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«Cattotalebani» e altri
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Quando abbiamo scritto di «cattofondamentalisti» e di «cattotalebani» non ci riferivamo né al professor Damiani né a nessun altro in particolare.
Facevamo solo un riferimento ad una categoria culturale e comportamentale, che riteniamo abbia poco a che fare con la Fede.
Una categoria da cui si rischia a volte tutti, per «impeto di battaglia», di essere travolti.
Era anche un invito a superare, con l’aiuto di Dio, questi limiti comportamentali perché non fanno bene a nessuno, neanche a noi stessi.

Damiani ci chiede come si fa a conciliare il «Syllabus» con la «Dignitatis Humanae».
Rispondiamo di non cercare una conciliazione a tutti i costi, questo sarebbe appunto metafisicamente contradditorio, ma ci sforziamo di leggere la seconda alla luce del primo tenendo conto della differenza di linguaggio esistente tra quando fu scritto il primo e quando fu scritta la seconda.
Non presumiamo affatto che tale lettura sia sempre e comunque possibile o comunque per tutto possibile.
Damiani ci dirà che è tramite il linguaggio che si esprimono i contenuti ed è vero.
Ma è anche vero che qualsiasi documento ha pur sempre bisogno di interpretazione.
E’ stato così anche per i documenti del Concilio Tridentino, che furono giustamente oggetto di ricezione ed esegesi successiva al Concilio stesso.
Riconosciamo che la chiarezza ab origine sia la modalità di estensione migliore e che i documenti del Tridentino fossero certamente molto meglio impostati.
Ma è proprio questo quel «mistero» di Passione per la Chiesa che abbiamo ricordato.

L’esegesi alla Luce della Tradizione degli atti di un Concilio solo pastorale come il Vaticano II
è l’unico modo di evitare l’errata conclusione sedevacantista: ossia che lo Spirito Santo sia andato in vacanza e che le promesse di Cristo «Sarò con voi fino alle fine dei tempi» o «Inferii non praevalebunt» non siano o non si stiano realizzando.
Attenzione perché quest’ultima, quella sedevacantista, è la strada che porta dritto dritto al settarismo ed è la stessa strada praticata dai protestanti a suo tempo e dai così detti  «vecchi cattolici» che, all’indomani del Vaticano I, non riconoscendone le conclusioni perché a loro giudizio antitradizionali, si separarono da Roma ed hanno finito per approdare alla «chiesa» calvinista.
Il rischio è nel peccato di superbia: è questo il peccato che in passato ha portato molti contestatori, delle manchevolezze umane della Chiesa, all’eresia.

Valdo, per fare un esempio, ma anche altri «pauperismi» scandalizzati dalla corruzione morale degli uomini di Chiesa dei loro tempi, non ha avuto l’umiltà di amare lo stesso una Chiesa che in apparenza, per le colpe dei suoi uomini, non sembrava più cristiana.
Al contrario, San Francesco baciava le mani dei sacerdoti moralmente corrotti perché tramite quelle mani operava, comunque, Cristo.
Santa Caterina da Siena scriveva lettere di fuoco al Papa perché era andato via da Roma, eppure lo chiamava «il mio dolce Cristo in terra» perché in lui, nonostante tutte le accuse ed i rimproveri che gli rivolgeva, vedeva la Roccia stabilita dal Signore.
Ecco: nella storia della Chiesa i santi, a differenza degli eretici, sono sempre rimasti dentro la Chiesa e proprio nei momenti più difficili della sua vita.
Così facendo l’hanno salvata dagli sbagli degli stessi uomini di Chiesa.

Damiani ci dirà che adesso si tratta non di costumi ma di dottrina: a maggior ragione allora vale il nostro discorso.
Quanto bene farebbero alla Chiesa se vescovi e sacerdoti tradizionalisti [certo, dopo aver avuto le loro garanzie, ma anche senza pretendere l’impossibile] operassero dal suo interno, sfornando dai loro seminari preti che poi potrebbero salire in alto verso cariche importanti, fino, perché no?, al soglio papale?
Non dica Damiani che i tradizionalisti non hanno i loro problemi di comunione con Roma:
non entriamo nel merito della presunta «scomunica», ma è indubbio che una posizione di irregolarità vi sia.
«Ubi Petrus ibi Ecclesia»: vale ancora.

Per quanto poi riguarda la «gnosi» forse Damiani si riferisce al passaggio nel quale diciamo che la crisi della Chiesa, pur fomentata dall’antico avversario, fa parte di un Disegno salvifico.
Ebbene una precisazione: non abbiamo affatto affermato che dal male derivi il bene.
E per meglio spiegarci richiamiamo il Genesi.
Non è stato certo Dio a volere il peccato di Adamo come se da questo poi Egli avrebbe potuto trarre dialetticamente il bene.
A peccare è stato Adamo e solo Adamo nonostante ogni avvertimento divino.
Tuttavia, il disegno salvifico di Dio, la Redenzione, si è messo all’opera immediatamente dopo il peccato di Adamo.
Dio non ha abbandonato l’uomo, lo ha ricoperto di «pelli», se ne è subito preso cura, benché l’uomo peccando lo avesse tradito e respinto.

Nel Genesi subito dopo il peccato di Adamo, alla sentenza di maledizione che Dio pronuncia verso l’antico avversario, segue la promessa di Redenzione con l’immagine della Donna che schiaccerà il capo al serpente: è il cosiddetto protovangelo.
Ebbene tutto questo è perfettamente estensibile, lo hanno insegnato i Padri della Chiesa, anche al cammino storico della Chiesa.
Il Cielo, a Fatima, aveva avvertito gli uomini di Chiesa del pericolo di uno sbandamento della Fede; eppure gli uomini di Chiesa hanno preso alla leggera quegli avvertimenti ed hanno mancato, essi non Dio e non su permissione divina, di fedeltà verso la Tradizione.
Ma Dio si è messo all’opera subito per riparare ai guasti inferti.
E, forse (non è una affermazione ma una speranza), iniziamo a vedere un riaggiustamento di certe situazioni che certamente è positivo.
Forse, è solo un inizio, un germoglio: vogliamo soffocarlo prima del tempo?

Lo Spirito Santo non ha mai smesso di soffiare nella Chiesa neanche nei momenti più oscuri della sua storia, neanche durante e dopo il Vaticano II nonostante tutto il «fumo di Satana» che incoscientemente la Gerarchia ha fatto entrare nel Tempio.
La Chiesa nella sua essenza è sempre la stessa ma il professor Damiani, che insegna storia, converrà che nelle forme esteriori tra la Chiesa di Papa Silvestro, quella di Gregorio VII e quella tridentina di San Pio V vi sono sviluppi e differenze.
Non nella dottrina, certo.
Ma la differenza con il passato sta nel fatto che in quelle epoche, nonostante certi passaggi filosofici come quello dall’agostinismo al tomismo, tutta la cultura, ed il linguaggio usato per esprimere i contenuti culturali, era di impostazione metafisica: sicché la Fede aveva di che appoggiarsi.
All’epoca del Vaticano II la Chiesa non ha trovato una cultura ed un linguaggio metafisici cui appoggiarsi: il mondo parlava, e parla, senza più riferimenti metafisici.
E’ stato fatto un tentativo di «adattare» la Fede alla cultura ed al linguaggio del mondo moderno e questo ha provocato la crisi.

La modernità è ormai morta ed il postmoderno si presenta ambiguo: da un lato esso sta portando alle estreme conseguenze il moderno rivelandone il nucleo di sostanziale irrazionalità nascosto dietro l’apparente razionalismo; dall’altro sembra dare segnali di una non ancora ben chiara riscoperta della metafisica.
Senza nasconderci le ambiguità che senza dubbio ci sono, tuttavia la scienza postmoderna per alcuni aspetti sembra iniziare a riparlare un linguaggio più metafisico, anche se di tipo «neoplatonico».
I Padri della Chiesa si trovarono proprio in una situazione simile: avevano di fronte una cultura neoplatonica da depurare da tutto ciò che di «idealistico» essa aveva, per costruire, con le intuizione precristiane della cultura ellenistica, una teologia ed una filosofia assolutamente cristiane.
Da qui è partito il medioevo cristiano.

Quando Benedetto XVI dice che l’incontro tra Gerusalemme ed Atene, tra fede ebraica e filosofia ellenistica, è stato provvidenziale nel disegno di Dio approssimandosi l’Incarnazione, ed invoca l’endiadi Logos et Ratio, o Ratio et Fidei, egli è perfettamente cosciente di queste possibilità che sembrano aprirsi alla Fede per riappropriarsi di una base culturale e di un linguaggio metafisici, che nella modernità le erano venuti progressivamente a mancare.
Ed anche la liturgia rientra in questa attenzione di Benedetto XVI: egli sa che la liturgia è linguaggio, anche gestuale, necessario alla Fede e che deve essere linguaggio adatto ad esprimerla. Ecco spiegato il motu proprio.
Damiani ritiene davvero che questa visione del regnante Pontefice sia da disprezzare e da rigettare? Oppure non ritiene che sia invece intelligente sostenerla con la preghiera, innanzitutto, ma anche con ogni sforzo da tutti i fedeli, secondo le possibilità personali di ciascuno?

Infine, il nostro «agnosticismo» sul cosiddetto «olocausto»: non sono storico di professione e pertanto non ci addentriamo su problemi circa i quali altri sono meglio attrezzati di noi.
Diciamo solo, l’abbiamo detto a Teramo (e Damiani c’era), l’abbiamo ripetuto in questi giorni su EFFEDIEFFE, che ciò da cui i cattolici devono assolutamente guardarsi, pena l’apostasia, è la «teologia dell’olocausto» che vuol sostituire il Golgota con Auschwitz.
Tutto qui.
Abbiamo la massima stima verso il professor e la massima riverenza verso il suo coraggio di cristiano perseguitato.

Luigi Copertino



 
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