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Colpi di coda di Bush
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L’incidente fra MAS iraniani e non precisate navi americane nello stretto di Ormuz ha ovviamente lasciato col fiato sospeso: non perché ci sia qualcosa di vero (cose simili devono accadere ogni giorno, con due squadre navali Usa nell’esiguo braccio di mare) (1), ma perché il fatto ha coinciso con la visita di Bush in Israele.

Tutti hanno pensato all’incidente del Tonkino, (mai) avvenuto fra navi USA e vietnamite, che nel 1964 diede agli americani il pretesto per l’escalation (oggi direbbero «surge») in Vietnam.

Bush è ormai un’ombra che sta per uscire di scena, e da quando è cominciata la campagna presidenziale è nel cono d’ombra dell’oblio.

Proprio il giorno prima l’Independent derideva questo «forgotten leader»: «Il capo dimenticato, detestato dal suo popolo, diseredato dal suo partito. Proprio adesso Bush si imbarca in un ambizioso viaggio di nove giorni in Medio Oriente un ultimo disperato tentativo di salvare la sua memoria dopo due mandati segnati da una politica estera catastrofica, che gli ha valso il titolo di essere uno dei peggiori presidente della storia del suo paese».

In quella mente eclissata, un incidente del Tonkino che consentisse l’ultimo glorioso atto – l’aggressione all’Iran – può avere un’attrattiva irresistibile.
Tanto, lui non ha più nulla da perdere.
Qualche segnale inquietante che proprio questo si stesse preparando non è mancato.

Proprio mentre il presidente dimezzato faceva le valige, è ricomparso in video «Azzam l’Americano», il cosiddetto portavoce-esteri di Al Qaeda, ed ha minacciato direttamente Bush.  Come noto, Azzam Al-Amriki si chiama in realtà Adam Pearlman, ebreo americano, con nonno ricchissimo e fanatico membro dell’Anti-Defamation League.
Improvvisamente «convertito» all’Islam, è riapparso appunto come commentatore, traduttore e curatore dei video di Al Qaeda.
Insomma, un agente del Mossad, sul genere di Rita Katz con cui forse lavora di concerto: lui confeziona i messaggi dei terroristi, lei li «scopre» su siti musulmani che lei solo conosce, e li cede (a pagamento) a CNN, Fox, Mediaset eccetera.

Un altro indizio di progetti in corso lo forniva il Sunday Times del 6 gennaio, grazie al suo corrispondente da Tel Aviv: «Israel to brief George Bush on options for Iran strike», strillava il titolo.
Ossia: «Israele informerà Bush sui vari piani d’attacco contro l’Iran». 

Ecco il seguito: «Ehud Barak, il ministro della difesa, vuol convincere Bush che un attacco militare israeliano contro le installazioni di arricchimento dell’uranio è fattibile. Sono state elaborate una varietà di opzioni militari. Lo spionaggio israeliano esporrà al presidente i suoi ultimi dati d’intelligence sul programma nucleare iraniano, e su come può essere distrutto».
Gli israeliani hanno capito bene, continuava il giornale britannico, che il rapporto NIE, in cui 16 agenzie d’intelligence USA negavano l’esistenza di un programma di armi nucleari di Teheran, ha azzerato le possibilità di Bush di lanciare gli Usa contro l’Iran.
Ma sono convinti di poter ancora premere sulla Casa Bianca esibendo informazioni a loro note e non alla CIA, e minacciando di «andare da soli».

Dunque la provocazione di Azzam l’Americano e l’incidente del Tonkino nel Golfo Persico appaiono come i preparativi propagandistico-virtualisti dell’attacco.

Ma poi qualcosa è successo.

Shimon Peres, il presidente israeliano, s’è fatto intervistare dalla Suddeutsche Zeitung per dichiarare: «Non credo sia necessaria una guerra all’Iran, le sanzioni bastano».

Qualcosa è avvenuto all’interno del potere di Sion: siluri sono partiti contro Ehud Barak, il ministro della difesa.
Oggi uno dei più fanatici sostenitori delle soluzioni estreme (peggio di Netanyiahu, dicono in Giuda) perché sente che anche la sua credibilità è a terra (dopo la guerra in Libano del 2005, che è stata una sconfitta reale per Sion) e che il suo destino politico è compromesso.
Barak vuol aggredire l’Iran per salvare se stesso?
Shimon Peres, laborista, non ha certo voglia di dargli questa possibilità.

In USA, l’incidente di Tonkino-Ormuz non ha affatto eccitato una popolazione preoccupata della recessione incombente e dei valori immobiliari crollanti.
E’ significativo il diverso tono degli spot di propaganda dei candidati.
Mentre Obama e Hillary agitano il tema dell’assistenza sanitaria universale e dei mali delle delocalizzazioni che hanno portato disoccupazione, Rudy Giuliani ha uno spot che mostra Benazir Bhutto sotto un titolo: «Odio senza confini», mentre una voce fuori campo intona: «Un popolo pervertito, una potenza nucleare nel caos».
Mike Huckabee ha evocato in una conferenza stampa il pericolo di «pachistani armati di missili a spalla che possono penetrare attraverso la frontiera col Messico
».
Certo un mega-attentato che rinnovasse il gran tema del terrore farebbe comodo a questi candidati, sicuramente perdenti.
Ma tutti sanno che, sia Obama o la Clinton, sarà un democratico a diventare presidente.

Sicchè il tour di Bush in Medio Oriente, salvo sorprese, si profila come una malinconica serie di passi perduti.

Parlerà con Abu Mazen, che non conta nulla, e lo premerà a fare concessioni ulteriori a Sion. Parlerà con Olmert, lui stesso perdente e presto uscente.
Andrà ad assicurare gli stati del Golfo della perenne protezione armata americana, ma questi stanno già stringendo buoni rapporti con l’Iran, il supposto nemico minaccioso.
Andrà a predicare la democrazia alla monarchia saudita e al dittatore egiziano, i quali lo ascolteranno sapendo che fra qualche mese avranno da trattare con un presidente Usa nuovo e diverso.

Prima di partire, Bush ha dovuto fare una cosa che davvero lascerà un ricordo della sua presidenza: per la prima volta a memoria d’uomo, ha convocato nel suo ufficio ovale il Plunge Protection Team (2), ossia l’organo semi-segreto (il suo nome ufficiale è President’s Working Group on Financial Markets) il cui compito è l’intervento di emergenza in caso di crack finanziario incontrollabile.

Capeggiato da Hank Paulson ministro del Tesoro (ed ex presidente Goldman Sachs) e da Ben Bernanke (FED), questo organo  deve sostenere i mercati usando per lo più strumenti ad alta leva, come contratti «futures» sugli indici tipo Dow e NASDAQ.
Può effettivamente rendere la vita difficile agli speculatori che cavalcano  il ribasso.

Secondo il Washington Post, questo ente ha deciso una serie di misure di «stimulus», tagli alle tasse per le imprese (ancora!) e qualche gratificazione ai consumatori, magari un aiutino a quelli strangolati dai mutui variabili.

Solo che il problema è un altro, oggi.
Esso consiste in ciò che Kaynes, negli anni ’30, chiamò «extreme liquidity preference»: le banche si tengono tutta la liquidità iniettata dalla Federal Reserve anziché offrirla per prestiti, gli speculatori non ancora rovinati si tengono liquidi (non investono), e così da cinque mesi la pompa del credito ha praticamente smesso di funzionare.

Il dramma è che le leve per tentare di superare questa crisi sono in mano straniere.
Il Giappone resta il maggior creditore degli USA (seguito dalla Cina) con 3 miliardi di dollari investiti in attivi esteri, per lo più americani.
La Banca del Giappone è stata, nel boom degli ultimi cinque anni, la grande fornitrice di liquidità al mondo: con il tasso primario allo 0 per cento, c’è stata la corsa a prendere a prestto in Giappone per investire dovunque, Turchia o Lituania, USA o Londra, una qualunque obbligazione, pacchetto sub-prime o commercial paper promettesse un interesse più alto.

Oggi la borsa di Tokio è calata di un quinto rispetto al suo vertice precedente, e ciò perché i grandi esportatori tipo Toyota o Sony esportano meno.
Conseguenza: i giapponesi ritirano i capitali che avevano investito all’estero, come sempre fanno quando le cose vanno male in casa.
Lo yen si è rivalutato del 13 per cento sul dollaro da agosto.
E’ la fine del «carry trade», il trasporto di denaro a basso costo dal Giappone al mondo, il credito facile che valeva (secondo BNP Paribas) 1,4 trilioni di dollari di linfa creditizia.

Il Baltic Dry Index, l’indice dei trasporti navali di «carichi secchi» che misura la vivacità del commercio fisico mondiale, sta calando da oltre due mesi, segno che il mercato globale rallenta parecchio.

Persino Singapore ha visto contrarsi la sua economia del 3,2 per cento nell’ultimo quadrimestre del 2007, perché non vende più tanta elettronica e chips come prima.
La Cina sta già mettendo le redini al suo credito scatenato per motivi interni.
L’Asia non aiuterà gli Usa fornendo loro nuovi capitali.

A meno che non possa chiamarsi salvataggio l’acquisto a prezzi di liquidazione che i fondi sovrani, asiatici e arabo-petroliferi, stanno facendo delle banche USA rovinate dalle proprie follie finanziarie sub-prime.
Citigroup e UBS sono già in parte di proprietà asiatica, e i loro futuri profitti andranno ai nuovi padroni.
Ma quali profitti, poi?

Gli analisti di Moody’s hanno valutato la perdita di ricchezza USA dovuta allo scoppio della bolla immobiliare i 2.500 milioni di dollari: molto più del capitale di tutti i fondi sovrani di questo mondo messi insieme.

I valori immobiliari sono già in caduta libera in Gran Bretagna, e stanno declinando in Spagna (il paese del Club Med che ha dovuto il suo boom più che altro all’edilizia), Irlanda, Grecia, Scandinavia ed Est Europa.
Qui, alla fine, la perdita di ricchezza valutata è sui 1.500 miliardi di dollari, altri soldi sottratti al credito e agli investimenti.

La risposta delle banche centrali è contrastare il problema inflazionando, ma possono farlo solo fino ad un certo punto: l’inflazione colpisce i buoni del Tesoro, e se si esagera la perdita da questo lato finisce per equivalere alla perdita di valore immobiliare.

Insomma è difficile che Bush chiuda la sua tragicomica presidenza con un New Deal, impresa per cui non dispone né dell’autorità mondiale, né dell’intelligenza né dell’ideologia giusta.
Il Plunge Protection Team può solo guadagnare tempo, abbassando le tasse, per lasciare in eredità il disastro al nuovo presidente.

Se sarà Obama (come comincia a sembrare), la politica mondiale americana tornerà sui binari del vecchio imperialismo già noto.
Il supremo consigliere di Obama in politica estera sarà Zbigniew Brzezinski, il cui programma centrale consiste nel contenimento della Russia, e se possibile nel suo smembramento, per accedere alle ricchezze petrolifero-minerarie dell’Asia centrale.
A fianco di Obama è già il figlio di Brzezinski, Mark, già membro del Consiglio di Sicurezza Nazionale di Clinton, e gran fabbricatore delle «rivoluzioni colorate» del 2004, a cominciare dall’Ucraina.

Gli altri assistenti di Obama saranno Susan Rice (già vicesegretario di stato per l’Africa) che ha il pallino di un intervento in Sudan, «umanitario» ovviamente;  Richard Clark, come consigliere anti-terrorismo (lo è stato già sotto Clinton); Dennis Ross per il Medio Oriente, già negoziatore in quell’area per Clinton, che continuerà il gioco di aizzare gli stati arabo-sunniti contro l’Iran sciita, e perpetuare l’occupazione Israeliana delle terre palestinesi (3).
Nulla di molto diverso, in fondo.
Ma questa nuova amministrazione probabilmente non avrà più i mezzi per una politica mondiale del genere.

 


Note

1) Nelle stesse ore del supposto incidente, due caccia USA decollati da portaerei si sono scontrati in volo e sono precipitati in mare.
2) Ambrose Evans-Pritchard, «Bush convenes Plunge Protection Team», Telegraph, 7 gennaio 2008.
3) Informazione fornita da Webster Tarpley.

 

 
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