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Abusi di potere
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Un lettore scrive:

«Tutti i giornalisti sono insorti contro il disegno di legge che vieta la diffusione delle intercettazioni giudiziarie, un disegno evidentemente liberticida, e che renderà impossibile combattere la mafia. Tutti, voglio dire, tranne lei. Berlusconiano come sempre, vero?

A.L.
»


Glielo dico subito: Berlusconi ha torto. Così adesso – spero – sarà più calmo. Abbastanza calmo dal seguire un ragionamento un po’ più ampio.

Immagini, caro lettore, se Vladimir Putin si fosse candidato alla presidenza russa, in violazione della legge colà vigente, che vieta più di due mandati consecutivi: l’intero mondo, e anche i nostri media, avrebbero strillato che Putin è il dittatore che sembrava, e che è confermata in Russia la fine della democrazia. E avrebbero strillato a ragione.

Ebbene: in Italia è avvenuto lo stesso senza che la stampa abbia lanciato non dico uno strillo, ma un sospiro. Il governatore della Lombardia Roberto Formigoni s’è fatto rieleggere per la quarta volta, in violazione di una precisa legge (165 del 2004) che vieta il terzo mandato consecutivo per i governatori regionali.

Vasco Errani
   Vasco Errani
L’opposizione non ha protestato, ed è chiaro il perchè. Perchè anch’essa ha un governatore (Vasco Errani, Emilia Romagna) candidatosi per la terza volta contra legem, e un altro nelle stesse condizioni in Umbria. Ma ha forse protestato il Colle, con uno dei suoi augusti richiami alla sacralità del diritto? Silenzio completo. E la magistratura, sempre così iperattiva a smascherare gli abusi del potere diramando intercettazioni ai giornali, specie se il potere è  berlusconiano, ha forse aperto un fascicolo sul fatto che tre regioni sono governate da governatori invalidi? Nulla. Ma almeno la libera stampa, testè insorta per mantenere il diritto a pubblicare le piccanti intercettazioni di non-inquisiti, avrà levato la sua voce in una campagna contro questa illegalità? Non so lei, ma io non ho letto una riga.

E il popolo? I cittadini? Si sono forse rifiutati in massa di votare quei candidati che si presentavano in violazione patente di una legge? Macchè. I politici potevano almeno, visto che maggioranza e opposizione erano d’accordo, abolire la legge che vieta il terzo mandato. Macchè: l’han lasciata vigente. Il che è ancor più grave, perchè dimostra  il più profondo disprezzo della legge. La disprezzano tanto, da non darsi nemmeno la pena di cancellarla; convinti che un accordo implicito fra maggioranza e opposizione basti a rendere una legge inoperante.

Lei mi dira: che c’entra questo, con la legge liberticida che limita le intercettazioni? C’entra, caro lettore. Il silenzio corale – che vale assenso – al fatto che tre governatori si siano fatti rieleggere contra legem, testimonia che non esiste fra noi quella coscienza giuridica viva e attiva della società,  senza la quale lo Stato di diritto si muta continuamente in Stato della forza, e dell’abuso.

I procuratori hanno il potere di intercettare conversazioni di sospetti. E’ un potente potere discrezionale (i cui limiti non possono essere precisamente definiti per legge) ma proprio per questo, è da usare con discrezione. Tale «discrezione» può essere solo nell’intimità dell’inquisitore-magistrato, ossia demandata alla sua convinzione profonda e sincera che «la libertà della persona e la sua inviolabilità sono i fondamenti di un sano ordinamento giuridico», o che il diritto esiste solo là dove esiste la libertà della persona, o – ancora che il senso di un ordinamento giuridico «nel quale tutte le persone di una data società possiedano la più grande libertà d’azione e di autodecisione».

Come sappiamo, i nostri magistrati hanno abusato di questo potere che, violando la libertà della persona, doveva essere usato in modo eccezionale; non solo, ma hanno passato a giornalisti amici tutti i gossip piccanti raccattati dalle intercettazioni su persone non inquisite, allo scopo di demolire l’immagine morale di questo e di quello – invariabilmente, solo di avversari politici della casta magistratuale.

Questi personaggi, beninteso, sono già di per sè figure moralmente raso-terra. Ma tuttavia, a trovare sui giornali le loro conversazioni con escort e massaggiatrici, hanno avuto giustamente il senso che la loro persona sia stata violata. Essendo al governo o legislatori, hanno ben pensato di difendersi dall’abuso dei magistrati, abusando a loro volta del loro potere.

E’ chiaro che Berlusconi ha la coscienza giuridica di un armadillo. Lui, avrebbe voluto una legge di un solo articolo che recitasse: «E’ vietato intercettare e diffondere ai media le conversazioni, trattative, pagamenti e ‘carinerie’ tra il presidente del consiglio e la signorina (D’Addario). Sostituire il nome fra parentesi con la escort del momento». E magari un’altra legge recitante: «La Protezione Civile diventa il ministero del Fare. In nome della rapidità ed efficienza d’azione, ogni azione di governo passa alla Protezione Civile, alle dirette dipendenze dell’Uomo del Fare, che compirà tutti i lavori pubblici senza gare di concorso, distibuendoli fra parenti di gestori di case d’appuntamento e palazzinari che regalano case ai ministri».

Ma circondato da quali avvocati sappiamo, invece ha cercato di far passare un legge che non solo delimita in modo tassativo la «discrezionalità» del giudice nell’intercettare, ma commina multe e galera ai giornalisti che pubblicano qualunque intercettazione (lasciando immuni i veri colpevoli, i magistrati che passano le intercettazioni ai giornalisti), anzi persino punendo la pubblicazione di semplici notizie su atti d’indagine.

I giornalisti sono a loro volta insorti: non a difesa di un diritto, ma degli abusi a cui erano abituati.  E l’Armadillo Giuridico, spaventato per i sondaggi, s’è già rimangiato in parte la legge truculenta – truculenta come quelle grida di manzoniana memoria, che diventavano tanto più sanguinariamente punitive quanto meno erano osservate.

In questa battaglia, nessuno ha difeso il diritto, tutti hanno difeso la loro casta e il loro pezzo di potere,  il raggio di potere conquistato con l’abuso. Quello che c’è riuscito meno è proprio l’Armadillo Giuridico. Ma anche gli altri, sul piano della coscienza giuridica, non gli sono zoologicamente superiori.

Quest’assenza di coscienza giuridica – del limite interiore che c’impedisca di trasformare i nostri diritti in abusi – è un fenomeno generale. Vale per noi italiani quel che Herzen scrisse dei russi del suo tempo: «L’insicurezza giuridica che pesa sul popolo è stata per lui una scuola. La scandalosa ingiustizia di una metà delle leggi gli ha insegnato ad odiare anche l’altra metà; esso vi si sottomette come a una forza. La disuguaglianza davanti al tribunale ha ucciso in lui ogni rispetto per la legalità. Il russo (l’italiano), quale che sia la sua professione, aggira o vìola la legge ovunque possa farlo impunemente; e la stessa cosa fa il governo».

Non ci dipinge questa frase? Se Formigoni e Vasco Errani violano la legge, se il giudice prende per buona la testimonianza di un assassino in quanto «pentito», che lui stesso paga col denaro pubblico (mentre  noialtri cittadini qualunque, se siamo chiamati a testimoniare, siamo sottoposti ad un esame sulla nostra onestà e onorabilità) è ovvio che il cittadino che viene arrestato perchè passando col rosso ha arrotato una vecchietta senta la punizione come un’ingiustizia: perchè solo «io», e non anche «loro»? E’ ovvio che l’evasore fiscale lo faccia con coscienza limpida quanto torbida: io  abuso? Sì, ma anche Scaiola. Anche Di Pietro con quella faccenda dei soldi nella scatola da scarpe. Anche Fassino intercettato a dire «abbiamo una banca». Anche quell’eurodeputato che faceva la cresta sui biglietti aerei per Bruxelles, e nonostante tutto è un venerato presidente della Rep. Anche il procuratore che usa la carcerazione preventiva per far confessare.

Da questa assenza di una viva coscienza giuridica viene il continuo e inutile richiamo a rispettare «le regole»: regole, anzichè leggi, è un uso rivelatore della parola. Di norma, le regole sono quelle dello scopone e degli scacchi, le leggi sono qualcosa di più.

Da questa assenza di coscienza giuridica attiva e diffusa viene anche il proliferare incessante delle «leggi» che fa il parlamento.

Mi spiego: gli antichi romani, dal 450 avanti Cristo (le XII Tavole) fino alla caduta dell’impero, ossia in oltre mille anni, hanno varato circa 800 leggi. E solo una ventina sono leggi come le intendiamo noi, ossia disciplinanti i rapporti sociali (per lo più sono dichiarazioni di guerra, ratifiche di trattati, eccetera). Il popolo romano, «popolo del diritto» per eccellenza, non era affatto il «popolo delle leggi». I suoi giudici non avevano un codice su cui regolarsi, nè leggi emanate dal parlamento a cui attenersi; anzi, non erano nemmeno dei professionisti, il pretore essendo una carica della carriera politica (cursus honorum). Eppure se la sono cavata abbastanza bene. Come?

Hanno creato il diritto – o per meglio dire constatato il diritto – nella pratica quotidiana, con le loro decisioni giudiziarie.

Oggi, pochi capiscono che per secoli non c’è stato bisogno di leggi scritte per fare giustizia. Anche senza leggi, un giudice onesto e intelligente poteva sempre, fra due litiganti che gli sottoponevano la loro disputa, stabilire chi aveva «diritto» ossia ragione, e chi torto. Ciascuna delle parti, s’intende, davanti al tribunale romano difendeva «i suoi interessi» personali; ma ciascuna lo faceva cercando di dimostrare «il suo diritto», non il suo interesse. Lo doveva fare perchè il processo avveniva in pubblico all’aperto o in una basilica, e non solo il giudice era lì a cercare di capire chi dei due litiganti aveva «diritto», ma il popolo stesso, vociante e talora minaccioso, e i testimoni che ciascuno  si portava, non di rado provvisti di randelli: era dunque la coscienza giuridica sociale viva e attiva (fin troppo) a cui il giudice appoggiava le sue sentenza, che erano una determinazione autoritativa di ciò che era «diritto» in quel caso particolare.

Spesso il giudice (pretore e i suoi delegati), non essendo degli esperti, chiedevano il parere di giureconsulti, che divennero una forza essenziale nella creazione del diritto romano. Anch’essi si appoggiavano alla coscienza giuridica del popolo, che essendo viva e attiva, cambiava col tempo.

Esempio: le XII Tavole furono sempre considerate la «costituzione» di Roma, eppure nessuno si sognò più, dopo i primi tempi arcaici, di applicare alla lettera la sacra legge delle XII tavole che prescriveva lo squartamento del debitore (partes secanto). E nessun creditore pretese più la dissecazione del creditore – eppure la lettera della legge gliene dava facoltà – perchè avrebbe avuto da vedersela col pubblico, la cui coscienza non tollerava più certi metodi.

Altro esempio: il padre di famiglia aveva all’inizio diritto di vita e di morte sui figli (ius vitae necique). Ma a poco a poco, questo diritto assoluto del padre viene ridotto e infine annullato. Il giurista  Ulpiano sancirà: «La patria potestà deve consistere nell’affetto, non nella crudeltà» (Patria potestas in pietate debet, non in atrocitate consistere). Stessa evoluzione per lo schiavo: all’inizio è una cosa (res), a poco a poco gli viene riconosciuto il diritto alla proprietà privata di ciò che guadagna (peculium), di trasferirla a chi vuole per testamento, e persino di denunciare al magistrato un padrone troppo crudele.

Perchè, come dirà un altro giureconsulto imperiale, nel «fare il diritto» occorre attenersi allo spirito della «benignitas», della cordiale simpatia per la vita  umana. «Il diritto è la scienza del bene e dell’equità» (ars boni et aequi), non della vendetta, dello spirito di parte o della malafede. Il magistrato deve cogliere non la lettera, ma lo spirito, nè la lettera va interpretata capziosamente (verba captari).

Tutti gli istituti giuridici – il diritto familiare, il modo del testamento e le forme del contratto, la proprietà (pensiamo solo alla distinzione fra «proprietà», possesso e detenzione), le servitù (diritti su cose altrui, iura in re aliena), la tutela del minore e dell’incapace, tutto ciò è stato creato dai romani – senza alcuna legge scritta. Anzi, dice Cicerone: «Sbaglia chi crede giusto tutto ciò che è scritto nelle leggi e nelle istituzioni  dei popoli»; ogni volta il diritto va cercato caso per caso, basandosi sulla retta ragione (prudentia) e «non sull’opinione, ma su una sorta di istinto innato» (non opinio, sed quaedam innata vis) che è in ciascuno di noi alla stessa stregua della «religione e della verità».

Oggi invece abbiamo bisogno di tante leggi scritte. Perchè nei giudici, nei governanti e nel popolo è spenta la viva coscienza giuridica, la «innata virtus», occorrono una quantità di leggi per delimitare minuziosamente la discrezionalità, per impedire gli abusi, i cavilli malevoli, la malafede che mantiene la forma, ma nega lo spirito. Ovviamente, «una regolamentazione dettagliata di tutte le relazioni sociali per mezzo di articoli di legge scritta è tipica dello Stato poliziesco», ed è il contrario dello Stato di diritto. Senza contare che moltissime delle leggi scritte sfornate dal parlamento sono in sè abusi, magari intesi a favorire una lobby o un ceto specifico di elettori contro altri.

La legge come favoritismo, o come arma politica, che «si applica» ai nemici e «si interpreta» per gli amici. Naturalmente questo coacervo di abusi aventi valore di leggi ignora ogni senso interiore del diritto; tutti li sentono come «norme esteriori e senza vita», che è quindi possibile cambiare secondo le convenienze della maggioranza, mettere in non-vigenza quando fa comodo, o da invocare invece rabbiosamente, moralisticamente, contro l’avversario politico e ideologico.

Perchè il moralismo dei «giustizialisti» è solo l’espressione e il riflesso del nichilismo italiano contemporaneo. Il nichilismo è proprio di chi crede che non esista verità; nè quindi sente il diritto come forma speciale della verità. Si vede dal fatto che le leggi, oggi, secondo i più, devono «servire» a qualcosa, essere «utili». La pena inflitta dal diritto penale mira non alla semplice punizione, ma al «recupero sociale» del reo, la sua «rieducazione». Ciò non fa giustizia al  colpevole, perchè non lo considera un uomo responsabile delle sue azioni (la pena ne è solo una conseguenza), bensì un cane da riaddestrare.

Il moralismo come espressione del nichilismo si vede anche da un altro fatto comunissimo: i nostri moralisti si indignano per l’arbitrio, la rozzezza e la disonestà di Berlusconi e dei berluscones, ma si rallegrano se l’arbitrio viene da uno della loro parte. Per esempio difendono Santoro che ha usato la TV pubblica per i suoi scopi privati, pro domo sua, facendo esattamente ciò che fa Berlusconi, e che tanto  indigna. E c’è ancora chi condanna Hitler, ma condona a Stalin le stesse azioni. Ciò avviene  perchè l’idea di diritto non discende, in costoro, da convinzioni filosofiche-religiose, ma dai «fatti del giorno» e dalla convenienza per la propria parte.

Così parteggiando parteggiando, decadiamo moralmente ogni giorno di più. E abbiamo bisogno di sempre più leggi minuziosamente costrittive che ci diano una disciplina esteriore, proprio perchè ci manca quella interiore. Sforzo vano però.

Come mai siamo a questo punto, non solo noi italiani ma, in grado diverso, anche tutti gli altri popoli del secolo?

Io credo che sia l’esito ultimo della compiuta secolarizzazione dello Stato. Abbiamo visto che Cicerone giurista fa discendere il diritto da cose come «la religione e la verità»;
i romani erano a loro modo religiosissimi, tanto che gli atti del diritto, dal testamento alla liberazione dello schiavo, non avevano valore se non sanciti secondo rituali molto arcaici.

Ciò perchè – come ha intuito il sociologo Michel Gauchet – nelle comunità arcaiche e primitive la religione è «l’esternalità radicale»: il suo potere non appartiene a nessun uomo. Il capo delle società primitive, il re romano (poi mantenuto anche nella repubblica come Rex Sacrorum) ha poteri molto limitati: non fa che richiamare al rispetto dell’eredità degli antenati, di quelli che hanno avuto la Legge dalla divinità. Una legge che il re, nè nessun uomo, può modificare. Essa è esterna a tutti,e  tutti sono eguali in questa spossessione. In questo senso, è la Verità che garantisce tutti: nessun uomo è padrone della legge come non è padrone della verità: non gli è dato inventarla ma solo «scoprirla», non  può mutarla o ancor peggio fabbricarla a suo favore, senza commettere un sacrilegio.

Nella modernità, lo Stato è concepito come una invenzione volontaria degli uomini (contratto sociale), e si cerca di dargli leggi derivate dall’interno stesso della società, dalla «composizione di interessi» anzichè dalla verità, quando non dai rapporti di forza reali fra deboli e forti; di qui l’idea che il diritto sia un fabbricazione umana, e dunque manipolabile, privo di maestà. Fino alla tendenza alla privatizzazione dello Stato, esito finale della sua desacralizzazione totale. E tuttavia, l’oscura sensazione che non si può dare società senza una «esternalità radicale» sottratta agli uomini, si mantiene in qualche modo; nelle Costituzioni. Esse sono dichiarate fisse e sacre, o almeno riformabili a maggioranze ultra-qualificate.

Espediente umano, troppo umano.



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