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PKK: perché proprio adesso?
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«Perché questa subitanea eruzione di violenza kurda in Turchia al confine con l’Irak? E’ ovvio che il PKK, Partito dei Lavoratori Kurdi, non agisce da sé».
Lo afferma M. K. Bhadrakumar, l’ex-ambasciatore indiano e firma prestigiosa di Asia Times (1).
E mette in relazione alla «Israeli diplomatic activity» che è diventata frenetica in questi ultimi giorni, e  apparentemente tende ad assicurarsi la benevolenza o la neutralità di vari paesi in vista dell’attacco all’Iran.
«Olmert», scrive Bhadrakumar, «ha appena concluso un giro europeo densissimo d’incontri. Funzionari dell’intelligence israeliano e ‘opinion makers’ strategici stanno soffiando sul fuoco e atterrano nelle capitali amiche, fra cui Nuova Delhi,  portando storie terribili a proposito dell’Iran. Israele sta schiacciando l’acceleratore».
Già, ma cosa c’entra il PKK in questa strategia?
Seguiamo il ragionamento di Bhadrakumar, che mi limito a tradurre.

«I quadri del PKK sono molto ben equipaggiati e addestrati, assai più che nei pèrecedenti 25 anni della loro storia di violenze. E’ di nozione comune che il presidente della regione autonoma kurda nel nord-Irak, Massoud Barzani, si dissocia pubblicamente dal PKK, si proclama incapace di frenarne le azioni che partono da basi sotto il suo controllo territoriale, ma si riserva di opporsi ad ogni incursione turca contro il PKK.
Ci sono inoltre concretissimi indizi che armamenti consegnati dagli USA a Barzani, ostentatamente allo scopo di combattere Al Qaeda, finiscono nelle mani del PKK. E nessuno si degna di spiegare come questo accada. Barzani è un fiero alleato degli USA, e di Israele. Gli USA sostengono che le loro forze sono insufficienti in Irak, e non possono far niente per piegare il PKK».
«Ma quasi niente può accadere in quella regione senza l’acquiescenza americana. E’ la regione dove forze speciali USA hanno sequestrato funzionari iraniani in visita. Sanno bene cosa  accade lì. La regione kurda è un teatro cruciale per la strategia americana in Irak. Gli USA adoperano il Kurdistan iracheno come base di lancio per azioni clandestine in Irak».
«Lo stesso si può dire per Israele», aggiunge Bhadrakumar (che ha sicuramente accesso a fonti d’intelligence): «Uomini d’affari israeliani stanno facendo soldi a palate nell’Irak del Nord. E sono lì per restare: hanno acquistato parecchi immobili e terreni dentro e intorno a Suleymaniah. Se la intendono a meraviglia coi corrotti dirigenti locali kurdi. Hanno piano grandiosi, tutti accentrati attorno al progetto di far fluire ai mercati il greggio e il gas iracheno attraverso oleodotti turchi. Sono in combutta anche con Barzani».
«L’Irak del Nord è una regione dove Israele ha installato una fortissima presenza spionistica da quattro anni. E’ una regione essenziale per le strategia israeliane contro l’Iran. Non c’è dubbio: Israele ha legami molto, molto stretti con i kurdi dell’Irak del Nord che nelle settimane scorse hanno insanguinato e provocato la Turchia».

Bhadrakumar cita una frase precisa di Erdogan, il premier di Ankara: «L’America è il nostro alleato strategico; eppure nell’Irak del Nord abbiamo la sensazione che sia i terroristi, sia il governo locale, si facciano scudo degli USA. Ci rattrista vedere che armi americane sono trovate in possesso di terroristi che agisocno contro di noi».
E’ un’accusa grave e precisa.
Che gioco fa’ l’America?, si chiedono ad ankara.
Tanto più che la inopinata riapertura del dossier sul genocidio armeno del 1915, dice Bhadrakuma «rafforza il sospetto che sia tutto parte di un piano».
Quale piano?
«Da quando il governo ad Ankara è andato al Partito Giustizia e Sviluppo (AKP, il partito islamista di Erdogan)», le politiche regionali turche e quelle americane non convergono più. La Turchia ha detto un sonoro no alla richiesta USA di appoggio logistico durante l’invasione dell’Irak nel 2003. I rapporto con Israele si sono raffreddati, data l’apertura di colloqui del governo AKP con Hamas in Palestina, mentre sono più cordiali i rapporti della Turchia con Iran e Siria. Non c’è dubbio che, critica verso l’invasione in Irak, Ankara ha acquistato una autonomia verso l’alleato storico, gli Stati Uniti. E gli USA sanno che la Turchia rimane indispensabile per i loro interessi nella regione del Mar Nero ed oltre; specie nell’imminenza di un attacco contro l’Iran».
In questo frangente, ecco il PKK.
«Le sue improvvise incursioni dall’Irak costringono Ankara a fare una scelta esistenziale. Mani invisibili la costringono a volgersi all’Occidente e a bussare alla porta di Washington per aiuto».
«A proprie spese, Ankara impara a prendere atto che, semplicemente, non può permettersi una politica estera indipendente nella regione. La Turchia è un pilastro del sistema di sicurezza occidentale (la Nato) e questo legame è come un matrimonio cattolico, indissolubile», dice Bhadrakumar.
In questo piano, la Gran Bretagna gioca la parte del «poliziotto buono».

Il ministro britannico degli esteri Miliband ha ricevuto Erdogan e s’è sperticato in manifestazioni di solidarietà per le sofferenze die turchi, esprimendo «disgusto» per il «vile PKK».
Poi ha portato Erdogan dal premier, Gordon Brown, il quale ha fatto firmare al governante turco un trattato «di partnership strategica», in cui i due paesi si impegnano a «migliorare l’alleanza transatlantica, a intensificare la collaborazione per la lotta contro il terrorismo e la proliferazione nucleare [ecco l’Iran] nonché a promuovere la stabilità, specie in Medio Oriente e in Afghanistan». In cambio, Londra si è impegnata a mantenere aperta la porta della Unione europea ad Ankara.
Insomma ha legato la Turchia mani e piedi all’Occidente, dando poco o nulla in cambio.
Ma la Turchia, nota l’ex-diplomatico indiano, è davvero addomesticata e riportata nelle fila dell’Occidente?
Ankara non può non reagire alla formazione di uno stato kurdo ai suoi confini, in Irak.
La sua opinione pubblica è sempre più ostile agli USA ed ostilissima a un colpo militare americano contro l’Iran, e il governo non può ignorare questo umore popolare.
«Ciò significa che Ankara avrà difficoltà a rispondere alle attese degli Stati Uniti e di Israele, di fare da contrappeso all’Iran sullo scacchiere medio-orientale».
Erdogan ha espresso le vedute turche in un’intervista al Sunday Times: «Gli stati Uniti sono venuti in Irak da decine di migliaia di chilometri di distanza: perché e con quale scopo non so dire. Ma una cosa so: che non c’è in vista alcun successo. C’è solo la morte di decine di migliaia di persone. C’è un Irak in cui è stata distrutta completamente l’infrastruttura e la superstruttura».
Il 5 novembre Erdogan andrà a Washington e vedrà ancora una volta Bush.
Non si accontenterà di promesse.
E le truppe turche ammassate al confine sono intese a rafforzare i suoi argomenti.
A quanto pare, Washington sta cercando quale risposta dare.
In una telefonata al presidente turco Abdullah Gul, il presidente Bush si è detto pronto a… bombardare dal cielo le basi del PKK (2).
La sola cosa che sa fare, o crede di saper fare.
Basterà?

In queste ore Biryar Gabar, un esponente della cellule direttiva del PJAK, la formazione kurda che dall’Irak del Nord compie incursioni in Iran, ha ammesso di avere «regolari rapporti» con i generali americani.
Segreto evidente, dato che il caporione supremo del PJAK, Rahman Haj-Ahmad, è stato ricevuto a  Washington l’estate scorsa (3).
Ciò, nonostante il PJAK sia nell’elenco delle organizzazioni bollate come «terroriste» dalla casa Bianca.
Come del resto il PKK.
E PJAK e PKK sono, di fatto, una sola e stessa organizzazione.
Insomma il plateale doppio gioco continua.
Con quale sbocco?
Anche Teheran guarda con attenzione il prossimo incontro del 5 novembre (4).
La Turchia obbedirà al suo destino manifesto, o allo «storico alleato»?
Dalla risposta dipenderà quanto è vicina la «terza guerra mondiale» a cui ha alluso Bush. 
A quel punto, Teheran dovrà ricontare se ha comprato da Mosca abbastanza missili da crociera 3M-82-Moskit, quelli che in codice NATO si chiamano «Sunburn».
Si tratta del missile antinave che vola a due volte la velocità del suono,  ha un raggio di quasi 200 chilometri, porta 750 chili di esplosivo convenzionale (o 200 chilotoni nucleari), ha sistema di guida perfezionato che contempla «violente manovre finali» per eludere le contromisure nemiche prima di piombare sul bersaglio.
E’ specificamente progettato per colpire le portaerei.
La US Navy  non ha ancora trovato una difesa da quest’arma.

Se i Sunburn sono stati comprati in numero sufficiente, l’Iran potrà contare su un vantaggio asimmetrico almeno temporaneo.
Affondando un paio di portaerei prima della propria fine.



1) M.K. Bhadrakumar, «Iran looms over Turkey crisis diplomacy», Asia Times, 25 ottobre 2007.
2) «Bush offers to bomb Kurds», Herald Sun, 24 ottobre 2007.
3) «PJAK admits to having US relations», PressTV, 24 ottobre 2007.
4) Marc Gaffney, «Iran: a bridge too far?», Globalresearch, 26 settembre 2004. Gaffney è un esperto di cose militari. Il suo vecchio articolo sul Sunburn è degno di lettura.
 

 

 
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