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Caro D'Azeglio, gli italiani, finalmente, sono fatti - Pagina 2
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Nella prefazione de «I miei ricordi» (1867) scriveva: «... S'è fatta l'Italia ma non si fanno gli italiani»; lui che fu uomo rigorosissimo e pochissimo massone per essere stato convinto del fatto che «...con i governi liberi ogni associazione segreta deve essere proibita» (1), auspicava la formazione di italiani dotati «d'alti e forti caratteri».

In 140 anni molto è cambiato; oggi vedrebbe il trionfo dell'assenza del «pensare forte, severo e rigoroso» ed il moltiplicarsi delle associazioni segrete; anzi, vedrebbe il «governo» (l'Italia repubblica liberale e massonica) delle associazioni segrete che, sulle ali dell'inganno liberale, stanno completando la svendita del frutto del lavoro di mille e mille italiani e non saranno paghe fino a quando questo povero Paese non sarà stato ridotto a Paese povero.

Possiamo ben dire che D'Azeglio vedrebbe in casa nostra la crema delle società segrete disputarsi indisturbata, latrando, i resti delle nostre carni anzi, sappiamo che fra i nostri cugini francesi si brinda alla conclusione dell'ennesimo affarone in cui gli «italiani» - per «italiani» intendiamo quelli che appaiono tali ma che hanno il portafogli e la coscienza iscritti nell'Anglosfera - cedono l'Alitalia a prezzi da fallimento.

Dopo avere lasciato massacrare la nostra compagnia di bandiera ci si accorge che il suo valore è tale da essere pronto per la svendita.

Ecco perché si premiano gli amministratori che hanno contribuito al suo sfascio.

E poiché nel ‘45 è stata celebrata anche la fuoriuscita dell'Italia dall'area francese, culla del Patto Sinarchico, ora siamo, eravamo e restiamo in balia delle massonerie anglosferiche.

Galli della Loggia ha scritto: «Il bluff è finito - scriveva sconsolatamente Gaetano Salvemini in una delle sue prime lettere dall'America, nel dicembre 1944 - l'Italia non è più che una sfera d'influenza inglese, una colonia inglese, una seconda Irlanda» (2).

Così, dal cuore nobile, quello stesso liberalismo che D'Azeglio immaginava avrebbe fatto di noi un popolo libero, sta tramutando effettivamente la libertà in un nostro «diritto»: quello di fare l'interesse dell'Anglosfera, come direbbe De Jouvenel se non lo avessimo prontamente parafrasato.

«L'Italia doveva essere degradata al rango minimo di nazione, smilitarizzata, amputata territorialmente a favore della Jugoslavia, privata di qualsiasi ruolo internazionale e coloniale, ed essere tenuta, per così dire, a domicilio coatto, a esclusivo vantaggio degli interessi britannici nell'area mediterranea» (3).

Quel che valeva alla fine dell'ultima guerra, il giurarle vendetta per aver tentato di competere con il suo impero, vale ancor oggi.

Nel 1946 Dumesnil de Grammont, Gran Maestro della Gran Loggia di Francia aveva affermato:

«Le tentazioni totalitarie che la situazione mondiale ha fatto nascere dopo la prima guerra mondiale non sono valide perché premature e perché strette nel quadro della Nazione'. Non sussiste di meno la necessità di una organizzazione totalitaria del mondo dove il primato della Nazione sarà escluso. Essa si realizzerà ineluttabilmente al momento opportuno» (4).

 


Più di recente, Anne-Marie Slaughter, una giurista di Harvard, scrisse su Foreign Affaire, ponendosi in controtendenza rispetto al pensiero dominante di quel periodo (siamo intorno alla fine del 1997), che all'interno del Nuovo Ordine Mondiale, ciascuno Stato «non scompare ma si disgrega» (5) per far posto ad un Nuovo Ordine trans-governamentale che conduca più agevolmente ad una politica bi-partisan.

Dunque, gli Stati e le nazioni non rientrano nei progetti delle società iniziatiche, non rientrano nei progetti mondialisti, non rientrano né nell'«ordine»globalizzatore attuale né tanto meno in quello auspicato dagli ambienti trilateralisti di una prossima «globalizzazione suprema» (6).

Come se non bastasse, se si tentasse di applicare all'Italia lo schema di riferimento, si incontrerebbe un'ulteriore grave fattore di crisi: sul suolo italiano risiede lo Stato della Città del Vaticano, nemico giurato dei potentati appena ricordati.

Abbattuti i «troni», restano gli «altari», l'Altare.

Perché quei potentati, che più sotto osserveremo con maggiore attenzione, avrebbero dovuto facilitare la costruzione dell'unità d'Italia, o l'unificazione dei suoi piccoli Stati, o favorire la sua reale indipendenza dallo straniero?

Forse per farne una «nazione» dalle insuperate tradizioni religiose e civili: grecità, romanità e cattolicesimo?

Mai più!

Occorreva annientare ogni realtà, materialmente ed immaterialmente intesa, che fosse solo adiacente al soglio di Pietro.

Per chi ne senta il bisogno, il conforto si trova in Matteo 16,18.

Così da 240 anni a questa parte, quei potentati, ostentando improbabili unità, fallite unificazioni e mendaci indipendenze dallo straniero, hanno edificato gli esatti loro opposti che, gradino dopo gradino, in una inarrestabile discesa, ci hanno condotto al fondo dell'ignominia.

E che sia ben chiaro: non esiste altro popolo che abbia subìto e sofferto e per tanto tempo quello che ha dovuto l'Italia in quanto tale ed in quanto romana. 

Finalmente trionfanti e liberi, ci siamo trasformati in «mucillagine» ed in una «poltiglia» che espettora liquami con grande libertà e liberamente «sceglie» la palude dentro la quale esalare gli inevitabili miasmi.

Pensava forse D'Azeglio che il giuramento massonico del Grande Eletto Cavaliere Kadosch

(30° del Rito Scozzese A.A.) rispondesse solo a bisogni di pittoresca rappresentazione di mero rituale? In quel grado, il più alto di quelli di «perfezione» - non si può diventare «più» massoni di così - il giuramento prevede l'atterramento della Corona e della Tiara, del Trono e dell'Altare contro cui la «vendetta» è legittima a causa della distruzione dell'Ordine Templare e per il rogo di de Molay cui Trono ed Altare si adoperarono.

L'Italia ha, dunque, il «torto» gravissimo di ospitare il cuore della Chiesa cattolica e perciò non dovrà mai, nei disegni degli iniziati, diventare un Paese prospero, una società sana - «il tesoro di una nazione, scrisse Pound, è la sua onestà» - perché questo comporterebbe legami forti e solidi con la sua tradizione religiosa bimillenaria con vantaggio reciproco per lo Stato e la Chiesa.


D'altra parte si è visto quel che successe nel 1929 in Italia quando il potere politico a forte componente nazionale giunse ad intese con il potere religioso.

Ovviamente, d'alti e forti caratteri, come sperava, D'Azeglio, neanche a parlarne; specie poi per un Paese come il nostro, senza futuro e senza passato, abitato da un'etnia meticcia di indigeni allocati in una lingua di terra - una mezza, limitata al meridione d'Italia, fu giudicata immeritevole di importanti investimenti nel 1947 per via del fatto che questi, in zone sottosviluppate, non avrebbero prodotto profitti adeguati nel breve periodo.

Ricordiamo al lettore un passo di monsignor Ravasi «... Il flusso che esce dai cervelli è, invece, non di rado più un liquame di opinioni, pareri, fantasie, provocazioni e persino perversioni della mente che generano vaniloquio, banalità, insipienza e insulsaggine. Questo espettorare senza posa sciocchezze ed eccessi scandalistici ha il risultato di emarginare (e quindi di incatenare) il pensare forte, severo e rigoroso. Aveva ragione Pascal quando nel suo capolavoro, intitolato non a caso I pensieri, affermava che l'impegno a pensare bene è il principio della morale' » (7). Questo pensiero mi è sembrato prezioso non tanto perché individua e censura alcune realtà, quanto perché ricorda quelle che perdiamo irrimediabilmente, le «non nate» a causa delle prime, quelle impedienti, quelle che sterilizzano anche le rare anime nobili.

Quell'incatenamento del pensiero forte severo e rigoroso ha spento la speranza che un giorno quel pensiero forte torni a nascere.

Un esempio di incatenamento del pensiero lo si trova nel fenomeno ormai consolidato, di cui dobbiamo ringraziare la nostra classe (da ridefinire diretta piuttosto che) «dirigente», che favorisce l'emigrazione dei «cervelli» verso l'Anglosfera dopo che la nostra collettività li ha allevati (con dispendio di risorse) per se stessa e per la propria prosperità, ragion per cui bisogna temere la mancanza di futuro anche per il geniaccio italico.

D'altra parte se uno dei ministri di questa Repubblica prova soddisfazione nell'annunciare ai giovani che, finalmente, è stata realizzata la possibilità di un loro indebitamento all'alba della loro vita lavorativa, la dice lunga sul grado di percezione che questa classe dirigente ha del futuro nazionale.

Ma forse, a questo punto, si dovrebbe concludere con il dire che gli italiani continuano a non essere fatti, forse non più.

O cioè, sì.

«Fatti», ma nel senso tutto postmoderno di cui il New York Times ci ha gratificato con la sua compassione.

Gli italiani sono fatti, andati, scoppiati, individualizzati, inconcludenti ed emotivi, sperimentatori «del peggio» oltre che mucillagine e poltiglia (8), realtà neppure invertebrate, insomma, cose inanimate, altro che italiani «dotati d'alti e forti caratteri».

Se non si è nazione, si è poltiglia; se non si è neppure massa si sarà moltitudine.

D'altra parte, come l'ideologia socialista ha prodotto i danni che conosciamo nell'anima dei popoli appartenuti all'ex URSS, così l'ideologia liberale e massonica, forzata nello spirito del nostro popolo per due secoli e mezzo ha prodotto uno schock ripetuto periodicamente, che di volta in volta ha assunto la forma dei delitti irrisolti, delle stragi senza stragisti, dei servizi rigorosamente «deviati», così per una via senza fine, nonostante certe inspiegabili anomalie straniere facessero capolino nelle indagini delle forze dell'ordine.
L'indimenticato Giorgio Del Vecchio nel definire gli elementi fondanti della nazione scriveva:

«Il primo è l'elemento psicologico, cioè quella profonda e connaturata unità di pensiero e di sentimento che si chiama appunto coscienza nazionale e che implica la credenza in un destino comune cementata dal ricordo di passate gesta e vicende comuni. Vi è poi un altro elemento che è quasi l'estrinsecazione del primo, ossia il linguaggio» (9).

Ma lo scopo imprescindibile che le forze risorgimentali si erano dato era la presa del potere statale e non la fondazione della nazione italiana.

Lo scopo primario di distruggere il «Trono e l'Altare» fu poi finalmente conseguito.
La responsabilità delle élite del potere, onerate, che lo vogliano o no, di grandi responsabilità, è incommensurabile e dovrebbero rispondere di ciò dinanzi agli auspicati tribunali del popolo

(la cui formazione fu sostenuta in campagna elettorale da Segolene Royal).

Forse occorrerà formare di nuovo l'antica magistratura romana dei tribuni della plebe, intoccabili e sostenuti a spese del popolo.

Ma torniamo alle nostre élite.

Ad esempio, che c'è di forte severo e rigoroso nelle parole del presidente di Confindustria, un «columbiano» doc, che non trova di meglio che definire un Paese, l'Italia in questo caso, come

«un Paese fai da te».

Da glorioso appartenente all'establishement internazionale, egli sposta i pesi e carica sulle spalle del più debole, dell'uomo della strada, piuttosto che su quelle delle élite che si sono succedute ed hanno dato forma alla nostra martoriata Italia, la responsabilità di non aver messo al centro il bene comune!

Zigmunt Bauman descrive da par suo la logica tipica dello stile WASP anglosassone in base alla quale, con cinica disinvoltura, viene emesso il giudizio senza appello contro l'incapacità del singolo di guadagnarsi il successo, la sua personale inettitudine per non essere capace di primeggiare e perciò di essersi guadagnato la meritata eiezione dal consesso civile.

Ed è l'appiattimento sullo spirito di un «capitalismo (che diventa progressivamente) senile» che induce ad attribuire all'incapacità dei singoli o di un popolo, la responsabilità per la inadeguatezza a reggere gli standard fissati in crescendo dalla postmodernità.

Come è facile immaginare, rozzezza e grettezza di spirito, in simili analisi portano a formulare conclusioni evidentemente aberranti come il ricorso alla medicalizzazione del soggetto anche in presenza di gravi distorsioni ambientali .

Domandiamo ancora.

Esprime forse un pensiero rigoroso il sindaco di Roma quando addebita alla società civile la «paura del nuovo» per un futuro già giudicato sufficientemente terribile dall'immaginario corrente?

Forse che si vorrebbe rimproverare alle moltitudini di non essere pronte al «nuovo», diligentemente elaborato, ad esempio, nel pensatoio del Gruppo Bilderberg, alla cui sessione del 1996 Valter Veltroni fu presente? (10).

Ben venga la paura!

Forse che non si dovrebbe avere paura nell'udire il sempre Bilderberg Giulio Tremonti, annunciare (11) che il cibo a basso prezzo diventerà pressoché introvabile e che la presenza sul mercato di manodopera a bassissimo costo dei Paesi emergenti, andando ad incontrare la manodopera ad alto costo dei Paesi occidentali, genererà un bilanciamento reddituale tanto basso da rendere invidiabile, forse, il clima distopico tracciato da Orwell?

Blondet lo annunciò più di dieci anni fa su «Pagine libere».

Aggiungiamo la considerazione secondo cui i flussi migratori di mano d'opera a bassissimo costo servono, fra l'altro, proprio a questo; a portare alla massima prossimità possibile, sul mercato italiano, quelle buste paga (molto basse) degli immigrati cui dovranno progressivamente fare riferimento le buste paga (alte) degli italiani.

Si vorrà convenire che sulla questione qualcuno, quanto meno, bara; se da un canto il governatore della Banca d'Italia raccomanda di elevare gli stipendi per innalzare i consumi, dall'altro la governance del Bilderberg e dell'Aspen, per bocca del loro fedelissimo Giulio, anticipano che i salari dovranno scendere e di molto.

Ma di bari, giocatori d'azzardo, di avventurieri, di incompetenti, di delinquenti comuni la nostra povera ed amata Italia è ormai satura, capace di brillare solo di luminescente mucillagine.

Se la Spagna, come dicono, ci ha appena scavalcato e la Grecia si prepara a farlo, la domanda legittima non può che essere: perché gli Italiani non riescono a far altro che «espettorare liquami»?

«Perché quando non si è nazione per 240 anni, si diventa poltiglia; quando ci siaccultura' con il grande fratello, o si tace o si espettora».

Quindi, occorreva ridurre a terra di nessuno il territorio che circonda la Città del Vaticano.

Dopo l'atterramento risorgimentale del Trono e dell'Altare (lo Stato pontificio),  quest'ultimo, il piccolo «hortus conclusus» (la Città del Vaticano) eretto a difesa del «katèchon» (il trattenitore, Sua Santità il Pontefice), si permetteva di resistere.

Dunque occorreva attaccarlo al cuore, applicando le tecniche settarie della «permeazione» fabiana, e simultaneamente ridurre a terra bruciata il territorio circostante, l'espressione geografica Italia. Soffocando l'orto si soffoca l'ortolano, circondandolo di terra di nessuno, di palude, non resta che mucillagine e poltiglia.

Perciò sosteniamo da tempo che è del tutto impossibile costruire paralleli fra l'Italia e le altre nazioni.

L'unicità (nel bene e nel male) del nostro Paese non permetterà mai, neppure in presenza di singoli minimi fattori, che ipotetici elementi possano risultare comuni ad altri Paesi.

E' sotto gli occhi di tutti l'inanità dello sforzo manicheo di ridurre il sistema politico italiano alla (falsa) diade anglosferica, piantata sullo schieramento di conservatori e progressisti, sistema già sufficientemente criticato nei Paesi d'origine.

Una «poltiglia» italiana: questo deve circondare ed  assediare da presso la Chiesa cattolica: una sapiente mescolanza fatta di scetticismo, di ateismo, di deserto morale, di violenza tanto feroce quanto inspiegabile, di morti efferate, di immoralità delle istituzioni pubbliche, di torme erratiche di individui adusi a commettere i peccati più rivoltanti, i più gravi e molto diffusi tanto da lambire la soglia della banalità; una simile cappa grava su una popolazione, esausta, consapevole della propria estenuata impotenza, chiamata di continuo ad una artificiale mobilitazione generale, permanente e sterilmente «in armi», sempre alle prese con la sua ennesima «guerra civile» diretta a salvare un'inesistente democrazia.

Molto acutamente Gianandrea de Antonellis spinge lo sguardo fino al punto di cogliere un ulteriore esempio di «guerra civile» nello scontro verificatosi fra «fautori del capo dello Stato (badogliani e savoiardi più o meno ‘maledetti') e sostenitori del capo di Governo».


E guarda caso, la Massoneria intervenne direttamente e prevalentemente agendo sui e con i vertici di quel fronte: Badoglio e Vittorio Emanuele III erano, ad esempio, massoni.

Inoltre, De Antonellis spiega lo spirito europeista degli italiani, gonfio di uno zelo unico in Europa, con la nostra suprema indifferenza verso la perdita di sovranità, rilasciata a beneficio di una innaturale «nazione» europea, tanto distante dal cattolicesimo da porsi sempre più frequentemente in sua opposizione.

Si ripete per l'Europa il medesimo schema applicato al nostro Risorgimento; riaffiora il medesimo «aperto, feroce contrasto con la propria chiesa nazionale» (che, in questo caso, può essere colto nel rifiuto di riconoscere le radici cristiane dell'Europa).

L'Italia e l'Europa, domìni «liberati» a più riprese, si ritrovano, al contrario, irretite come mai da fitte maglie di illibertà e di asservimenti, primo fra tutti quello di non potere essere nazioni libere di continuare a vivere secondo le proprie tradizioni, titolari di un  diritto fondamentale che è quello di non vedersi «riorganizzate» da altri.

Non a caso Saint-Simon dava il seguente titolo al suo noto piccolo libro: «La riorganizzazione della società europea»; più tardi sarebbe toccato a noi italiani di essere «liberati» e «riorganizzati» dal nostro Risorgimento.

Riconosciamo, in questo caso, un «debito» nei confronti di Massimo Viglione (12).

La seguente considerazione molto illuminante idonea a dare luce nuova a piani in penombra è di Ernesto Galli della Loggia (13) quando scrive: «L'Italia è l'unico Paese d'Europa (e non solo dell'area cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero siano avvenute in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale [...]. L'incompatibilità fra patria e religione, fra Stato e cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato nazionale».

Ci limitiamo a ricordare il momento forse più «cruento» della tesi.

A sostegno di essa, se avviassimo un riordino delle fonti utilizzate a sostegno, ci condurrebbe lontano e questa non sembra essere la sede più opportuna.

Certamente ci torneremo.

In sostanza ci sentiamo di poter affermare che lo scopo cui il così detto Risorgimento ha indirizzato risorse rilevanti, «non si identifica con l'unità che si riprometteva di donare all'Italia divisa, né con la liberazione dallo straniero invasore del sacro suolo nazionale, né con l'unificazione degli Stati esistenti in quel tempo».

Mi sembra che si sia trattato piuttosto dell'esatto contrario: di sbarrare, prima di ogni cosa, la possibile strada che avrebbe potuto condurre a convergenze fra Stati in cui lo Stato pontificio prima o quella che sarebbe diventata la Città del Vaticano poi, avrebbero potuto assumere una egemonia di alto profilo fondata sul sentimento religioso degli italiani e sulla vivificazione di una tradizione bimillenaria che era diventata tessuto connettivo del nostro popolo.

Non deve meravigliare: di falsi supremi è farcita la Storia.

Chi dubiterebbe del fatto che gli USA siano la «patria» di una speciale democrazia, quella liberale?

Pure Noam Chomsky non ha esitato a scrivere e a descrivere un dato ben preciso: «E' il paradosso dell'America, dove la parola democrazia è intollerabile e la società deve essere gestita da una piccola élite. Del resto gli USA sono stati disegnati in questo modo fin dall'inizio per proteggere la minoranza che detiene il potere e i mezzi, dalla maggioranza, la massa... Nel XX secolo, sistema scolastico, corporazioni, mass media, pubblicità e buona parte del mondo intellettuale sono stati disegnati per difendere la minoranza contro la maggioranza... Le grandi corporazioni occidentali sono modelli totalitari» (14).

In sostanza si afferma che la retorica del potere giunge prima o poi a dover fare i conti con la realtà che si affanna a dissimulare.

Per quanto riguarda l'Italia, gli «intendimenti delle forze in gioco» (il Piemonte affamato di risorse, l'Inghilterra che intendeva sbarrare nel Mediterraneo il passo alla Francia ed al Regno delle Due Sicilie muniti di marinerie importanti e sulla terra ferma intendeva cogliere l'opportunità di aprire territori alla diffusione della chiesa protestante, le finanze ebraiche che non ammettevano di dover concedere ossigeno ai prìncipi cristiani; e queste erano solo le forze di maggior rilievo) «erano diametralmente opposti».

Ci hanno raccontato di un'unità che «doveva essere fatta» dal momento che non esisteva, di una unificazione cui non si poteva accedere per i giri di valzer del Gioberti, di una liberazione finalmente, ma che ci ha solo fatto cambiare padrone; fuori l'Austria dentro la gran Bretagna.

Il comando era: sottrarre il maggior numero di italiani alle «grinfie»della tonaca del prete, portare a compimento il giuramento del 30° del massonico Rito Scozzese A.A. di cui si è già detto con, almeno, l'immediata eliminazione dei Borboni.

Per l'Altare, per atterrarlo, occorreva procedere per gradi, anche, se necessario, per 240 anni.

Ma a nessun costo avrebbe dovuto formarsi una coscienza nazionale italiana.

Occorreva far retrocedere anche la sola «ipotesi di nazione forte» al livello di irrilevante protettorato straniero.

Una nazione forte affiancata dal Papato poco si sarebbe prestata ad essere inserita in un'Europa composta da nazioni guidate da «agenti illuminati», emissari delle diverse società segrete.
Esisteva il rischio che l'Italia costituisse segno di divisione e di contraddizione; che essa fosse capace di far deflagrare una realtà in formazione (l'Europa federale) all'interno di un progetto che già presentava molte crepe pur essendo opera «illuminata».

Andiamo ripetendo da tempo che la realtà italiana, prima di prestarsi a facili censure, di rappresentare motivi di irrisione, di invogliare comodi e liquidatori disimpegni (gli italiani sono sempre gli altri) deve indurre ad una considerazione capitale: per tradizione storica, culturale, per la particolare articolazione degli eventi, per la tradizione giuridica, per la forma dello Stato, l'Italia costituisce un Paese inaccostabile a qualunque altro e su qualunque piano.

Esso è un «unicum» irripetibile, una complessa composizione di secolari questioni che non hanno interessato alcun altro Paese, un «unicum» che  probabilmente riuscirà perdente da ogni stravagante competizione per via del difficilissimo rapporto ed irrisolto con la modernità.

Ad oggi possiamo ripetere ancora che una repubblica massonica, l'Italia, cinge d'assedio l'«hortus conclusus».

 

La perdita di identità sociale ha camminato di pari passo con l'identità nazionale che diventava sempre più inaccessibile così come diventava evanescente la percezione dei vincoli societari.

Il nostro Paese uscito dall'ultima guerra è stata l'unica (sperimentale) repubblica fondata non sul lavoro (Costituzione articolo 1), ma sul governo reale delle società segrete, le più diverse.

Le vicende miserabili della «casta» costituiscono solo il catalizzatore, in coerente temperie da «gossip», in grado di stornare l'attenzione del pubblico e farla convergere su finti responsabili.

Ben altre sono le caste che agiscono e molti magistrati ne hanno saggiato la determinazione.

Liti permanenti, risentimenti miserrimi, lotte intestine durevoli fino all'incredibile è diventato il costume dell'incanaglito italiano medio che ricalca l'«aperto, feroce contrasto con la propria chiesa nazionale» orchestrato dalle sette date per stanziali in Italia.

Eliminati i partiti di ispirazione cristiana (DC italiana e CDU tedesca annegate negli scandali) la presa diretta laica e massonica sullo Stato è stata ultimata.

Ci tocca una confessione; al lettore occorre dire che da lungo tempo ci interrogavamo sul come fosse potuto accadere che l'Italia avesse stretto legami di tale dipendenza, di così smaccata soggezione, di devozione oltre ogni limite posto dalla decenza verso l' «anglosfera» e, al contrario, nulla di simile fosse accaduto a «beneficio» di Francia, o dell'Austria, della Germania o della Spagna.

In fondo con loro abbiamo condiviso infinite vicende in un gran numero di secoli; eppure che facciamo?

Saltiamo a piè pari la Manica e l'Atlantico per andare a fare puttanesche fusa a quei vendicativi villici, onusti di autoreferenziali «destini manifesti», gran canagliata occidentale dal nome evocativo, quasi mitico, arturiano, la trionfante «anglosfera».

Le truppe cammellate britanniche sbarcano sul suolo nazionale (15) nella seconda metà dell'‘800 ed insediano le note Logge e la chiesa protestante (16); le ippotrainate USA sbarcano sul suolo nazionale ed insediano le meno note Logge militari che viaggiavano al seguito degli ufficiali a stelle e strisce.

Messe in naftalina le divise, sono rimasti i lasciti occulti con funzione di governo reale del «protettorato Italia».

Ed il protettorato, non più cattolico, non più asburgico, non più spagnolo o francese, viene svolto oggi, molto diligentemente da gente di tale fatta.

Dobbiamo a questa progenie, caratterizzata da una micidiale capacità di menzogna e da un supremo livore caratteriale, gran parte delle nostre disavventure contemporanee.

Due esempi tratti a campione: due suoi illustri membri, John Stuart Mill e Thomas Carlyle ebbero modo di esprimersi così: «Essi [i britannici] non si sentono mai al sicuro a meno che non vivano all'ombra di qualche finzione convenzionale - una sorta di intesa a dire una cosa e significarne un'altra... Gli inglesi, visti da una certa angolatura sono certo un popolo straordinariamente stupido. Visti da un'altra angolatura essi ti colpiscono continuamente come un popolo nel quale il talento, di un certo tipo, abbonda [...]» (17).

Sarà probabilmente per questo che il britannico pone l'«eccellenza» fra le qualità da perseguire da parte dei giovani.

Il buono non lo appaga; egli deve essere di più; il buono è per la sottoclasse.

Egli, il «gentleman», è al di sopra degli stessi trascendentali fra cui la filosofia annovera il buono, accompagnato dal bello e dal vero.

D'altra parte è il buon senso a suggerirlo: l'eccellenza non è una virtù autonoma, ma la «possibile» qualità che consegue alla realizzazione di sé, secondo la tradizionale raccomandazione lasciataci da Pindaro: «Divieni quel che tu sei» (18).

Se si contravviene, la pena da scontare è sotto gli occhi di tutti: risentimento, senso di frustrazione, invidia, spirito di «revanche», melanconia (o «malattia inglese»), anticamera della depressione (19).

A sua volta, Carlyle, scrive Mill, sosteneva che «Gli inglesi... agiscono in maniera assai più razionale di molta altra gente, ma sono più ottusi degli altri nel fornire le ragioni... Agire bene senza essere in grado di dire perché si agisce così, significa agire bene solo per caso, vale a dire perché è capitato che degli istinti... indirizzassero sulla buona strada» (20).

Per questa via si spiegherebbe il male che quel popolo ha diffuso nel mondo per secoli, spacciandolo per civilizzazione.

Oggi può essere colto nella decisa polarizzazione della ricerca scientifica: a fronte di incalzanti «successi» nel campo della clonazione umana, che aprirebbe la strada alla creazione di una razza superiore, si assiste allo spettacolo di una sanità di base gravemente carente; carente la sicurezza nell'allevamento del bestiame, per la scuola, per la ricchezza, per l'accesso alla casa, e potremmo continuare.

Ah, ma il «gentleman» detta legge nel mondo, perfino in Italia, che avrebbe dovuto essere il regno del gusto quando altri si dipingevano i faccioni rubizzi.

Di recente è stata avviata una campagna violentemente anticristiana - sviluppata in piena consapevolezza della sua falsità - e di essa la gran Bretagna si è fatta vessillifera.

«Unico fra i popoli della terra» che sia riuscito a spacciarsi non per qualcosa di «diverso» da quello che è, ma per la pretesa di essere l'«esatto opposto» di quello che realmente è.

Quel popolo possiede l'improntitudine senza rimedio di volersi proporre al mondo non «fra» i popoli ma come il «popolo (eccellente») tra gli esistenti, anche se meriterebbe in molti campi di occupare uno degli ultimi posti.

Si pensi, ad esempio, a quel 43% dei bambini londinesi che vive in condizioni di povertà, o al divario fra ricchi e poveri che si fa sempre più profondo mentre istruzione e medicina di base boccheggiano tanto da costringere alcune ONG mediche, operanti nel Terzo Mondo, ad aprire in grandi città britanniche punti di pronto intervento per i soccorsi non prestati a britannici poveri non accettati dal servizio sanitario nazionale.
Ecco, da ciò può trarsi una certa qualche ipotesi di senso circa il  divario che esiste fra l'immagine che quella popolazione sparge di sé e la realtà fattualmente prodotta.

In conclusione, a conferma di inveterate tare manifestate anche di recente, è stato scritto «Nulla appare di fronte a questa verità storica più assurdo e falso del continuo paragone che gli inglesi amano fare tra il loro impero e l'Impero Romano» (21).

Se si osservano con una certa serenità e più da vicino quelle forze che agiscono in aperto, feroce contrasto con la propria chiesa nazionale ci si accorgerà che gli «italiani» «liberali/individualisti», l'«italiana Massoneria» e gli «italiani di Inghilterra» (intendendo riferirci, con Inghilterra, a quell'eccellente opificio di circoli istituzionali britannici, detentori di un potere occulto particolarmente virulento, veicolato dalle ambasciate di quel Paese sparse per il mondo) sono superbamente raccordati fra loro dal feroce anticattolicesimo e dall'odio verso il Papato (22).

Muovono secondo una tecnica che, vista nell'insieme, potrebbe risultare così: i primi agganciano ideologicamente la borghesia, la seconda la «rettifica» ad uso e consumo di probabili «fratellanze» e la invia alla casa madre britannica o americana, la terza si compiace di «trasmutarla» in casa finto-naturale destinata ad ospitare la copiosa messe di cloni (sedicenti italiani) ottenuti per «decantazione» dall'individuo originale britannico.

I cloni sono tali perché dotati di tale immaginazione da essere capaci di riconoscere entusiasticamente nell'isola delle nebbie, la loro Itaca; e con sommo disprezzo per quei «malcapitati» che avevano avuto l'avventura di essere nati nei secoli sotto la medesima «espressione geografica».

Un saggio di tanta avversione lo si può leggere nel sangue sparso in Irlanda, sottoposta anch'essa al trattamento «risorgimentale» dello «Stato senza nazione».

Secondo la chiave di lettura proposta da Giacinto Auriti, si è trattato della edificazione di una società (istituzionalmente) strumentalizzata sottoposta ad una società (istituzionalmente) strumentalizzante, coperta, protetta da prerogative costituzionali, dove appunto «la massoneria è la società strumentalizzante lo stato costituzionale» (23).

Ricordiamo che in Auriti il concetto di «società strumentalizzante» trovò fondamento negli Atti Parlamentari relativi alla Relazione sulla Loggia P2 (24).

Quello che all'epoca poteva apparire un azzardo ideologico, si è consolidato in una precisa realtà di cui gli ultimi avvenimenti hanno provato la durezza.

Giuliano Rodelli

 

 

1) Rosario F. Esposito, «La Massoneria e l'Italia», Paoline, 1969 pagina 367.

2) Ernesto Galli della Loggia, «La morte della patria», Laterza, 2003 pagina 3.

3) Edgardo Bartoli, «Milord», Neri Pozza, 2007, pagina 19.

4) CEI, «Le totalitarisme, a pas feutrés», 1993, numero 11 pagina1.

5) CEI, «L'Eretrans-gouvernamentale' », 1999, numero 4 pagina 3.

6) Ivi, pagina 6.

7) Gianfranco Ravasi, «Pensiero e libertà»,  Avvenire, 26/10/2007.

8) Rapporto CENSIS, 2007.

9) Giorgio Del Vecchio, «Lezioni di Filosofia del Diritto», Giuffré, 1965, pagina 303.

10) http://www.bilderberg.org/bildlist.htm

11) «Speciale TG 1» del 16/12/07.

12) Massimo Viglione, «L'identità ferita», Ares, 2006 pagina 10.

13) Si trova in ivi, pagina 11.

14) Walter Mariotti, Chomsky: «Il pericolo più grande che corre la democrazia  è la democrazia», in Il Giornale 20/11/99.

15) Virgilio Titone, «La Costituzione del 1812 e l'occupazione inglese della Sicilia», Capelli, 1936.

16) George Rodney Mundy, «La fine delle Due Sicilie e la marina britannica», Berisio, 1966, pagina 277.

17) John Stuart Mill, «Dizionario delle idee», Editori Riuniti, 2007, pagina 93.

18) Pindaro, Pitica II.

19) Si veda diffusamente: Mauro Simonazzi, «La malattia inglese», Mulino, 2004.

20) J. S. Mill, «Dizionario...», citato, pagina 94.

21) A. G. Quattrini-N.Verestin, «Come l'Inghilterra s'impadronì del mondo»,  Aequa, 1936, pagina 9.

22) Si vedano ad esempio diffusamente: Manlio Graziano, «Italia senza nazione?», Donzelli, 2007, o anche Indro Montanelli, «L'Italia del Risorgimento», Rizzoli, 2005. Ci si accorgerà che in queste opere come nella maggior parte di quelle che hanno avuto il medesimo argomento non viene preso in considerazione se non in misura minima l'apporto della massoneria e dell'Inghilterra. Viene infatti sottolineata piuttosto l'incapacità dello Stato borbonico di darsi alla modernità costituzionale.

23) Giacinto Auriti, «Il valore del Diritto», Edigrafital, 1993, pagina 16.

24) Si trova in ivi, pagina 13.

 

 

 

 
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