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E leggiamoli, i Vangeli!
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Certi commenti di lettori al pezzo su Melchisedek mi spingono a dire quattro cose sui Vangeli. Se molti lettori li conoscono e sanno di che si parla, altri pare ne abbiano delle idee quanto meno imprecise.

Come Sasha: «Credo, ma non ne sono sicuro, che nel Vangelo di Luca esista un passo in cui Gesù a Caana, avvisato da un fratello del messaggio della madre, risponde ‘io non la conosco’».

Ora, uno può anche essere non credente, ma è bene che legga i Vangeli, per cultura generale: essi fanno parte di quelle conoscenze di base senza cui non si può essere un europeo, nè seguire (nè tantomeno interloquire) nei dibattiti che si fanno. E magari, cominciando proprio da Luca.

Perchè? Perchè Luca, contrariamente ai primi due Evangelisti Matteo e Marco, che sono ebrei di strati popolari, probabilmente di poca cultura extra-ebraica, è un simpatico levantino di lingua greca, medico di professione, completamente intriso della cultura ellenista del suo tempo: un uomo di mondo, ex pagano, nato in una metropoli internazionale (Antiochia, in Siria) che scrive direttamente in greco con una spigliatezza sconosciuta ai primi due.

Compagno di San Paolo nei viaggi, Luca è anche l’autore degli Atti degli Apostoli, la narrazione di quel che i discepoli hanno fatto dopo la resurrezione: è bene leggere il Vangelo di Luca e insieme gli Atti, perchè formano un tutt’uno come testo storico, affascinante per la scrittura vivace e disinvolta: Luca doveva essere uno a cui piaceva chiacchierare, da vero greco del Levante. C’è un’eco di Erodoto e di Tucidide nell’elegante «proemio» del suo Evangelio, quando dice che «molti hanno già scritto» sugli eventi di Palestina, «così come ce li hanno trasmessi i testimoni oculari» (gli Apostoli), ma che lui tuttavia «ha indagato ogni cosa fin dal principio» per conto suo: da vero storico greco, ci fa sapere che gli sono note le «fonti» scritte, e che ha rifatto l’indagine in proprio, con scrupolo scientifico, interrogando i testimoni oculari.

Luca è anche il solo a dare particolari significativi sull’infanzia di Gesù (per esempio di come i genitori lo persero e poi ritrovarono nel Tempio tre giorni dopo, mentre ascoltava e interrogava i dottori della Legge). Il perchè è intuibile: da greco, è curioso; ha intervistato Maria, la Madre per sapere com’era Gesù da bambino. Non dev’essere stato facile. La riservatezza estrema della Mamma si vede bene da quel che Luca dice: non riesce a cavarle quasi altro che il bambino «cresceva e si fortificava, pieno di sapienza». E deve ammettere che Maria «conservava tutte queste cose in cuor suo». Ma scopre, comunque, più degli altri.

Anche in Luca però c’è un vuoto di anni, il suo racconto riprende con la predicazione del Battista (un cugino di Gesù). Perchè anche gli altri evangelisti non dicono niente di questo periodo? (L’amico Franco-PD dice: Cristo deve aver pur fatto qualcosa in trent’anni!)

Perchè raccontano quel che hanno visto e saputo di persona: ed hanno conosciuto Gesù solo dai trent’anni in su, dunque non si permettono di riempire quel vuoto con illazioni. Matteo è quel Levi, esattore delle tasse, odiato pubblicano, che si sentì chiamare da Gesù con quel solo «Seguimi!». Marco è l’interprete di Pietro, e raccoglie in appunti la predicazione dalla viva voce dell’Apostolo: ed anche Pietro ha conosciuto Cristo da adulto. E un povero pescatore di Galilea (regione marginale rispetto alla «sapienza» ebraica), non è uno a cui salti in mente di chiedere «com’era il Maestro da bambino». Come un pastore o un contadino anche italiano dell’altro ieri, per i quali i bambini erano socialmente insignificanti. Solo Luca, da greco, ha la moderna curiosità psicologica di voler sapere.

Potevano Pietro e Levi far domande alla Madonna? Anche qui, bisogna entrare nella loro psicologia. Sono gente semplice, di basso livello sociale. Hanno soggezione. Nei Vangeli traspare quanta soggezione avessero di fronte a Cristo; è facile capire che ne avessero davanti alla Madre. Non solo perchè è la Madre di Dio, depositaria di un mistero su cui si manifesta piena di riserbo; quel che in genere sfugge, è che Maria e Giuseppe, vantavano una discendenza regale da David.  Erano, se si può dire, dei nobili.

Giuseppe, per il censimento imperiale, andò a iscriversi a Betlemme, la città natale di David. Benchè povero e lavoratore, è assai probabile che l’aristocrazia sua e di Maria (quasi certamente  erano parenti, dello stesso clan), o almeno il loro diverso livello sociale, risultasse dal modo di parlare, specie per dei pescatori che parlavano con l’accento di Galilea, che a Gerusalemme risuonava «burino», come il dialetto dei viterbesi ai romani de Roma. Se la Coppia non parlò spontaneamente dell’infanzia, i burini, in soggezione, non s’attentarono certo a chiedere.

Dobbiamo dunque restare con quel vuoto. Che è stato riempito da fantasie pseudoscientifiche ai nostri giorni, da esegeti che si sono immaginati una residenza di Gesù fra gli esseni di Qumram, eccetera. Ma, come ho già avuto occasione di dire, le concezioni di Gesù sono il contrario di quelle degli esseni: tant’è che fu accusato di «mangiare con pubblicani e prostitute», mentre gli esseni si rifiutavano di mangiare persino insieme agli altri ebrei, farisei compresi, da loro considerati non-kosher.

Franco-Pd pensa che questo vuoto possa essere colmato dai vangeli apocrifi, ripudiati dalla Chiesa in un modo che lui ritiene più o meno arbitrario: «A quanto ricordo – scrive – la valutazione dell’autenticità o meno di certi Vangeli avvenne in epoca assai lontana, in ambiente conciliare e addirittura a maggioranza di votanti! Si può arrampicandosi sugli specchi, ritenere che un intervento divino dello Spirito Santo abbia in quella sede illuminato i presenti e votanti al fine di far loro scegliere bene, ma ogni dubbio sulla questione trovo sia lecito».

Elaine Pagels
   Elaine Pagels
Non è lecito. E’ un pregiudizio di matrice moderna anticattolica, rafforzato dagli studi (pagati dalla Fondazione Rockefeller) di Elaine Pagels sui vangeli gnostici (Gnostic Gospels). Esso presume che la Chiesa, verso il quinto secolo, abbia scelto fra vari vangeli più o meno di pari legittimità, o di cui non poteva più ricostruire l’origine.

Non è così, e per capirlo basta risalire al modo della trasmissione. All’inizio, viventi gli apostoli, i discepoli e i seguaci testimoni oculari, la trasmissione dei fatti e detti di Gesù fu soltanto orale. Ma poi si sentì il bisogno di fissare quelle testimonianze per iscritto. Quando?

Molto presto: tra il 42 e il 44 dopo Cristo, quando Pietro viene portato a Roma per sottrarlo alla persecuzione di Erode Agrippa descritte negli Atti (12,17). Pietro predica a Roma, ascoltatissimo, in una cerchia di «cavalieri cesariani», funzionari della corte imperiale. Fra essi, probabilmente, c’erano Narcisso, celebre liberto e ministro di Claudio imperatore, un Marcello di classe senatoria, l’aristocratica Pomponia Grecina moglie di Aulo Plauzio, accusata da Tacito di essersi convertita ad una «superstitio externa» (il cristianesimo) proprio nel 42-43 (1).

Quando Pietro va via da  Roma, sono questi a chiedere a Marco, l’interprete simultaneo di Pietro, di mettere per iscritto quel che avevano ascoltato dalla voce dell’Apostolo.

La circostanza è descritta da Eusebio di Cesarea, che è alquanto tardo, ma che cita esplicitamente testimonianze di Clemente di Alessandria e Ireneo (secondo secolo) e specialmente di un Papia di Gerapoli, vissuto nell’ultima parte del primo secolo.

Ecco la testimonianza di Papia secondo Eusebio: «Marco interprete di Pietro scrisse con esattezza le cose che ricordava, ma non in ordine, di ciò che il Signore aveva detto e fatto. Egli infatti non aveva udito il Signore nè lo aveva seguito ma, come ho detto, aveva accompagnato Pietro più tardi. Egli dava gli insegnamenti secondo i bisogni, ma non come se facesse una raccolta sistematica dei discorsi del Signore» (2).

Qui è spiegato benissimo perchè il Vangelo di Marco sembra tanto più impacciato e disorganico di quello di Luca: egli rievocava quel che ricordava delle parole di Pietro, il quale dal canto suo non aveva intenzioni da storico sistematico, ma «dava gli insegnamenti secondo i bisogni» e l’occasione delle riunioni. Il povero Marco, per fedeltà e scrupolo, non osò aggiungere niente di suo in quella raccolta di ricordi, nemmeno per legarli logicamente. Il suo Vangelo è la diretta testimonianza, a pezzi e bocconi, delle omelia del primo apostolo. Eusebio narra anche che Pietro prese conoscenza del testo, e – lasciando che fosse letto nelle varie riunioni (chiese) – lo legittimò.

Già. Ma passano i secoli, e come seppero i Padri del quinto quali erano i Vangeli veri, e quali gli apocrifi?

Qui, bisogna ricorrere al concetto di «tradizione». Un concetto preciso e concreto, molto chiaro ancor oggi nella chiesa ortodossa che legge ancora (al contrario di noi cattolici) i Padri della Chiesa greci e ne sente ancora l’autorità normativa. Il concetto concreto di tradizione va descritto così: abbiamo visto Marco ascoltare Pietro, e poi mettere per iscritto le sue parole a richiesta dei convertiti romani. Marco ebbe a sua volta discepoli e ascoltatori; e questi a loro volta ascoltatori  della generazione successiva. Ascoltatori e testimoni sempre più indiretti, ma perfettamente in grado di risalire alle fonti e ai testimoni diretti cui si rifacevano, tanto che Paolo lamenta che nelle prime ecclesie uno diceva «io sono di Paolo» e un altro «io sono di Pietro». I grandi Padri della Chiesa onorati nella chiesa ortodossa, che scrivevano in greco, erano appunto testimoni di questo genere.

Il grande Clemente di Alessandria, per esempio, lo scrive chiaramente: «Questi maestri conservano la vera tradizione della beata dottrina: essi l’avevano ricevuta di padre in figlio (cioè da maestro a discepolo, per trasmissione orale) accogliendola così direttamente dai santi apostoli Pietro e Giacomo, Giovanni e Paolo. In tal modo, grazie a Dio, essi sono giunti fino a noi, depositando anche in noi quei preziosi semi».

Clemente d’Alessandria poteva vantare fra i suoi maestri, anzi come suo padre spirituale, un certo Panteno, che era discepolo indiretto dell’apostolo Giovanni, l’ultimo evangelista. E «indiretto» significa che Panteno aveva appreso la dottrina da qualcuno che l’aveva ascoltata con le sue orecchie da San  Giovanni, il «discepolo che Dio amava», e quarto Evangelista.

Così era il processo, estremamente rigoroso, di cui i primi ecclesiastici erano perfettamente coscienti. E i primi concilii, quando si trattava di rispondere a problemi nuovi (le donne possono essere ordinate al sacerdozio? Si deve osservare il sabato come gli ebrei?), rispondevano – come dice San Cipriano – «risalendo alla fonte del Signore, cioè alla tradizione dei Vangeli e degli Apostoli», la scrittura e la trasmissione orale. Si trattava, su ogni singolo problema, di ricostruire qual era stata la volontà di Cristo, «sulla base delle testimonianze sicure e unanimi che ne dava la catena dei discepoli risalente agli Apostoli» (3).

Non volevano essere sviluppatori di una teologia, ma trasmettitori di una fede in cui credevano totalmente: e perciò tali badavano a restare, senza cercare di riempire i vuoti di testa loro, nè introdurre opinioni personali nella dottrina («eresie», dal greco hairesis, significa scelta personale). 

Si capisce quindi che questi padri, che sapevano di chi erano discepoli, e di quale maestro il loro maestro era stato discepolo giù giù fino agli apostoli, non avevano una particolare difficoltà a stabilire quali Vangeli erano autentici, e quali non lo erano perchè, per la loro stesura, non era possibile risalire alla predicazione orale di un riconosciuto testimone oculare di Gesù.

Franco-Pd dice: «La Chiesa è stata capace di passare ad un proprio setaccio, vagliando in modo discutibile ma efficace, diversi Vangeli».

Efficace di sicuro, ma discutibile perchè? Se qui si intende sospettare un rimaneggiamento del messaggio originario onde conformare e omogeneizzare i testi canonici, la prova del contrario è contenuta proprio nei Vangeli. Sia Matteo, sia Luca, forniscono un albero genealogico di Gesù, per dimostrarne la discendenza da David. Notoriamente, le due genealogie sono fortemente discordanti, cosa che gli increduli non mancano di far notare con strilli di gioia maligna; una discordanza certo imbarazzante per la Chiesa delle origini, e anche d’oggi. Eppure le due genealogie restano lì, così come furono riportate all’origine, non «conformate» per farle coincidere, non manipolate.




1)
Tacito, Annali, 13, 32. Aulo Plauzio aveva condotto una spedizione in Britannia per Claudio imperatore. Paolo saluta i fedeli nella casa di Narcisso, famoso liberto di Claudio, nella Lettera ai Romani, 16,11. Luca dedica il suo vangelo a un Teofilo chiamandolo kràtistos (egregius), ossia col titolo che spettava ai cavalieri romani. Secondo gli Atti di Pietro, un apocrifo del II secolo, Pietro a Roma fu ospite nella casa di Marcello: nome nobiliare romano, forse lo stesso Marcello che fu spedito in Giudea da Tiberio per sostituire Pilato. Questa la classe dirigente che chiese di mettere per iscritto la predicazione di Pietro, probabilmente anche perchè interessata al fatto che la nuova setta giudaica cristiana era, al contrario degli ebrei, favorevole a Roma.
2) Marta Sordi, «I  cristiani e l’impero romano», Jaca Book, 2004, pagina 32.
3) Prendo le citazioni da Dag Tessore, «La donna cristiana secondo l’insegnamento della tradizione apostolica», Il Leone Verde, 2008, pagine 11 e seguenti. Tessore, docente di  arabo ed ebraico alla  Sapienza, è un sacerdote ortodossso greco.


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