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La dittatura degli incappucciati
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Ecco che comincia: lo Stato dei parassiti, che si è dato Mario Monti come capo, vi porta via i soldi direttamente dai conti in banca, dai depositi postali, dai libretti di risparmio. Un prelievo dell’1 per mille, che diverrà dell’1,5 l’anno prossimo. (Così la nuova mini-patrimoniale di capodanno ci farà sprofondare)

Ancor peggio di quel che fece Giuliano Amato, che a suo tempo aveva prelevato i vostri soldi risparmiati; ma almeno vi aveva dato in cambio dei BOT vincolati. Il governo Monti ruba, ossia preleva, senza nemmeno dire grazie. I media dolcificanti la chiamano «mini-patrimoniale»: da aggiungere alla super-patrimoniale detta IMU e al salasso dell’addizionale Irpef, grazie alla quale – poniamo – un operaio con salario netto 1.240 euro si troverà una trattenuta annua di 420. E un impiegato con 1.840 euro mensili (30 mila lordi annui) avrà un prelievo aggiuntivo di 700 euro. E tutto questo, perché? Per dare 4 miliardi a Montepaschi, la banca di Bersani & Compari. Per mantenere gli emolumenti stellari di Napolitano, delle Caste mai intaccate, dei gran commis: i miliardari di Stato. Per dare 26 miliardi al Fondo Europeo cosiddetto salva-Stati, ossia salva-banche. In ciò, in piena consonanza con l’Eurocrazia: che quest’anno ha dato 1.600 miliardi alle banche, ossia il 13% del PIL, dell’eurozona, mentre ha contemporaneamente tagliato del 50% i finanziamenti all’economia reale.

Esiste un detto: «L’estremo atto di un governo è il saccheggio del suo popolo». Monti sta saccheggiando la classe media e i piccoli risparmiatori indifesi, quelli che i risparmi li tengono nelle banche e alla Posta, invece che nei paradisi fiscali.

La «mini-patrimoniale di Capodanno» è una «sorpresa», dicono i media. Era nascosta nella gigantesca farragine della Finanziaria (che il neo-orwellismo ci prescrive di chiamare «Patto di Stabilità»), ma ricordiamoci quando si voterà:

Ricordate: i partiti hanno votato questo furto diretto sui vostri risparmi. Tutti: sinistra, centro e destra. Anche Berlusconi, che adesso fa finta di essere contro. Zitti zitti, perché da quel furto arrivano i loro lussi e clientele. Si sono serviti da sé, nascosti dietro Monti, prendendo dal vostro portafoglio. Sono gli stessi partiti che hanno infarcito la Finanziaria di premi e sprechi per le loro lobby di riferimento: milioni per «lanciare il turismo in Lucania», roba così.

Del resto, qualunque cosa votiate, è già deciso dall’alto: Monti continuerà a governare. Anche in futuro potrà contare sulla «larga maggioranza» dei nominati che votano di soppiatto per rubarvi i soldi.

Lo dice l’intervista che ha lasciato a Repubblica, o più precisamente al padrone, quell’Eugenio Scalfari quasi novantenne, elemento tuttora di punta dei decrepiti dall’incresciosa longevità che hanno messo a segno il putsch oligarchico. Lì, Monti stila già il suo programma dopo il 25 febbraio, quando guiderà il governo (formalmente PD):

«Nei primi cento giorni bisogna intervenire subito sulla corruzione, dimezzare il numero dei parlamentari, dimezzare le provincie, cambiare il welfare e investire sulluniversità e la ricerca».

Tutte le cose che non ha fatto in 465 giorni, dice che le farà: sembra Berlusconi, ma più furbastro. Qui, l’importante non sono le promesse, ma la sua sicurezza di governare anche dopo il voto.

«Dobbiamo ricostruire la pubblica amministrazione e costruire lo Stato dellEuropa federale»: per il primo vien da dire: «vaste programme», Monti non ne è capace, e l’abbiamo visto: il parassitismo pubblico è il corpo sociale che vota a «sinistra», dagli insegnanti precari scalzacani (però infornati nella greppia a centinaia di migliaia) ai miliardari di Stato, un blocco unico di interessi di cui il governo «tecnico» è in fondo l’espressione. Il secondo è ovviamente il programma vero, quello a cui è stato delegato da Bruxelles e da Berlino: portarci nella federazione europea governata dalle oligarchie non mai elette.

Naturalmente, non si sporca le mani candidandosi, insieme a quei disperati da quattro soldi che si aspettavano da lui la permanenza in parlamento e dunque la salvezza loro privata, Fini, Casini, Rutelli, Riccardi. Voleva farlo, e questo riconferma la sua scarsa intelligenza: metteva a rischio la sua «credibilità» (cosiddetta) super partes perché gli chiedevano di candidarsi i suoi referenti di Bruxelles e di Berlino, terrorizzati da un ritorno di Berlusconi che non ci sarà. I sondaggi e il consiglio del furbo Napolitano lo hanno convinto. Precisamente di questo: il tempo dei votanti e dei votati è passato. Il futuro è degli oligarchi cooptati. Adesso aspetta di farsi incoronare dai Bersani & Co., con la «grande alleanza» che seguirà sicuramente. «Alcune persone perbene» nel PDL, dice Monti a Scalfari, sono lì con la lingua fuori, pronte a seguirlo. Scalfari gli assicura che anche Vendola, dopo la necessaria ammuina per truffare i votanti, sarà della partita: Vendola considera «persone rappresentative dei valori a cui crede... Gramsci e Gobetti», rivela Barbapà. E anche i Fratelli Rosselli?, ha incalzato il grande vecchio. E Vendola: «Certo anche loro e il liberalsocialismo».

Attenzione, quella di Scalfari è una «Linea». Una linea «laicissima» di potere e di ideologia ben precisa, semi-occulta sotto maschere diverse (anche cattoliche), ma sempre influente nel Paese. Già lo lascia intendere, Scalfari, nell’esordio: io e Monti, scrive:

«...ci conosciamo da molto tempo: nel 1950 io dirigevo lufficio estero della Banca Nazionale del Lavoro nella filiale di Milano guidata da suo padre. Diventai amico del Monti senior che di tanto in tanto mi invitava a cena a casa sua insieme ad altri collaboratori del suo staff. Monti junior aveva più o meno dieci anni, io ne avevo ventisette. Ma molti anni dopo, quando lavorava alla Bocconi di cui poi fu rettore, diventammo amici, ci incontravamo e ci telefonavamo spesso e quando veniva a Roma spesso ci vedevamo aRepubblica’».

Scalfari si è sempre confricato con la «Linea», si è reso indispensabile, e ne ha tratto benefici: 200 milioni di euro di patrimonio personale, il sostegno di De Benedetti, per dirne due. Ora, vuol far vedere non solo che Monti è della «Linea», ma che lui è il suo chaperon. Infatti, l’articolo non è veramente un’intervista di Scalfari a Monti; è invece Scalfari che si degna di farsi intervistare da Monti. È l’Apprendista che chiede rispettosamente al Maestro: «Come valuti Berlusconi»?, e lui, il saggio dalla bianca barba: «Più forte di quanto molti pensino». È sempre il picciotto a chiedergli i pareri sui sondaggi, e l’altro risponde maestoso, accondiscendendo divino (notoriamente, Scalfari crede in Io). Scalfari è un furbone, si dà l’aria: si ritrae grembiule e la spada posata sulla testa dell’Apprendista, mentre lo ammette nella «Linea».

Pontifica, condiscendente: «Quale che sia il risultato che uscirà dalle urne, Monti è una persona indispensabile per garantire lItalia di fronte agli alleati europei e americani e lui ne è pienamente consapevole».

In realtà, Monti è nella «Linea» ben prima del furbone, bancario e giornalista miliardario calabro. Lo è, se possiamo dirlo, per nascita. Lo dicono e negano nipote di Raffaele Mattioli, il capo intoccabile della Banca Commerciale Italiana anche durante il fascismo, di cui fece un covo dorato di antifascisti laicissimi, Malagodi, La Malfa, Merzagora, Antonio Maccamico, grand commis intimo di Napolitano (a sua volta membro della Linea laicissima di Amendola). Quella Comit, la banca ebraica (di Otto Joel e Federico Weil, poi passata all’ebreo polacco Toeplitz) che in Turchia, negli anni Dieci del Novecento, favorì i Giovani Turchi che turchi non erano affatto, bensì dunmeh, ossia cripto-giudei «laicissimi». La cui dittatura persecutrice di armeni ed imam, fu salutata dalle Massonerie occidentali come un trionfo fraterno.

Stupisce i biografi malaccorti il fatto che Mattioli fosse stato interventista a Fiume in gioventù, mussoliniano, poi togliattiano, poi mangiapreti ma amico del cardinal Montini... Ingenui, la «Linea» comporta per i suoi membri l’inserzione per il controllo nei movimenti nascenti, specie quelli che promettono di favorire «un cambio di paradigma»; e i «fiumani» dannunziani, lussuriosi, cocainomani ed orgiastici di sopraffine voluttà, cultori del look guerriero leccatissimo e un po’ finocchio, promettevano bene, oh se promettevano. Mattioli che non assumeva mai nella dirigenza Comit «uno che si fà la Comunione» (come ricordò Andreotti) (1), e poi si fa seppellire nell’Abbazia di Chiaravalle, comprando il pezzo di terra dove – come il sottoscritto rivelò per primo, nel saggio Gli Adelphi della Dissoluzione – era stata sepolta Guglielma la Boema, eretica medievale che faceva intendere di essere Dio in forma di femmina e che creò attorno a sé un culto gnostico aberrante, per cui era stata disseppellita dalla Chiesa e le sue ossa disperse. A Chiaravalle ogni anno, in luglio personaggi «laicissimi» della finanza dei poteri forti come Enrico Cuccia finché fu vivo, Enrico Beneduce (nipote di Cuccia), Maranghi, Cingano, partecipavano ad una messa in latino in onore di Mattioli.

  
Il fatto che Mario Monti si sia sposato 45 anni fa proprio a Chiaravalle, dove ha tenuto anche il banchetto di nozze, pare chiudere il cerchio. Ma è veramente il nipote di Mattioli? La certezza non c’è (Monti è un cognome molto comune), ma lo ha affermato Il Corriere della Sera; ed è singolare l’impegno con cui gli ambienti «laicissimi» hanno provato a smentire questa parentela, cercando di farla passare per una favola complottista che sfrutta «un banale caso di omonimia». Come si vede qui: (La lunga - e misteriosa - vita del professor Monti)

Dopo tanto smentire, il pezzo di cui sopra ammette: «Parenti, Mario e don Raffaele? , forse, ma molto alla lontana». Sic. Come dire: incinta? Sì, ma poco poco. E come testimone di tanta lontananza, si interpella «un lontano parente del Premier, Maurizio Lucca (cognome ebraico, ndr)», che rivelato all’Ansa nel novembre del 2011 come e qualmente «il nonno di Mario Monti, ‘Abramo’, andò in Argentina dove impiantò una fabbrica di birra». Tanto che Monti, negli anni Novanta, trovandosi in Argentina come rettore della Bocconi andò a visitare la casa dove visse il nonno, «un ampio edificio dove vive ancora la ziaRachele Monti’». Zia Rachele, nonno Abramo, parente Lucca... come dire: insomma, non è un parente di Mattioli se non alla lontana; al massimo è un dunmeh all’italiana, un’ascendenza ebraica coperta dal suo «cattolicesimo».

Sicché basta a capire le fortune del giovane sposo che 45 anni fa si coniugò «in chiesa» a Chiaravalle. Tutta una vita di cooptazioni ripetute. Laureatosi nel 1965, dopo solo 4 anni è già professore a Trento: non ricercatore o portaborse, ma proprio cattedratico, impresa «che non è riuscita nemmeno a Enrico Fermi», commenta un blogger. Niente gavetta, per il giovin signore. Prima, era stato un anno in USA, a Yale: senza però prendere né laurea né dottorato (chissà a fare cosa? Forse a farsi iniziare dalla Madre di tutte le cooptazioni future...). Nel 1981 è chiamato dalla DC a fare il presidente della Commissione credito e finanza; ha 37 anni, un miracolo di precocità in questa repubblica da gerontocomio. Poi le cooptazioni note: Rettore della Bocconi senza quasi pubblicazioni scientifiche, presidente della Commissione Trilaterale in Europa, uomo del Bilderberg, e nel frattempo consulente di Goldman Sachs; consigliere d’amministrazione di Fiat Auto e della Banca Commerciale (un ritorno in famiglia, in qualche modo). Poi Commissario europeo alla concorrenza: ma qui designato da Berlusconi, sempre desideroso di ingraziarsi i salotti buoni che mai l’hanno invitato a prendere il tè da loro (e col senno di poi, s’è visto che avevano pure ragione). (www.trilateral.org/Monti)

Beniamino Andreatta
  Beniamino Andreatta
Non insisterò sulla sua esibita posizione di «cattolico», che Scalfari gli rimprovera. Chiamo l’attenzione sul fatto che è nominato docente all’Università di Trento nel ‘69, e che poi è «la DC» a metterlo nella Commissione parlamentare. Si tratta non «della DC», ma di «un DC» molto preciso ed identificato: Beniamino Andreatta. Una eminenza grigia che Travaglio ha commemorato così: «Cattolico e democristianissimo, preferiva i laici risorgimentali come Paolo Sylos Labini». E Enrico Letta, «democristiano laicissimo» ed oggi vicesegretario del PD: Andreatta «era uomo di atti, rigore e azione», non mancando di sottolineare «continuità tra i discorsi di Mario Monti e Andreatta».

Già: basti dire che Andreatta ha privatizzato la Banca dItalia nel 1981, svincolandola dal Tesoro (di cui era ministro) e dandola al consorzio di azionisti banchieri a cui appartiene oggi. Un passo decisivo verso la perdita di sovranità.

Insomma: Andreatta sarà stato cattolico. Ma soprattutto, un ferreo realizzatore della «Linea».

E quando si dice che Monti fu fatto cattedratico a Trento nel ‘69, è sempre Andreatta che lo ha messo lì. Anzi: è stato Andreatta a creare dal nulla l’università di Trento – facoltà di Sociologia – da cui vennero fuori Curcio, Franceschini, Mara Cagol, insomma i capi delle prime Brigate Rosse; e il Movimento Studentesco, lo spontaneismo di sinistra oltre il PCI, la «rivoluzione culturale» trasgressiva che ha cambiato la faccia della nostra morale civile e personale: «Vietato vietare».

Non fu un imprevisto effetto collaterale. Fu un deliberato esperimento della «Linea», perseguito coscientemente da Andreatta e suoi referenti. Trento 1969; a Parigi era scoppiato il «68», formidabili quegli anni, tutto cambiava: immaginatevi Mario Monti così sobrio, in quel bailamme. Eppure era stato mandato lì. Ad insegnare che? A Trento, dominava ideologicamente il sociologo Francesco Alberoni: anche lui «cattolico» però transfuga dalla Cattolica di Milano (l’aveva licenziato), adorato da studenti spostati, alcuni francamente disturbati, venuti da tutt’Italia in questa isola bianca democristiana; un’isola che l’Università fece esplodere.

Francesco Alberoni
  Francesco Alberoni
Alberoni predicava ed incitava lo «stato nascente». Ossia «il magmatico crearsi di fermenti creativi nella società dove si formano nuove strutture di valori»; una «follia collettiva» però benvenuta, perché frantuma i centri d’autorità della civiltà precedente. Si sono scatenate nel collettivo «forze che non si lasciano incanalare, che provano il bisogno di espandersi per gioco, senza fine, in forma di violenza stupidamente distruttiva e di follia erotica»...» (2).

Nacque allora a Trento, asseverava Alberoni, «una vita psichica di nuovo genere», dove «luomo che la prova ha la sensazione di essere dominato da forze che non domina»: è la descrizione della possessione. I giovani che folleggiavano credendosi liberati, erano posseduti da idee messe nella loro testa da altri.

Era del giro anche Massimo Teodori: a suo onore non s’è mai finto cattolico. Radicale, deputato, docente a Perugia. Allora scrisse una «Storia delle nuove sinistre in Europa (1956-1970)» per esaltare nell’effervescenza di Trento e nell’espandersi del movimento «studentesco» ciò che chiamò il «sintomo di un processo di mutamento della civiltà di cui saremmo agli inizi»: nientemeno.

Una civiltà agli albori, basata su «nuovi valori»: femminismo, sdoganamento dell’orgoglio omosessuale, droga, trasgressione. Allora Teodori andava spesso in USA, da cui portava il verbo della civiltà psichedelica. Lo si diceva legato ad una fondazione «culturale» americana, Institute for Policy Studies: finanziato dalla Polaroid Corp. (dei Rockefeller), dalla Family Stern Found (controllato da Rockefeller, Rothschil e Rosenwald), l’IPS in Italia diede una mano alla pubblicazione di «Telos», rivista che diffondeva da noi il verbo della Scuola di Francoforte, fondata nel 1969 da Paolo Piccone (già leader di Lotta continua). Ovviamente l’Espresso (di Scalfari) salutava con inni di tripudio la nascita della «Autonomia Operaia» e degli «Indiani Metropolitani». E spiegava «Mentre nel Paese DC e PCI si fronteggiano secondo i modi e lo stile del ‘48, nell’università i due mondi hanno rotto gli argini e si vanno tumultuosamente mischiando».

Perché lo scopo dell’esperimento era questo: «Buttarsi dietro le spalle tre secoli di controriforma, marxismo ossificato da una parte e Chiesa con ceri e candele dall’altra», per arrivare ad una convergenza fra «comunismo pluralistico e capitalismo della post-distensione». E per Alberoni, ciò si stava producendo proprio tra gli studenti di Trento: la fusione «tra elementi provenienti da diverse classi sociali e matrici culturali: quella cattolica e quella marxista».

Prima ho parlato di «cambio di paradigma», supponendo che questa possibilità avesse interessato Mattioli «interventista a Fiume» con D’Annunzio. «Il cambio di paradigma» è infatti la specialità della discendenza che ho chiamato la «Linea». Non essendo capaci di ottenere i voti di un elettorato decente, la «Linea» ha sempre agito dietro le quinte per rompere gli schieramenti, e dominare negli interstizi, preferibilmente dal timone di grandi banche.

Lo scopo finale di quell’impresa, era la «Macchina Sociale»: così la descrisse Elemire Zolla in un articolo apparso il 27 gennaio 1975. Zolla intervistava un alto personaggio, un «signore dell’industria», che chiamò Alberich e in cui era facile riconoscere Gianni Agnelli, membro del Bilderberg e della Trilateral.

«Io percepisco dietro gli avvenimenti del secolo un disegno in cui le opposizioni più aspre finiscono per armonizzarsi»?, diceva Alberich. Non solo prevedeva la fine dall’antagonismo fra URSS e USA, ma una sorta di «convergenza fra i due sistemi, neocapitalismo della post-distensione e comunismo pluralistico». In Italia, convergenza fra grandi imprese e sindacati, fra comunisti e cattolici «progressisti», eccetera.

«Si creerà una nuova morale», profetizzava Alberich con gli occhi stralunati che mostravano il bianco, come un posseduto, «che colpirà come unico peccato lestraneità al mondo del lavoro. La radice dellegoismo è il risparmio, ma linflazione ce ne sbarazzerà (oggi il furto di Stato dai depositi, ndr). Sarà stroncato il piccolo commercio (...) si dovrà eliminare la piaga dellazienda agricola familiare ed autosufficiente (...). Altri noduli da sciogliere sono le professioni indipendenti... non guidate dal centro di pianificazione.

«La Macchina Sociale sarà rigorosamente pianificata ma nello stesso tempo sminuzzata in unità sociali... Il sistema sarà tutto e tutti. Anarchico e pianificato, dialettico».

Ecco la «Linea» in attuazione in Italia: uno Stato pianificato per i banchieri.

Un paradossale «comunismo pro miliardari» che vìola la proprietà privata, si prende il tuo risparmio e stronca le aziende che non sono abbastanza potenti; che come il peggior stalinismo lanciava periodiche «caccie ai sabotatori», lancia la caccia agli evasori, ai nemici del popolo ed incita i sudditi alla delazione. E non si fermerà, come lo stalinismo, fino a che non provocherà l’Olodmor, la morte per fame e disperazione dei produttori.

Francesco Alberoni
  La resurrezione
A Chiaravalle, in onore del banchiere Mattioli sepolto là dove fu Guglielma La boema, gli «amici» hanno elevato una statua. Firmata da Manzù, la statua rappresenta un essere bisessuale, l’Androgino della gnosi, che allude al superamento di ogni morale e destino naturale a cui gli eletti iniziati si votano. Per i gonzi, è intitolata «La Resurrezione». La scritta incisa sul piedistallo dice: «Exsurrexi et adhuc sum tecum». È il Salmo 138, ma nella versione detta «gallicana»: l’originale ha Resurrexi, invece qui è «exsurrexi». Differenza non trascurabile: «‘resurrexiindica il risorgere come esplicita risurrezione dei corpi; l’‘exsurrexiindica, invece, un alzarsi, un destarsi, senza caricarsi della connotazione di resurrezione, intesa come resurrezione dei morti e dei corpi».

Davanti a questa «cattolica» immagine il «cattolicissimo» Monti avrà deposto i fiori della mogliettina. È la «Linea», che è tornata ed oggi, è ancora una volta con noi. A produrre un altro esperimento sociale mai visto.

Perché questo non è certo liberismo. Non è il liberismo che sta instaurando Monti. È il capitalismo come lo intendono le caste parassitarie transnazionali ed interne (3), che vivono alle spalle dei contribuenti con tutti i lussi da sardanapali. È la «Macchina Sociale» di Alberich-Agnelli.

In nessun Paese capitalista si è ancora giunti a tanto. Ho appena avuto notizia che un dirigente privato, accusato di «corruzione» per un regalo fatto a un cliente della sua ditta, s’è visto sequestrare il cellulare e il portatile di lavoro, che non gli è stato restituito, tanto da non poter più lavorare... L’esproprio dei risparmi da parte dei miliardari di Stato, il sequestro di proprietà private sotto false accuse di evasione attuato dalle caste, lo stroncamento di industrie con 18 mila dipendenti perpetrato da giudici che compiono l’opera che le BR non riuscirono a completare, non sarebbero tollerate da altri popoli. Dal nostro, sì.

Votate Berlusconi, vi tradirà. Votate Bersani, è Montepaschi. Votate Casini, e vi prendete Fini e Rutelli. Tanto, governerà Monti. Cioè la «Linea».





1) Maurizio Blondet, «Gli Adelphi della dissoluzione», Ares, Milano, 1999.
2) Francesco Alberoni, «Statu Nascenti», Il Mulino, Bologna, 1968 (il Mulino fu ed è una casa editrice della «Linea»). Citato da me: vedi Blondet, «Gli antenati insospettati della contestazione», nell’opera collettiva «Dov’è finito il ‘68? », Ares, 1998.
3) Persino l’ultraliberista Luigi Zingales, docente alla Scuola di Chicago e rispettatissimo guru del capitalismo, s’è accorto che qualcosa non quadra nel progetto eurocratico: «L’aspetto criminale dei fondatori dell’euro è che tutto questo lo sapevano, e non solo non hanno fatto nulla, ma anzi l’hanno fatto apposta: la crisi dell’euro di oggi era inevitabile. Dire che è colpa degli Stati Uniti – ha spiegato – è una balla: è vero che è stata quella la causa scatenante, ma la crisi era inevitabile. Non fosse successo il patatrac negli USA sarebbe successo altro. Era una scelta premeditata: ‘Nel momento di crisi, ci uniremo di più’, si pensava. Abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo, solo che il corpo è rimasto di qua».


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