolica di S. Pietro nella città eterna sembra che oggi si possa precisare con sicurezza. Nell’inverno del 1887 vennero fatti grandi scavi nelle catacombe di S. Priscilla nella via Salaria, che risalgono ai tempi apostolici. Gli archeologi (Marucchi, Scaglia, De Waal) ritengono che S. Pietro battezzasse ed avesse il centro della sua attività nel cimitero di S. Priscilla (cfr. I. Schuster – G. B. Holzammer, cit., p. 727).

Dopo alcuni anni, nel 50, ritroviamo Pietro in Palestina a Gerusalemme per il primo Concilio della Chiesa, dopo si trasferì ad Antiochia in Siria e di lì tornò in occidente e dopo la morte dell’Imperatore Claudio (anno 54) poté tornare a Roma (Lattanzio, De mortibus persecutorum, c. 2). Nella persecuzione di Nerone “una innumerevole moltitudine” (Tacito, Annali, XV, 14) morì martire tra spaventosi tormenti (cfr. I. Schuster – G. B. Holzammer, cit., p. 805).

Umberto Maria Fasola in Pietro e Paolo a Roma (Roma, Vision Editrice, 1980) ci dà, citandole, molte informazioni tratte dalla Tradizione patristica, da opere di vari storici antichi e moderni[2], di alcuni studiosi di religioni e di esegesi. Cerco di riassumerle e di porgerle al lettore affinché possa farsi un’idea abbastanza chiara delle vicende non note della vita del Principe degli Apostoli.

Il Fasola scrive che i “primi semi” del Cristianesimo “già diffuso e organizzato in Italia” e specialmente a Roma, poi raccolti da San Paolo negli anni 61-67, furono “piantati da S. Pietro, secondo qualche studioso del passato” (Pietro e Paolo a Roma, Roma, Vision Editrice, 1980, p. 11). Questi studiosi si basavano sugli Atti degli Apostoli, che narrano l’imprigionamento e la miracolosa fuga dal carcere dell’Apostolo Pietro. Non sentendosi più al sicuro a Gerusalemme, siamo attorno al 42 durante il regno di Erode Agrippa I – il nipote di Erode Antipa (4 a. C. – 39 d. C.), cui Pilato aveva mandato Gesù in catene durante il suo processo – l’Apostolo “se ne andò in un altro luogo” (Atti, XII, 17). Comunemente si ritiene che questo luogo fosse Roma. S. Pietro sarebbe sbarcato in Italia a S. Maria di Leuca, un porto sito all’estremità della punta delle Puglie non lontano da Otranto e da Lecce e poi si sarebbe incamminato verso l’Urbe.

«Perché l’Autore degli Atti avrà taciuto il nome della città? […]. Se la comunità romana fosse stata fondata da Pietro, se ne avrebbe un’attestazione più certa. Questa comunità così viva ed efficiente doveva essere germinata anche prima della persecuzione di Gerusalemme (attorno al 41). A Roma c’era una fiorente collettività giudaica. I Giudei, protetti da Augusto, si erano organizzati nei vari quartieri della città in comunità distinte chiamate sinagoghe. […]. Del tempo di Caligola (37 - 41) è la descrizione del gruppo ebraico abitante in Trastevere, visitato da Filone di Alessandria, un ebreo venuto a Roma quale ambasciatore dei correligionari presso l’Imperatore (Legatio ad Gaium, 23). Si calcola che verso la metà del I secolo gli Ebrei a Roma fossero circa 40 mila [oggi sono circa 17 mila a Roma e 32 mila in tutta Italia, ndr]. […]. Tra gli ascoltatori del primo discorso di Pietro la mattina di Pentecoste, l’Autore degli Atti degli Apostoli ricorda pure degli “stranieri romani” (II, 10). […]. Svetonio (c.ca 70 - 140) nella “Vita di Claudio, 25” scrive che l’Imperatore Claudio (41 - 54) “cacciò da Roma gli Ebrei continuamente tumultuanti per le istigazioni di Cristo (impulsore Chresto)”. […]. I tumulti romani provocati dal nuovo messaggio di Cristo trovano puntuale riscontro in molti ambienti ebraici dell’epoca. Il libro degli Atti è costellato di racconti dei disordini provocati dal sorgere del Cristianesimo nel seno delle comunità giudaiche. È proprio sotto l’Impero di Claudio (41 - 54) che si hanno le prime attestazioni sicure dell’arrivo del Cristianesimo a Roma. La frase di Svetonio è troppo esplicita e trova conferma nel libro degli Atti, da cui si può anche stabilire la data precisa dell’espulsione verso il 49/50. Quando S. Paolo venendo da Atene arrivò a Corinto e vi trovò “un giudeo di nome Aquila, nativo del Ponto, appena giunto dall’Italia con sua moglie Priscilla, perché Claudio aveva ordinato che tutti i Giudei se ne andassero da Roma (Atti, XVIII, 2). Il movente della turbolenza negli ambienti giudaici di Roma è dovuto alla predicazione cristiana. […]. » (Pietro e Paolo a Roma, cit., pp. 13-15).

Circa dopo 10 anni dall’espulsione di Claudio, la comunità dei Giudei di Roma si era ricostituita poco a poco, specialmente dopo la morte dell’Imperatore (anno 54).

L’esperienza dei tumulti dei Giudei contro i Cristiani, durante il regno di Claudio, aiutò questi ultimi a distaccarsi più facilmente dalla sinagoga, unitamente alle decisioni del Concilio di Gerusalemme (anno 50).

Gli Ebrei della Diaspora e quindi anche di Roma erano più tolleranti di quelli palestinesi ed erano lontani dal fanatismo che agitava in quell’epoca l’Ebraismo della madre patria (nel 66 scoppiò la guerra dei Giudei/Zeloti contro i Romani). Essi erano nondimeno religiosi, monoteisti, lontani dalla corruzione morale pagana e quindi il messaggio del Vangelo trovò a Roma un terreno fertile tra i Giudei dell’Urbe, che rese rapida la diffusione del Cristianesimo nella capitale dell’Impero.

“Nella notte tra il 18 e il 19 di luglio del 64 scoppiò a Roma l’incendio più grave della sua storia. Forse soltanto l’incendio provocato dai Galli nella loro presa dell’Urbe nel 390 a. C. provocò tanti disastri. La città bruciò per 9 giorni. Tacito ne parla in termini drammatici (Annales, XV, 38-40). L’incendiò fu fermato solo al sesto giorno, alle pendici dell’Esquilino, ma mentre non era cessata ancora la paura ecco di nuovo divampare l’incendio. Delle 14 regioni in cui si divideva Roma solo 4 rimanevano integre, 3 erano state completamente incenerite ed altre 7 erano gravemente danneggiate dal fuoco. L’incendio di Roma è intimamente legato al martirio di S. Pietro e S. Paolo. Esso fu la causa determinante della persecuzione neroniana, di cui i 2 Apostoli furono le vittime più insigni. Infatti è noto che le responsabilità dell’incendio furono addossate ai Cristiani” (Pietro e Paolo a Roma, cit., p. 98).

Ora gli storici hanno discusso a lungo sulla vera causa di quell’incendio. Tacito si dice “incerto se sia stato dovuto al caso o alla colpa del Principe [Nerone, ndr]” (Ann., XV, 38). Invece Svetonio, Plinio, Dione Cassio, Stazio accusano esplicitamente Nerone.

Ciò che è certo è che Nerone riuscì a discolparsi davanti alla popolazione furiosa, scaricando la colpa sui Cristiani e provvedendo poi alla ricostruzione dell’Urbe.

Gli Ebrei non furono sfiorati da nessuna accusa. Infatti essi “erano potenti a corte. Lo assicurano Plinio il Vecchio e Giuseppe Flavio. Questi presenta Poppea, la moglie di Nerone, come un’iniziata alla religione giudaica. Non dovette riuscire difficile, così, scaricare la responsabilità della colpa sui Cristiani, che pur provenendo in gran parte dal Giudaismo, se ne erano oramai completamente distaccati” (Pietro e Paolo a Roma, cit., p. 101).

La persecuzione di Nerone fu tremenda e le esecuzioni dei Cristiani ebbero luogo ove sorgeva allora il Circo di Nerone (con 590 metri di lunghezza per 95 di larghezza) e dove ora sorge Piazza San Pietro, semi-circondata e quasi “abbracciata” dal bel colonnato del Bernini, soprattutto al centro della Piazza ove si trova dal 1586 l’obelisco, fattovi trasportare da papa Sisto V, che prima stava al di là dell’arco detto delle campane, ove stazionano le guardie svizzere, che è a sinistra guardando la faccia della basilica, appena dopo le Poste Vaticane.

Gli spettacoli (ossia le crudeli esecuzioni) furono concepiti volutamente raccapriccianti da Nerone, per dare alla plebe romana l’occasione di scordarsi dell’incendio e di sfogare la rabbia su un falso colpevole. Tacito (Ann., XV, 44) narra che i Cristiani furono rivestiti di pelli di fiere affinché fossero sbranati dai cani, oppure vennero inchiodati alle croci, o destinati al rogo come fiaccole che illuminassero l’oscurità sul far della sera, ma non mancarono neppure i consueti supplizi dello sbranamento dei Cristiani da parte delle belve feroci.

“Verso la fine del I secolo, S. Clemente Romano nella sua I Lettera ai Cristiani di Corinto (V-VI, 2) sembra indicare con parole velate ciò che spinse ad incriminare i Cristiani: la gelosia e la malevolenza dell’ambiente giudaico, dal quale la comunità cristiana si era staccata. La presenza degli Apostoli Pietro e Paolo a Roma aiutò fortemente la comunità cristiana romana a non crollare. Le due colonne della Chiesa (Pietro e Paolo), sempre a causa della gelosia e malevolenza, subirono persecuzione e lottarono sino alla morte” (Pietro e Paolo a Roma, cit., p. 106).

S. Pietro è posto, da un’antichissima tradizione storica, tra i crocifissi da Nerone nel Monte Vaticano. Tertulliano (Vite dei Cesari. Scorpiace, XV, 3) afferma esplicitamente che Pietro fu crocifisso e Paolo fu decapitato.

La crocifissione di Pietro a testa in giù appare per la prima volta per iscritto alla fine del II secolo nei libri apocrifi degli Atti di San Pietro al capitolo 37. Gli studiosi hanno dubitato dell’autenticità della notizia della croce rovesciata, dato il carattere apocrifo degli Atti di San Pietro, tuttavia Origene, pochi decenni dopo, trasmise la medesima notizia, che si trova poi confermata da varie scoperte archeologiche.

In che anno avvenne la crocifissione di San Pietro? Alcuni Padri della Chiesa (Clemente Romano, Girolamo, Ireneo) e storici antichi (Tacito, Eusebio da Cesarea) scrivono che Pietro e Paolo morirono assieme. Inoltre che Paolo morì nel 14° anno di Nerone, ossia nel 67 (cfr. Eusebio da Cesarea, Chron., II). Oggi si ritiene comunemente che essi morirono nel 67 oppure che Pietro sia morto nel 64 e Paolo nel 67.

Altri studiosi e specialmente gli esegeti ritengono che “i documenti a nostra disposizione non permettono di rappresentarci un soggiorno continuo per un lungo periodo di tempo di Pietro a Roma. È possibile, invece, che vi fossero brevi soggiorni, separati da allontanamenti più o meno lunghi, dovuti ad esigenze missionarie. Per l’anno della morte regna una certa incertezza, pur essendo fuori dubbio che Pietro cadde vittima della persecuzione neroniana. In genere si tende a porre il martirio di Pietro nel 64, al tempo della feroce persecuzione neroniana dopo l’incendio di Roma, lasciando l’anno 67 per il martirio di Paolo” (F. Spadafora diretto da, Dizionario biblico, Roma, Studium, III ed., 1963, p. 476, voce “Pietro Apostolo”, a cura di Angelo Penna).

d. Curzio Nitoglia



1] Cfr. anche Ferdinando Prat, La teologia di San Paolo, Torino, SEI, VII ed., 1941, 2 volumi.

2] Tra i moderni, che non cita nel corso del libro, l’Autore si rifà, come dice nella bibliografia finale, specialmente a: O. Marucchi, Pietro e Paolo a Roma, Torino, 1934; A. Ferrua, Sulle tracce di Pietro, in “Civiltà Cattolica”, 1943, III, pp. 36-45; F. D’Arcais – P. Brezzi – S. Garofalo, Pietro a Roma, Roma, 1967; M.  Guarducci, La tomba di Pietro, Roma, 1959.


 
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