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Populismo, ultimo richiamo. Poi scompare il popolo
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Avviso a tutti i saputelli mediatico-partitici che chiamano «antipolitica» quella di Beppe Grillo, e persino di Matteo Renzi: se non ve ne siete accorti, l’«Antipolitica» è quella al potere. Il capogruppo del Lazio, l’obeso e oscenamente allegro Fiorito, come i suoi compari a cui distribuiva i fondi occulti (ritagliandosi qualcosina per il SUV, cinque ville, 15 conti esteri) sono l’evidenza lampante dell’antipolitica. Quelli non sono saliti al potere per attuare un qualunque programma, per affermare una qualunque idea di bene pubblico, e nemmeno con la modesta ambizione di ben amministrare. Il loro unico scopo, è arraffare, arricchire, godersela.

E questi avevano pure tatuaggi «X MAS», si chiamano «camerati», (Fiorito «er federale de Anagni»), sui muri delle loro sedi stampigliavano a grandi caratteri frasi di Codreanu. Per la precisione, questa, e non si sa se ridere o piangere: «Per noi non esiste sconfitta né capitolazione, giacché la forza di cui vogliamo essere gli strumenti è invincibile per leternità». Gente che avrebbe dovuto dirsi: finalmente al potere dopo un secolo, facciamo vedere a tutti che noi fascisti siamo diversi; abbiamo l’occasione di riabilitare la nostra nobile ideologia tanto insultata, di farla di nuovo stimare, vogliamo essere strumenti di quella forza invincibile per l’eternità... macché. Appena al potere, quelli si sono attovagliati a mangiare. E scrivevano sui loro muri il detto di Ezra Pound: «Se un uomo non è pronto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui».

La seconda che hai detto, vecchio Ezra...

Insomma, è chiaro che questa che si rivela di giorno in giorno, fra scandali, conti occulti, M’arrazzo e Lusi, Lega con Trota e diamanti nascosti, Polverini e soci, arricchimenti a spese dei poveri e degli onesti, è l’Antipolitica: dove il fine non è attuare un programma pubblico o concretare un’ideologia nella realtà, ma solo «i soldi».

E appena qualcuno riesce a radunare qualche migliaio di persone che cominciano a gridargli: «Vaffan... », «A casa!», tutti questi alla tavola imbandita del potere, con l’osso di pollo ancora in bocca, si mettono a gridare: «Antipolitica! Il pericolo è l’antipolitica!». E si mettono sotto le ali di Napolitano e di Monti – i servi dei poteri forti transnazionali – che pontificano: «Il pericolo è il populismo».

Non lo hanno pensato loro: sono le centrali massonico-eurocratiche e bancarie a suggerire il termine. Stanno dissanguando popoli interi per difendere una moneta comune indifendibile e una teoria dogmatica, e appena i popoli cercano altri a rappresentarli, li tacciano di «populismo». Termine demonizzante, come «l’antipolitica» a cui è affine. Da cui si vede ancora una volta che i politici e i tecnici sono, come sempre, in combutta contro il popolo.

Ma cos’è poi il «populismo»? Se n’è mai tentata una analisi sui giornali dei saputelli ufficiosi? Perché il populismo sorge in momenti come questi?

Il populismo esprime «un momento della crisi dellessere-insieme di un popolo», ma tuttavia «un momento in cui lessenza del politico abita ancora nel popolo». Nel populismo sopravvive «lesigenza del bene comune», persa nel divorzio ormai consumato tra popolo ed élites.

Questa esigenza, «lessere-insieme sociale del popolo, la sua similitudine, è minacciata dallapprofondirsi di una divisione sociale che soppianta tutte le altre. La crisi di similarità sociale del popolo provoca la crisi del suo stare-insieme politico». In altre parole, il populismo «è una reazione alla distruzione dellessere sociale del popolo, fondamento della sua capacità politica. È una reazione alla perdita di presa sul proprio destino comune».

«Il populismo è l’entrata in resistenza di un popolo contro le proprie élites, perché ha compreso che queste lo stanno portando all’abisso».

Le frasi sopra riportate si trovano in un saggio del filosofo francese Vincent Coussedière, che ha il titolo coraggioso «Eloge du populisme».

In Francia, la «sinistra intelligente» ha sempre accusato Sarkozy di essere un demagogo, ed ha spiegato i suoi successi elettorali con la sua capacità di vellicare il «populismo» che cova nella pancia dei francesi. Noi potremmo dire altrettanto di Berlusconi e del suo elettorato (fra cui il sottoscritto ha purtroppo fatto parte). Troppo comodo, rimbecca Coussedière: «Spiegare la riuscita dei demagoghi in termini di populismo permette di evitare di porre la questione della responsabilità della classe politica, e più generalmente delle élites, nel perseguire politiche inaccettabili».

Politiche inaccettabili: come lasciar crescere la disparità sociale, l’iniquità tra super-ricchi e super-poveri, per compiacere la finanza speculativa. Come lasciar de-industrializzare (e dunque privare la cittadinanza della dignità del lavoro) per non instaurare il satanico «protezionismo». Soprattutto, come cedere la sovranità, ricevuta dal popolo, ad eurocrazie senza volto e non-elette, dietro cui ci sono i grandi interessi bancari. In Italia, liberarsi gioiosamente delle ultime briciole di sovranità cedendole a Monti (e agli interessi di cui è delegato), mantenendone però una sola: la «sovranità» di fissarsi da soli gli emolumenti. Continuare ad insistere sull’euro «da salvare» fino alla morte dell’ultimo europeo, invece di svalutare l’euro, o semplicemente uscirne. Insistere ad avanzare nel «federalismo» elaborato nei salotti felpati più di mezzo secolo fa, quando i popoli, ogni volta che vengono interrogati, lo rifiutano. Il mangiare e arraffare dei Fiorito è solo la conseguenza ultima, caricaturale perché italiana, di questo divorzio. In Francia, la politica è un po’ meno caricaturale – Sarkozy era già abbastanza una macchietta da essere insopportabile ai francesi – ma cova lo stesso male.

In Italia, il popolo ha «scelto» Berlusconi: ma aveva altre possibilità di esprimersi contro le politiche inaccettabili delle «élites» (che poi in Italia élites non sono), e il «pensiero unico» di tuti i partiti politici in lizza, tutti europeisti, e tutti attovagliati? S’è lasciato sedurre dal demagogo?
Diciamo piuttosto che Berlusconi ha tradito i suoi elettori, nella loro esigenza elementare. Essi gli hanno dato la forza, una forza mai vista, per attuare il programma, e lui è andato (letteralmente) a puttane. Idem per Bossi e la Lega: il programma era solo una finta, poi si sono attovagliate in Roma Ladrona. Facile criticare il popolo che s’è fidato. Ma se un popolo dà la sua fiducia a personaggi che poi si rivelano ignobili e pronti a tradirlo, il «nobile» è il popolo: è nobile fidarsi, è cialtronesco e vile tradirne la nobile fiducia (1).

In Francia, Sarkozy, da ultimo, ha riprovato a proporre al popolo – che portava sempre più nella cosiddetta «Europa» – la sirena «identitaria»: i francesi come etnia. Dove però, dice il filosofo, «il cittadino libero lascia il posto allindividuo fiero della sua identità», dove si cerca di «sostituire lassenza di progetto comune con l’identità comune»: che è lo stesso inganno della Lega, quando straparla di «Padania» o di «Celti», naturalmente (italicamente) in modo caricaturale.

Il popolo non ha creduto a Sarkozy. E ora la maggioranza è ai socialisti di Hollande – maggioranza del resto leggera e poco convinta. Accadrà lo stesso anche in Italia: per liquefazione suicida della coalizione berlusconista, «vincerà» Bersani e la sua galassia sgretolata di sinistra. Farà meglio?

No, prevede Coussedière, perché la sinistra, non più marxista, è tramutata in gauchisme, sinistrismo da salotto. «Il gauchisme è appunto ladattamento del marxismo allassenza di classe e di coscienza di classe. Sono gli individui de-socializzati che il gauchisme intende promuovere e radunare».

Lo vediamo benissimo nella sinistra italiana: Vendola e le nozze fra culandre, l’adozione di bambini da parte delle coppie gay, come «programma» per un preciso gruppo de-socializzato. Ma l’elenco sarebbe lungo: la sinistra promuove e difende tutte le minoranze di un certo tipo: culattoni, femministe, zingari (pardon, «rom»), quelli che tolgono il crocifisso dalle scuole «per rispetto dei musulmani» (che non si sognano di chiederlo), gli «immigrati» come blocco sociale, i no-TAV, le coppie che cercano un figlio con la fecondazione eterologa, ecologisti di quartiere che fanno chiudere una fabbrica e gettare sul lastrico 18 mila operai, drogati, i papà della Englaro, i promotori di eutanasia... e ovviamente tutte le caste, a cominciare dalla magistratura ferocemente inadempiente.

La sinistra, chiosa il filosofo, adotta come «politico non già ciò che gli individui hanno in comune, bensì ciò che al contrario li rende singolari, li differenzia». È «la comunità dell’assenza di comunità».

Ma così, aggiunge Coussedière, si stravolge «la concezione classica e repubblicana della libertà politica. Non si tratta più di strapparsi dallinteresse particolare nostro, di metterlo da parte per accedere al comune; si tratta al contrario di forzare il comune, il collettivo, a riconoscere ciò che cè di più privato». Parole che sottolineo in neretto.

«La coesistenza delle identità è il programma multiculturalista e comunitarista comune al gauchisme e alleuropeismo»: altro concetto memorabile, che rinnova quello famoso di Spengler: «La sinistra fa sempre il gioco del grande capitale, a volte perfino senza saperlo». In tal modo, però, nota Coussedière, «La legge diventa ilguardraildelle identità, tutte egualmente rispettabili in teoria». Ma allora lo Stato, l’ordinamento e le istituzioni cessano per principio di esigere dal cittadino, per la sua stessa libertà, di «strapparsi a ciò che è suo interesse particolare per accedere allinteresse comune». Oltretutto, queste minoranze protette e promosse dalla sinistra non sono diverse dal «nazionalismo identitario» di Sarkozy. Anche queste procedono da movimenti «identitari».

I movimenti identitari (noi kulandre, noi femministe, noi rom, noi islamisti, noi padani, noi siculi...) non sono, come credono gli identitari stessi, movimenti originari, spontanei. Coussedière: «I movimenti identitari procedono dalla decomposizione dei movimenti politici», come i vermi nella carogna. «Di fronte allimpossibilità di adottare liberamente dei fini comuni, cercano la trascendenza di un fine indiscutibile che rifaccia lunità della comunità». Ma ciò è proprio «quel che la costruzione europeista propone in sostituzione dellappartenenza alla cittadinanza: lappartenenza ad un collettivo identitario qualunque». Zingari, culattoni, islamisti fanatici, a Bruxelles importa poco; solo dei cittadini unificati in quanto tali possono opporsi ai progetti mondialisti-bancari.

Oltretutto, se si promuove ed applaude il Gay-Pride (l’Orgoglio di essere Finocchi), non è poi possibile reprimere lo «Islam-pride» dei jihadisti di terza mano, cittadini francesi da tre generazioni, che di botto si mettono a vestire mogli e figlie con i chador neri fino agli occhi. Identitarismo l’uno, come l’altro. Anche se «la versione islamista dell’Islam», che Coussedière tiene ben distinta dall’Islam, è un problema in quanto mostra la non-volontà degli immigrati di diventare cittadini, alla pari col popolo, esigendo una separatezza dagli altri che diventa inimicizia. Fino a quel «pullulare di gruppi minimi reciprocamente ostili» che per Ortega y Gasset costituisce la barbarie, o come minimo la dis-società: la negazione della società politica.

Ma anche questa inimicizia è voluta. I poteri forti promuovono notoriamente (ab chao) il nuovo ordine mondiale, dove «allinterno, non esistono più altro che comunità – ossia minoranze, ndr –definite dalla loro identità, e non un popolo definito dalla sua similitudine. Allesterno, unautorità politica che non è più quella del popolo stesso, ma di una oligarchia imperiale» gestita dai tecnocrati.

Non è esattamente questo il nostro autoritratto collettivo, in questa svolta storica tragica verso la miseria e l’irrilevanza europea sulla scena nel mondo? Lo è. Coussedière canzona questi politici che hanno ceduto il potere ricevuto dal popolo ai tecnici, «i nostri governanti che non ci vogliono più governare, non vogliono più aver a che fare con questo popolo divenuto populista, di questo popolo che non è più un popolo, dicono loro, perché è populista», e in Francia, dà un’inquietante quantità di voti al Front National.

Essendo la nostra storia italiana sul registro del comico, i nostri politici hanno ceduto direttamente il timone ai tecnici, e vogliono che restino lì ancora altri anni... ma la spocchia è la stessa. L’aria di sufficienza che inalberano davanti a Grillo e ai grillini, a Matteo Renzi e a chi lo ascolta, è la boria dell’Antipolitica al potere, che ha sequestrato tutto: legalità, sovranità, ed anche prosperità e legittimità.

Di fronte a costoro, i mille e diecimila ingenui o speranzosi che vanno ai comizi-spettacolo di Grillo o Renzi sono sì il sintomo «della crisi dell’essere-insieme di un popolo», ma allo stesso tempo la dimostrazione che «lessenza del politico è ancora trincerata nel popolo», e non in lorsignori. È l’ultima ridotta. Sconfitta quella, non rimarrà più niente di civile.

Resta da controbattere l’ultima obiezione che gli spocchiosi fanno di questo fenomeno: che «il popolo» com’è concepito dal populismo, non esiste (2). È una visione angelistica, irreale e infine demagogicamente adulatrice, fare del popolo il depositario di tutte le virtù, e dei partiti il nucleo di tutti i vizi. Farne un blocco di moralità contro il pullulare di particolarismi. Il popolo è corrotto quanto i partiti, ci dicono. Dopotutto, Fiorito è stato votato da 30 mila di Anagni; è il popolo che «evade le tasse», che briga per favori e posti, che offre o chiede tangenti, che prova a scavalcare la fila invece di stare in coda...

Questo è vero. Ma è vero solo per metà: nel senso che questa metà attraversa ciascuno di noi. Per metà, ciascuno di noi è corrotto – in gran parte corrotto dalle stesse istituzioni corrotte, a tal punto che si deve corrompersi per sopravvivere. Nessuno di noi si rifiuterebbe di prendere il posto e l’emolumento di un Fiorito o di un Gasparri o di un Lusi, visto che quelli si beccano dieci volte il nostro salario. Tutti vorremmo seguire il nostro interesse particolare. Però, solo per metà. L’altra metà di noi «sa» che queste cose non sono giuste, anzi gridano vendetta al cospetto di Dio, e protesta quando scopre gli scandali. Specie se sono scandali degli altri, si capisce. Però questa protesta non è ipocrisia. È il «popolo» che c’è in noi, con la sua esigenza, confusa quanto si vuole, di «giustizia», di «legge uguale per tutti», di parità sociale e civile, di moralità e decenza nell’uso del denaro pubblico; di mettere da parte il proprio interesse particolare per aderire all’interesse comune, o addirittura al bene comune.

Ciò significa che «il popolo» esiste, ma – appunto – come entità politica. Non come fatto «naturale», né come «identità», né come coacervo di individui, ma come una esigenza fondamentale del vivere insieme. Un ideale, se vogliamo. Il popolo esiste in modo imperfetto; ma che chiede di essere liberato dai particolarismi, dalle corte vedute, dalle furbizie di piccolo cabotaggio e da profitti meschini a danno di tutti gli altri, ossia dall’altra metà di se stesso.

Oggi, una classe politica degna di questo nome dovrebbe prendere decisioni anche dure, reprimere, disciplinare, persino superare la «legalità», e potrebbe farlo a buon diritto «in nome del popolo», anche se colpisse un numero incredibilmente alto di individui. Dovrebbe rieducare il popolo, contro la dis-società che pullula nel suo seno, ma che «il popolo», in quanto tale, in quanto ideale di sé, non vuole.

Sono sicuro che «il popolo» è ancora capace di dare tutta la fiducia, e dunque la sua forza, a chi gli fosse leale, a chi mostrasse di non barare al gioco.

«Eloge du populisme», Vincent Coussedière, Elya editions




1) Una delle nostre tragedia nazionali più misconosciute è che la gente «non si fida», per principio e in anticipo, di chi va al potere. Questa negazione previa della fiducia è purtroppo ben giustificata dai tradimenti storici; nondimeno, non cessa di essere meschina, ignobile. È questa attitudine ad impedire che si faccia «qualcosa di grande assieme».
2) Anche qui, la più precisa e tagliente definizione di questa teoria viene dal liberismo selvaggio, da Adam Smith a Margaret Tatcher: non esiste un popolo, ma solo una sommatoria di individui. La sinistra l’ha adottata.


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