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Qualcuno si salva?
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Il direttore risponde ad una lettrice che chiede a chi affidarsi politicamente.

Gentilissimo dottor Blondet,

sono un’assidua lettrice del Suo giornale online del quale sono provvidenzialmente venuta a conoscenza proprio in questo caotico momento di confusione per il nostro Paese.
Negli anni passati mi sono occupata solo marginalmente di politica, perché troppo assorbita nei miei studi in particolari quelli musicali che, per la loro natura «eterea», mi hanno «distratta» in un mondo surreale.
Adesso che il mio percorso scolastico si è concluso con la tanto decantata (quanto inutile, sic!) abilitazione all’insegnamento, ho fatto il primo ingresso nel mondo reale ed ho scoperto tristemente e a mie spese (faccio parte di quella folta schiera di insegnanti precari) il mal funzionamento dell’ormai ex Bel Paese; con la mente ormai sgombra dagli appelli d’esame, ho tempo per vedere
lo sfascio che inesorabilmente si sta compiendo sotto ai nostri occhi.
Recentemente ho letto una frase significativa: «sii tu il cambiamento che vorresti avvenisse nel mondo» (credo sia di Gandhi) che dovrebbe essere ripetuta come un mantra a tutti coloro che si lamentano senza adoperarsi per modificare lo status quo.
In questo senso, mi ha molto colpito un suo articolo del 12/01/2008: «La vita è rischio, ragazzi!», nel quale Lei ci richiama alla responsabilità sociale, rimproverando il nostro atteggiamento da bambini viziati nei confronti delle problematiche sociali, siano esse la rumenta o altro. Personalmente non ho ancora ben chiara quale sia la mia «vocazione» (nel senso indicato nell'articolo), però mi piacerebbe partecipare più attivamente alla vita politica del Paese (ammesso che ne esista ancora una) pertanto Le vorrei chiedere di indicare quali personaggi, del nostro agone politico (o starnazzante pollaio…), Lei ritenga degni, o perlomeno più capaci di altri, di risollevare le sorti della nostra disgraziata Italia.
Sono consapevole che nell’attuale clima quasi-forse-pre-elettorale un giudizio siffatto possa apparire propagandistico, tuttavia le Sue opinioni si distinguono per lucidità e assenza di pregiudizi, quindi spero di poter confidare in una Sua risposta che orienti quanti, giovani e meno giovani, non vogliono più restare passivi spettatori (di un pessimo spettacolo, per giunta).
Invio a tutta la redazione cordiali saluti

Paloma G.


Se la musica è ciò che personalmente interessa la lettrice, è opportuno che la segua come una vocazione: puntare all’eccellenza, non risparmiare sforzi né sacrifici, non accontentarsi dei risultati raggiunti, anche se appaiono già tanto agli altri.
Se questa è la vocazione, nel senso preciso: qualcosa che può fare e «deve» fare, perché nessun altro la farà, altrimenti.
Questo è oggi l’essenziale, ricostruire gli esseri umani da dentro, e con essi la civiltà.

Per la partecipazione in politica, non so proprio dare consigli.
Mi pare che le istituzioni siano così guaste e corrotte (e corruttrici) che bisogna ormai pensare in termini di rivoluzione: ma con quali forze reali (i cittadini si dividono come in una riunione perenne di condominio, non trovano accordo nemmeno su misure elementari), e con quali personalità?

Il tempo che viviamo ricorda molto la fine della repubblica di Roma: dove il nome «repubblica» indicava ormai un’oligarchia senatoria di profittatori, ladri colossali dei beni pubblici a danno dei cittadini, e cittadini ridotti a sottoproletariato urbano mantenuto ad elargizioni granarie e spettacoli, che vendevano i voti.
Come se ne uscì?
Non è detto che se ne uscì.

Ci fu il tentativo di Catilina, stroncato dalle «istituzioni legali» con l’illegalità e la violenza.
Cesare ritentò: aveva tutta l’assenza di scrupoli dei corrotti istituzionali (comprò voti, si circondò di clientele con cui scambiava favori, malversò e s’indebitò, alla fine saccheggiò l’erario prendendone 45 mila lingotti d’oro e d’argento), ma aveva anche un progetto, la visione di Cesare.
Ebbene: non siamo certi in che cosa consistesse questa visione, perché Cesare fu ucciso da «repubblicani», fautori dello status quo «legale».

Dai suoi atti sappiamo però che, dapprima, fu un capo dei «populares» anti-oligarchici; che presto si avvide che la plebe non era più utilizzabile per un progetto rivoluzionario - troppo incostante, influenzabile, fancazzista e spaccata in tifoserie squadristiche, essa era capace di disordini, non di azione costante in vista di un futuro.
Cesare allora cominciò ad appoggiarsi ai ceti operosi delle province, tartassati dai profittatori: sappiamo che da console estese la cittadinanza ai transpadani, che emanò la più completa legislazione contro la concussione nelle province, che obbligò i magistrati governanti delle province a depositare i rendiconti in varie copie.

Ma poi la necessità e l’occasione - che un grande politico sa sempre cogliere - lo portarono ad appoggiarsi, per affermarsi, sull’elemento militare.
La necessità: Pompeo, il difensore degli oligarchi, aveva un esercito personale.
L’occasione: la conquista della Gallia.
Cesare ci andò con cinque legioni e ne tornò con dieci.
Con esse prese Roma, violando ogni «legge».
Avrebbe potuto fare come Silla, liste di proscrizione, morte e sequestro dei beni per i suoi avversari; invece, stese la mano a tutti, in un progetto di concordia.
La «clementia Caesaris».
Gli avversari da lui risparmiato lo pugnalarono, come si sa.

Solo molti anni dopo, anni di guerra civile, emerse qualcosa che non era «repubblica» ma non era nemmeno il sogno di Cesare: il principatus di Augusto.
Un potere militare che fingeva di essere «legale» e «repubblicano», e che tutti accettarono perché troppo esausti di sangue.
Una tragedia, la storia di Roma.
Perché racconto questo?

Perché ci vorrebbe un Cesare: un «capopartito abile nella lotta politica quotidiana, e insieme legislatore che guarda lontano», come scrive Canfora.
Dove i «difetti» del politicante servono a dare i mezzi (con la corruzione e il furto pubblico, necessari ormai per prevalere in un sistema corrotto) al legislatore.
Improbabile unione di Mastella e Churchill.

Oggi, anche i politici sulla scena che esprimono idee (Tremonti), che hanno carattere (Castelli) o qualità di capopolo forse utili in tempi eccessivi (Di Pietro?), mancano di qualcosa: o della disonestà che dà i mezzi, o delle basi sociali spregiudicate attratte dalla corruzione, o dell’audacia di cogliere l’occasione, di rischiare per il proprio progetto.

E’ un altro modo per dire che abbiamo solo mezze personalità, uomini monchi.
Forse è questo il primo problema.

 

 
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