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Pensare la Tecnica
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Nel 1996 l’ENEA (diventato: Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente – nato dal CNEN dopo la rinuncia al nucleare, anche in seguito al processo contro Ippolito) ha pubblicato un libro molto interessante scritto da un certo Fausto Borrelli, dal titolo: “Pensare la tecnica” (1).
Borrelli ha studiato filosofia, economia e sociologa in tempi in cui ancora non dominavano sovrani gli studi di economia.
Lo stesso titolo: “Pensare la tecnica”, è stato poi utilizzato negli anni seguenti per altre pubblicazioni dello stesso tenore.
Nel libro sono riportati in sintesi le riflessioni sulla Tecnica svolte da eminenti pensatori del mondo occidentale.
Per l’Italia viene riportato il pensiero di Benedetto Croce, di Emanuele Severino e di … Giuseppe Garibaldi.
Nessun altro italiano è entrato nel novero dei prescelti dall’autore per illustrare in che modo in Italia ci si è cimentati con il significato della Tecnica nel recente passato e nel futuro prossimo.
Gli altri nomi sono: Jünger, Heidegger, Arendt, Mumford, Ortega y Gasset, Leroi-Gourhan, Rawls, Serres, Naess.
Per Croce emerge il fatto che non solo della Tecnica non gli importava nulla, ma si dilettava anche a ridicolizzare chi ammirava la Tecnica.
Anzi ha compiuto un passo ulteriore: criticare severamente chi, pur favorevole alla crescita della Tecnica, ne temeva le conseguenze negative, con danni all’ambiente.
A questo proposito vale la pena ricordare la polemica che Croce condusse con Spengler.
Ne il celebre “Tramonto dell’Occidente” e poi ne “L’uomo e la tecnica” (1931) Spengler non nutriva dubbi circa l’esito finale della “civiltà faustiana” degenerazione della “civiltà delle macchine”.

Diceva Spengler : “L’immagine della Terra con le sue piante, i suoi animali, si è modificata. In pochi decenni le principali grandi foreste sono scomparse, trasformate in carta … e tale scomparsa ha provocato mutamenti del clima che minacciano l’economia agricola … Un mondo artificiale
attraversa e avvelena quello naturale. La civilizzazione stessa è divenuta una macchina che fa o vuol fare tutto in modo meccanico
”.
Croce si accanì puntigliosamente a confutare le idee di Spengler contrapponendo l’idea di un umano progresso che dovrebbe per imperscrutabili ragioni uscire vincitore.
La sua critica raggiunge vette di inarrivabile stupidità se messa a confronto con la realtà di oggi: “Egli scorge le prove della decadenza incoercibile della civiltà europea… nella contraddizione onde la macchina con il suo moltiplicarsi e perfezionarsi distrugge se stessa, sicché (dice lo Spengler) l’ingombro delle automobili nelle vie delle grandi città induce all’andare a piedi come più spedit … Non credo franchi la spesa ribattere questi argomenti desunti da fatti che sono in gran parte inesistenti …”.
Emanuele Severino espone alcuni concetti che vorrebbero essere molto profondi, ma che in realtà è meglio tralasciare considerandoli incomprensibili.
Che Giuseppe Garibaldi venga inserito tra chi ha pensato la Tecnica costituisce una sorpresa. E’ opinione corrente degli storici che Garibaldi sia stato un condottiero, un avventuriero un po’ ingenuo utilizzato dagli astuti piemontesi.
Appare invece che in fatto di Tecnica e di influenza della Tecnica nell’Italia da costruire Garibaldi aveva qualche idea non peregrina.

Denis Mack Smith, il famoso storico di Garibaldi, avanza l’ipotesi che egli abbia avuto contatti con gli allievi di Saint Simon.
Forse durante il viaggio a Taganrog nel 1833 sul Mar d’Azov egli incontrò alcuni seguaci di Saint Simon.
Certamente le dottrine sansimoniane influenzarono il giovane Garibaldi.
Più che un’ipotesi si tratta invece di una certezza perché ci sono tracce evidenti dei contatti di Garibaldi proprio in quegli anni con alcuni esponenti saintsimoniani, tutti molto impegnati a diffondere l’idea che la Tecnica sarebbe stata la causa prima del progresso.
Sulla nave Clorinda di cui Garibaldi è marinaio (comandante in seconda), nel marzo 1833 si
imbarcano a Marsiglia alcuni passeggeri francesi, diretti a Costantinopoli.
Sono un gruppo di sansimoniani, seguaci del conte Claude-Henri de Saint-Simon, uno dei primi teorici del socialismo.
Vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento, partendo dall’esperienza della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale, ritiene che con la distruzione delle antiche istituzioni e con la crisi delle tecniche di lavoro tradizionali si sta aprendo la via a un’epoca in cui si avrà il trionfo degli
industriels, cioè della classe lavoratrice comprendente tutti i produttori di ricchezza, compresi scienziati e artisti, mentre gli oziosi, dai nobili ai militari, cioè quelli che consumano senza produrre, saranno messi da parte e costretti ad entrare in una qualche categoria produttiva.
Saint-Simon propugna una società pianificata, diretta dagli scienziati, dai banchieri quali regolatori dell’impiego dei capitali, e dagli industriali, che promuovono le attività più redditizie, elevando il livello generale di vita: una società in cui ciascuno sarà remunerato secondo la sua capacità produttiva, misurata in base ai servizi resi alla collettività.
Il raggiungimento della giustizia sociale, accompagnata dal rispetto della legge, assicurerà la pace interna degli Stati e la felicità delle classi laboriose.
La collaborazione fra i capitalisti per lo sviluppo economico mondiale, favorito da grandi opere pubbliche, estenderà questi benefici a tutta l’umanità, preparando l’unità dei popoli.
A coronamento del nuovo ordine sorretto dalla scienza, Saint-Simon pone una nuova religione, che appaghi gli insopprimibili bisogni spirituali.

L’utopia di Saint-Simon condurrebbe ad una tecnocrazia-bancocrazia, per giunta pseudo-religiosa.
Ma non è da sottovalutare la sua attenzione per la tecnica come strumento di elevazione sociale.
Alla sua morte (1825) i discepoli sviluppano le intuizioni tecnocratiche.
Alcuni privilegiano gli aspetti filosofici, altri gli aspetti organizzativi, che mettono in primo piano la funzione dei tecnici dell'economia, altri gli aspetti religiosi connessi alla guida dell'umanità verso la pace universale.
Sotto la guida di Barthélemy Prosper Enfantin prende vita un movimento che mescola la fede nella capacità civilizzatrice della scienza a una visione “religiosa” del cammino dei popoli verso l’unità. Si forma una specie di chiesa, con una gerarchia che fa capo ad Enfantin, con l’elaborazione di una dottrina che indica ai fedeli precetti di vita.
Si attende la venuta di una Mère, la Madre che si unirà al Padre per simboleggiare l’unità di intelletto e sentimento.
Negli anni Trenta del XIX secolo i sansimoniani si diffondono in Francia, mal visti dal governo perché contestano l’assetto della società borghese e sono accusati di combattere il diritto di proprietà e di volere il libero amore.
Si imbastisce un processo.
Enfantin è condannato a un anno di carcere e i suoi seguaci sono allontanati dal Paese.
Il gruppo che parte sulla Clorinda per Costantinopoli appartiene a questo movimento.
Esiliato dalla Francia, si reca in Turchia.
L’imbarco avviene di notte, sotto il controllo della polizia, alla presenza di una folla di sostenitori che saluta entusiasticamente i partenti.
E’ una scena insolita per l’equipaggio della nave mercantile, che guarda con ammirazione i passeggeri.
Durante la traversata il capo, Emile Barrault, uomo di cultura (è professore di retorica), dalla figura austera, illustra con fervore le sue convinzioni.
Garibaldi rievocherà poi con Alexandre Dumas (il romanziere, diventato suo amico e biografo) i lunghi colloqui “durante quelle trasparenti notti d’Oriente [...], sotto quel cielo tutto cosparso di stelle” (si aggiunge l’abbellimento narrativo del grande autore de “I tre moschettieri”).
Gli vengono esposte le teorie sansimoniane, intravede “orizzonti ancora non intravisti”.
Gli si spalanca la visione di una umanità che va verso la pace e il benessere.
Lo colpisce l’affermazione “che l’uomo, il quale, facendosi cosmopolita, adotta l’umanità per patria e va ad offrire la spada e il sangue ad ogni popolo che lotta contro la tirannia, è più di un soldato: è un eroe”.
E’ una illuminazione.

Oltre “le anguste questioni di nazionalità” in cui era chiuso il suo patriottismo, a Garibaldi si rivela la vocazione di combattente per la libertà dei popoli oppressi, in ogni luogo del mondo.
La testimonianza di quanto sia profonda l’emozione dell’incontro è data da un fatto.
Barrault dona al giovane ufficiale una copia, con la sua firma, del “Nuovo Cristianesimo”, ultima opera di Saint-Simon: il libro accompagnerà Garibaldi lungo tutta la vita e sarà nella sua stanza a Caprera al momento della morte.
Garibaldi, con il gruppo di esuli saintsimoniani, prosegue il viaggio con la Clorinda verso Taganrog.
Nel 1830 a Taganrog, a 80 chilometri da Rostov, nel Caucaso, c’era un’osteria frequentata da Garibaldi.
 
Oggi, a poca distanza è stata posta una stele dedicata all’ “Eroe dei due Mondi”, appena inaugurata dalla pronipote Annita Garibaldi (2).
A un tavolo si discute di politica.
Si parla di Mazzini, della Giovine Italia, di repubblica, di unità nazionale, di indipendenza.
Tra i destinatari della propaganda mazziniana ci sono anche i marinai, fino allora trascurati dalle società segrete: gregari preziosi, perché, passando di porto in porto, possono far circolare clandestinamente le stampe incendiarie rivolte a tutti gli italiani.
Difatti nella locanda in cui è entrato Garibaldi vi sono marinai di varie regioni.
Uno di essi, definito il credente per il tono ispirato con cui parla delle speranze “di lieto e glorioso avvenire della patria italiana”, espone le idee di Mazzini.
Garibaldi lo ascolta con attenzione crescente, e, affascinato, corre verso lo sconosciuto, lo abbraccia, ne diventa l’amico e da lui è iniziato alle dottrine della Giovane Italia.
Il viaggio sulla Clorinda, con il suo carico di nuove idee, ha segnato la sua vita.
Essere un marinaio, navigare per il Mediterraneo, non gli basta più.
(Tratto da A. Scirocco : “Garibaldi”)

Garibaldi deve la sua fama prevalentemente alle sue virtù militari.
Ma Garibaldi ripeteva che combatteva per la libertà degli italiani e di tutti i popoli oppressi.
Aspirava ad essere un eroe del progresso.
Garibaldi cercò sempre di seguire le idee guida del saintsimonismo e dei mazziniani.
Ma non era facile mettere insieme le linee guida di Mazzini con quelle della tecnocrazia
saintsimoniana.
Se poi confrontiamo Garibaldi con l’impreparazione tecnica dei politici del suo tempo a cominciare da Cavour (oggi è anche peggio), si deve concludere che era anche l’unico ad avere un progetto concreto su come costruire l’Italia del futuro.
Nel 1850, negli anni del secondo esilio americano, fu ospite nella casa di Antonio Meucci
aiutandolo nella conduzione della fabbrica di candele e seguendolo nelle ricerche sul telefono.
Garibaldi in quegli anni stava pensando ad una pila elettrica ad acqua marina.
Dal 1856 al 1882 svolse l’attività di agricoltore a Caprera sperimentando nuove colture adatte a zone ventose ed aride (1).
Nel 1860, nel breve periodo in cui resse le regioni del Regno delle Due Sicilie, iniziò un programma per creare un rete ferroviaria nel Sud.
Provvide poi il Cavour a bloccare il progetto.

Garibaldi voleva fare di Roma la città dell’avvenire e sostenne il progetto di costruire un
canale per raccogliere fuori da Roma le acque del Tevere e dell’Aniene.
Attraverso questo canale Roma sarebbe stata collegata al mare.
La costruzione del canale avrebbe permesso di drenare parte delle paludi pontine e metterle a
coltura.
Questo fu l’argomento su cui Garibaldi si impegnò di più, mentre trascurò persino di aggiornarsi sulle nuove armi, come i fucili chassepots, con i quali le truppe francesi gli inflissero la sconfitta di Mentana.
Il progetto dettagliato venne presentato in Parlamento.
Il movimento delle terre, necessario per compiere l’opera, sarebbe stato effettuato con grandi
“aratri a vapore”, scavatrici e locomobili per il trasporto terra, che allora venivano costruiti in
Inghilterra.
Una chiusa a monte di Roma avrebbe permesso di regolare la portata delle acque, in modo da
rendere costante il flusso nell’alveo cittadino del Tevere ed inviare l’eccedenza nel canale, che
sarebbe sboccato a Fiumicino dove si sarebbe realizzato il porto di Roma.
Al progetto Garibaldi dedicò molto tempo lungo la sua vita, a cominciare dal 1825, quando ebbe la prima idea, a 17 anni, in occasione del suo primo viaggio a Roma con il padre Domenico, che
doveva trasportare un carico di vino.
La loro tartana dovette fermarsi a Fiumicino e non poté risalire il Tevere in secca.
La tartana dovette essere trascinata sino in città da una coppia di bufali tra difficoltà burocratiche di ogni genere.
Senza saperlo Garibaldi riprendeva un progetto che era stato concepito da Giulio Cesare.

Come uomo di mare egli aveva la ferma convinzione che lo sviluppo di una città dipendesse dai mezzi e dalle vie di comunicazione e che il mare fosse la principale.
Proprio nel dicembre del 1870, quindi poco dopo l’annessione, si era avuto a Roma un’altra
inondazione.


Nel 1872 Garibaldi parla del progetto all’archeologo Cavalcanti: “… Roma deve avere un porto
 degno di lei. Un canale che congiungesse Ostia col Teverone (l’Aniene) ed il Tevere deviato a
levante di Roma nello stesso canale . … Le escavazioni potrebbero servire a colmare in parte le
paludi pontine. Avreste in questo caso il letto del Tevere a secco, e con le escavazioni del porto di Ostia una raccolta archeologica meravigliosa.  …
”.
Di tutti i sogni che gli avrebbero dovuto garantire fama perenne, simili ai sogni realizzati in quei tempi come il traforo del Moncenisio, del San Gottardo, dei canali di Suez e di Panama, opere alle quali Garibaldi faceva spesso riferimento, non se ne realizzò nemmeno uno.
A stroncare l’idea di sistemare il Tevere deviandone in parte il suo corso si incaricò l’avvocato
Ottavio Pio Conti con una serie di articoli dal titolo “Note e appunti di un contribuente romano”, che apparvero nel 1876 sul settimanale “Roma”, antologia illustrata.

Le recenti scoperte e i lavori del Frejus e dell’istmo di Suez hanno ingenerato nella mente di molti la fallace credenza che nulla sia ormai impossibile alla scienza moderna (più corretto dire: alla Tecnica, ma in fondo è un avvocato) e che non vi sia più alcun ostacolo di natura del quale l’ingegnere fornito dei necessari mezzi finanziari non possa e non debba trionfare. Questa erronea ed esagerata idea dell’umana onnipotenza è stata ed è tuttavia la madre di cento e cento imprese arrischiatissime e matte che falliscono in sul bel principio e lasciano dietro di sé l’infausto retaggio di amari disinganni … E’ appunto in grazia di codesta idea che vedemmo metter fuori con serietà e commentare altamente dai giornali alcuni progetti del Tevere così iperbolici e lontani da ogni probabilità di riuscita che qualche anno addietro avrebbero fatto levare tanto romore di scherni e di risa da assordar mezzo mondo. Di fatti chi proponeva di deviare affatto il Tevere urbano e convertire l’alveo attuale in un boulevard … senza riflettere che le esalazioni emanate dal letto
rimasto a secco avrebbero  … appestati e fatti morir come mosche tutti gli abitanti di Roma … Con siffatti espedienti è chiaro che cento inondazioni … non potrebbero arrecare a Roma la metà dei danni materiali, che cagionerebbero i progetti dei suoi salvatori, qualora … si volessero mandare ad effetto
”.
Si realizzò un’alleanza tra la burocrazia piemontese ed i tradizionalisti romani per accantonare il progetto di Garibaldi e dare avvio invece alla grossa speculazione edilizia che colpirà il centro di Roma per circa mezzo secolo.
Nello stesso anno il progetto veniva definitivamente bocciato e Garibaldi sdegnato si ritirò aCaprera.

La conclusione molto amara è che gran parte di ciò che Garibaldi sognava per Roma è stato poi
realizzato dal tanto vituperato fascismo, che bonificò la Maremma e l’Agro Pontino dando lavoro a molti contadini, resuscitò i monumenti dei Cesari e distrusse molte vestigia medioevali, che a Garibaldi proprio non piacevano.
La regolazione del flusso del Tevere viene fatta con le dighe a monte (anche se la loro gestione, dettata più dalla necessità di generare energia elettrica, non mette al riparo del tutto da inondazioni, come successo con l’Arno a Firenze).
Garibaldi sognava che Roma appartenesse all’Italia e non si accorgeva che i suoi progetti avrebbero distrutto anche parte dei monumenti della Roma imperiale, sostituendo gli antichi ponti con moderni ponti in ferro, lasciando libero corso alle nuove costruzioni.
Ma allora perché Garibaldi voleva che Roma fosse italiana?
Per cancellare con la modernità quasi duemila anni di storia della cristianità?
Voleva forse tornare a conquistare il mondo come sognò poi Mussolini?
Ma Garibaldi voleva anche essere pacifista!
Allora la conquista vagheggiata si sarebbe basata su una nuova civiltà pacifica che si sarebbe irradiata da Roma e dall’Italia?

Da notare che il progetto della deviazione di una parte delle acque del Tevere era
tecnicamente ben costruito con il supporto di molti esperti.
Peccato che non fosse stato corredato da quello che oggi chiamiamo studio d’impatto ambientale.
Il 1876, l’anno in cui si discuteva del progetto di deviazione del Tevere e contemporaneamente si dava inizio alla prima speculazione edilizia a Roma, erano trascorsi appena dieci anni dal 1866, l’anno orribile della storia italiana, quando durante la cosiddetta terza guerra d’indipendenza l’Italia riuscì a rimediare una quasi sconfitta a Custoza pur avendo un esercito bene armato, molto motivato e che numericamente era tre volte superiore a quello austriaco presente sul fronte italiano.
In mare le cose andarono anche peggio.
La flotta italiana era molto superiore a quella austriaca ma a Lissa riuscimmo nell’impresa di ottenere una sconfitta.
Il risultato fu che l’Italia dopo il 1866 era diventata una piccola nazione, compromessa nella sua credibilità, cosa di cui  neppure Garibaldi s’era accorto.

Professor Raffaele Giovanelli



1)
Fausto Borrelli “Pensare la Tecnica”, ENEA, Roma, 1996.
2) Annita Garibaldi è arrivata sino a Taganrog per riscoprire le origini del Garibaldi  “russo”. La stele commemorativa è stata posta grazie a Natalia Chigridova, presidente dell’Associazione Dante Alighieri di Rostov e al ministero dei beni culturali e dell’ambiente in Italia. “Garibaldi - ha
spiegato Natalia Chigridova - vivrà per sempre nei ricordi della gente di Taganrog e di Rostov. Un personaggio molto conosciuto per aver arricchito il patrimonio storico e culturale anche del nostro Paese. Ed è per questo motivo che siamo onorati e orgogliosi di aver dedicato a questo eroe un monumento in una delle zone più belle della città direttamente sul mare”.  
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