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La Chiesa può accogliere ancora una vocazione?
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Ricevo questa lettera:

«Egregio Direttore

Le scrivo perché vorrei condividere con Lei e i lettori del Suo giornale un’esperienza che nei giorni scorsi mi ha turbato l’animo e che rischia di demoralizzare lo slancio della mia piccola fede.

Premetto che sono un giovane in cammino di discernimento vocazionale ormai da qualche anno. Mi piace definirmi un “peccatore convertito”.

Sono nato e cresciuto in un ambiente laico, scristianizzato e tendenzialmente nichilista. Mio padre è cattolico, tutte le domenica va a Messa e dice qualche preghiera la sera prima di andare a dormire, ma da buon cattolico moderno non crede nella Presenza Reale nell’Eucaristia, ha un’idea vaga e tutta spirituale del paradiso, non crede nella risurrezione della carne e simpatizza per la reincarnazione: dubita anche che Gesù sia effettivamente Dio, preferisce pensarlo come un Buddha o un Gandhi, cioè un uomo santo che ha ricevuto l’illuminazione, ma pur sempre un uomo, come tutti noi. Mia madre invece è atea, ma paradossalmente più coerente di mio padre, perfino più cattolica, nel senso che rigetta tutte queste confusioni sincretiste e non ha simpatia per le religioni orientali, ma soprattutto nutre un profondo e direi innato rispetto per la Chiesa riconoscendo in essa un mistero che lei non è in grado di comprendere. Mia madre è atea nel senso più sano del termine: è un’atea che cerca. Ciò che la turba maggiormente è lo scandalo del dolore e della sofferenza nel mondo, e in definitiva la paura della morte. Come diceva Pascal “Bisogna compiangere gli atei che cercano: non sono infatti abbastanza infelici? Inveire invece contro coloro che ne fanno ostentazione” (Pensieri, n. 190).

Da bambino ho ricevuto i Sacramenti, ma non appena ho raggiunto l’età della ragione, verso i dodici o i tredici anni, mi sono allontanato dalla Chiesa e ho perso ogni interesse per la faccenda.
Sono cresciuto, come dicevo, in un ambiente laico e secolarizzato: dei tanti amici che ho, tutti sono laureati, sani e intelligenti, ma nessuno di loro è credente e nemmeno coltiva un vago e generico interesse per Dio: semplicemente, non gli frega niente. Alcuni bestemmiano, come intercalare. Nessuno intende sposarsi, o in generale a prendere decisioni definitive nella vita. Tutti sono precari e il loro maggiore interesse sono le vacanze e come occupare il weekend. La maggior parte di loro fuma le canne la sera come passatempo. Questo è il mondo dal quale provengo e al quale prima della conversione assomigliavo.

A differenza dei miei coetanei però, fin da adolescente, ho iniziato un cammino di ricerca in modo del tutto autonomo e personale. Questo cammino di grazia è iniziato verso i diciassette anni, sebbene allora non sapessi riconoscere la mano di Dio che già segnava i passi che avrei dovuto compiere. La conversione vera e definitiva è arrivata verso i ventitré anni, mentre frequentavo il terzo anno di filosofia nella laicissima Università degli Studi di Milano e per pagarmi gli studi facevo il guardarobiere di notte in una discoteca. Mi sono convertito mentre stavo dentro la discoteca.

Un paio di anni fa, ormai laureato e già impiegato in un museo d’arte contemporanea come responsabile della logistica, ho sentito però il bisogno urgente e irrinunciabile di approfondire il senso della mia fede e il rapporto personale con Gesù Cristo. Ho cercato su internet il numero di telefono di un convento di frati francescani e sono partito con lo zaino in spalla in pieno inverno (due anni fa esatti) per vivere una settimana di silenzio e di preghiera. Mi sono sentito subito a casa. Il convento che ho trovato è del settecento, semplice e povero, su tutte le porte ci sono incise frasi in latino, i soffitti sono alti e i corridoi freddi, le celle molto piccole e spoglie. Da allora è iniziato il mio cammino di discernimento vocazionale: da due anni, ogni mese prendo il treno e ritorno in quel convento abbarbicato in cima a un colle silenzioso. Voglio molto bene alla fraternità che vi abita: si tratta di otto fraticelli, alcuni anziani altri più giovani, i quali mi hanno accolto, ascoltato, seguito, consigliato, insegnato la Liturgia delle Ore e, sapendo delle mie difficoltà economiche, non mi hanno mai chiesto un euro. Tutto gratis.

Così adesso mi ritrovo a pochi mesi dal prendere una scelta importante e definitiva come quella della consacrazione, e prego il Signore (chiedo anche a Lei e ai lettori una preghiera di sostegno e intercessione) perché possa compiere la Sua volontà fino in fondo, sorretto da quella grazia che non mi ha mai abbandonato, specialmente nei momenti più difficili.

Tra le tante fatiche e momenti difficili che un giovane può incontrare in un cammino di discernimento vocazionale, una buona parte deriva però dalla stessa vita religiosa così come viene interpretata, proposta e testimoniata ai giorni nostri. Nell’ambiente francescano purtroppo è rimasto molto poco di quella tensione alla vita mendicante e contemplativa, insegnata dall’esempio radicale di san Francesco e dei tanti frati minori che nei secoli hanno cristianizzato le terre di mezzo pianeta. Oltre a qualche convento antico, l’abito con il cappuccio e la liturgia delle ore, tutto il resto è diventato insipido, per non dire contraddittorio e fuorviante: i digiuni sono stati sostituiti da dolciumi e piatti abbondanti e prelibati, sotto l’abito quasi tutti i frati portano la camicia e il telefonino, la sera si guarda la televisione fino a tardi, e la predicazione del Vangelo si è ridotta a un catechismo oratoriale che non serve a nessuno. Certo, continuano inesorabili le opere di carità (mense per i poveri, visite nelle carceri, accompagnamenti personali, preghiere di intercessione, ecc.), ma a causa della diminuzione vertiginosa dei religiosi, anche queste attività risentono della crisi attuale. Non ne faccio certo una colpa ai singoli frati, men che meno a quelli che ho conosciuto personalmente, che ripeto mi hanno accolto e ai quali devo alcune delle esperienze di fede più importanti che hanno determinato il mio cammino.

Il problema a parer mio si trova a monte, ed è anche la causa principale del calo vertiginoso delle vocazioni. Negli ultimi due anni, in tutta la Lombardia (la regione nella quale vivo) non c’è stato nessun nuovo postulante. Non uno o due o tre: nessuno. Durante il mio cammino inoltre, i pochi giovani che ho incontrato e che hanno fatto richiesta come me di seguire un discernimento vocazionale (due in tutto, più che trentenni), erano mossi più da problemi personali e psicologici che da una vera chiamata alla vita religiosa, e hanno abbandonato il cammino dopo pochi mesi. La situazione, ripeto, è molto grave e desolante.

I frati minori si rendono conto del problema, ma non sanno o non vogliono vederne le cause. Anzi, se possono, perseverano nel ripetere schemi pastorali sterili e inutili, difendendo le proprie scelte con orgoglio. Credo che la causa di ciò risieda nella formazione che essi stessi hanno ricevuto (o subito) a loro tempo. Ho provato più volte a suggerire un punto di vista diverso, il punto di vista di un “peccatore convertito”, che ha bisogno solo di vivere il Vangelo senza troppi condimenti. Ma ho trovato sempre una forte resistenza anche solo ad affrontare l’argomento. Sembra che l’unica strada da percorrere sia la fantomatica apertura verso il mondo, intesa come un adeguamento di mentalità al secolo corrente: discorsi generici sulla pace che non sanno tenere conto della realtà concreta della guerra, l’accoglienza e l’approvazione di tutte le religioni a discapito della propria, Gesù dipinto come un amico immaginario più che come Redentore personale e universale. Insomma, la costruzione e l’edificazione costante di un mondo fittizio e immaginario, in salsa buonista, che anziché rendere il cristianesimo più popolare e amato, lo corrode dalle fondamenta e riduce in briciole la conoscenza stessa del Vangelo. Così vanno le cose, purtroppo.

Quest’estate sono stato ad Assisi per la festa del Perdono, e ho assistito all’arrivo delle marce francescane di tutta Italia, che tradizionalmente si danno appuntamento davanti a Santa Maria degli Angeli con striscioni e cappellini colorati. Ho potuto vedere in diretta il deprimente spettacolo di frati e suore francescane che ballavano sul palco, agitando braccia e gambe, al ritmo di una musica rockettara con testi di infantile ispirazione cristiana, facendomi ricordare il video che impazzava su youtube qualche anno fa, il tristemente famoso “waka waka francescano”. Poi si stupiscono che i giovani che partecipano alle marce francescane si dimezzano ogni anno.

Potrei fare una carrellata infinita di esempi di questo genere, ai quali ho assistito personalmente.
Nel chiostro del convento che frequento, l’anno scorso, i frati avevano esposto una serie di fotografie per una mostra dal titolo “I colori di Dio”. Non ricordo il nome del fotografo, ma ricordo che le didascalie delle “opere” erano di Carlo Maria Martini. Ogni fotografia raffigurava un momento di preghiera di una religione diversa: una statua d’oro del Buddha obeso, ebrei piangenti davanti al Muro del Pianto, una donna musulmana che legge il Corano, una bambina africana con la croce sul petto, una statua induista colorata e multiforme immersa nella foresta. C’era anche l’immagine di una maschera africana spaventosa, intitolata “Diablo”: insomma, c’era pure la firma. Il tutto corredato da questi miseri discorsi pseudo ecumenici che non vogliono dire niente, se non un vago apprezzamento di tutto ciò che non è cattolico. Meno è cattolico, più è bello. Lo scarso pubblico che ha visto la mostra era formato da qualche anziano pensionato del paesino ai piedi del colle, che ancora frequenta il convento, e gruppi oratoriali portati appositamente con il pullman. Al termine del giro della mostra, dopo aver visionato tutte le fotografie esposte nel chiostro, i partecipanti erano invitati a prendere un pezzetto di stoffa colorato e un pennarello, scrivere una preghiera generica e categoricamente non confessionale, e appenderla a un filo con la molletta, insieme a tanti altri pezzetti di stoffa come panni stesi. Ecco i “colori di Dio”: una confusione totale, il cui unico effetto è di portare avanti l’inesorabile scristianizzazione dei pochi ragazzini che ancora crescono nelle parrocchie.

In quei giorni poi sono arrivati in foresteria una decina di ragazzi e ragazze della mia età accompagnati da un paio di frati giovani, appartenenti al gruppo “pizza e Vangelo” di Pavia (“pizza e Vangelo”, ecco le grandi idee della pastorale giovanile, che dovrebbero attirare gli studenti universitari). Erano tutti ragazzi del sud che studiano al nord: di pavesi manco uno. Hanno visitato la mostra de “I colori di Dio”, poi siccome erano stanchi del viaggio hanno preferito fare un aperitivo in giardino anziché partecipare alla Messa vespertina. Si stanno lentamente scristianizzando anche loro.

La sera, dopo il karaoke, abbiamo deciso di vedere un film tutti insieme: io ho proposto “Uomini di Dio”, che è un buon film e narra la storia vera di una comunità di monaci uccisi dal fondamentalismo di alcuni gruppi islamici armati. Altro che “i colori di Dio” con i testi di Carlo Maria Martini e le statue del Buddha d’oro. La mia proposta non è stata nemmeno presa in considerazione: troppo cristiano, troppo serio, troppo responsabilizzante. I frati invece hanno proposto di proiettare “Tutta la vita davanti” di Paolo Virzì: alla seconda scena di sesso esplicito, mi sono alzato e sono andato nella mia cella a dormire.

Un altro esempio, abbastanza destabilizzante, mi è capitato in un confessionale nella parrocchia della mia città, sempre parlando con un frate. Il quale, dopo avermi spiegato che i peccati che gli avevo confessato non erano poi così gravi, che era una questione psicologica e personale (di fatto, rendendo inutile lo stesso Sacramento della Riconciliazione), ha tenuto a confessarmi che a suo parere l’inferno non esisteva, e se esisteva era vuoto.

Mi fermo qui con gli esempi, sperando di aver dato un’idea generale del clima che si respira in questi tempi di confusione e di smarrimento della fede, e mi soffermo su quanto accaduto pochi giorni fa.

Sono tornato in convento approfittando delle feste natalizie, per riprendere il mio cammino e vivere dei momenti di preghiera e di silenzio, a cavallo dei giorni in cui si festeggia il Capodanno. Per noi cristiani l’anno non inizia il 31 del mese di dicembre, ma il giorno di Natale, o ancor meglio, la prima domenica del tempo di Avvento. L’anno cristiano è anno liturgico e l’evento che ne determina l’inizio è il Bambino Gesù che nasce. Il Capodanno civile invece non ha nessun connotato religioso. Inoltre, si frappone alla celebrazione della Madre di Dio, solennità già mescolata e offuscata dalla “giornata della pace”.

La fraternità francescana non ha fortunatamente organizzato nulla di particolare in merito al Capodanno: nessuna festicciola fuori luogo, nessun karaoke, nessun petardo. Se ne avessi ricevuto notizia, credo avrei posticipato il mio viaggio di qualche giorno. Tuttavia, data la mia presenza in convento e quella di un altro ragazzo, ci è stato proposto verso le undici di sera di cantare l’Ufficio della Madre di Dio in forma vigiliare. Abbiamo accettato con piacere. Ma prima, cioè tra la cena e l’orario stabilito per l’Ufficio, qualcuno ha lanciato l’idea di vedere un film. Ho evitato di suggerire qualsiasi titolo, sapendo che avrei ricevuto in risposta solo qualche sorriso di compatimento: guai a proporre qualcosa in “tema”. Così mi sono limitato ad accettare l’invito senza alcun entusiasmo e mi sono accomodato in una poltrona soffice e comoda in fondo alla saletta tv. Abbiamo visto “Qualunquemente” di Antonio Albanese: novanta minuti di comicità volgare e di oscenità, a tratti divertente, a tratti noioso e scontato: io l’avevo già visto, infatti, con i miei amici, quelli laureati che bestemmiano e non gli frega niente (è il contesto giusto per questo genere di film). Al termine della proiezione ho notato un certo imbarazzo anche tra i frati, che si è accentuato ulteriormente quando abbiamo spento il lettore dvd e ci siamo recati in chiesa per cantare l’Ufficio dedicato alla Madre di Dio. Il contrasto non poteva essere più violento: il passaggio dal motto “più pilu per tutti” all’antifona “Maria meditava tutte queste cose nel suo cuore” era talmente netto che gli stessi frati facevano quasi fatica a cantare.

Al termine dell’Ufficio, i frati più anziani sono andati a dormire, mentre quelli più giovani si sono recati su un terrazzino dal quale si può vedere tutto il panorama della pianura e dei paesi intorno al convento, ansiosi di contare gli innumerevoli fuochi d’artificio fatti esplodere allo scoccare della mezzanotte nelle piazze e nei giardini del mondo sottostante (centinaia di migliaia di euro andati in fumo in pochi istanti, alla faccia della crisi). Io invece, non essendomi ancora liberato del brutto vizio delle sigarette, mi sono ritrovato da solo nel chiostro del convento a fumare, in silenzio. E ho potuto così assistere ad un altro spettacolo, ben più straordinario di quello dei fuochi d’artificio, del quale sono stato l’unico privilegiato spettatore: la luna piena e bianca, nel chiarore e nel silenzio dell’inverno (i botti infatti nel chiostro non si sentivano). E questa immagine magnifica, bianca, sferica, nel bagliore della notte, mi ricordava tanto l’immagine candida della Madre di Dio, la sua presenza costante, materna e consolante, verso la quale avevo appena cantato le mie lodi.

Gli altri, come dicevo, stavano in un’altra zona del convento, su un terrazzo a mangiare pandoro e guardare i fuochi d’artificio. Terminata la sigaretta sono rimasto nel chiostro in silenzio, aspettando che scoccasse la mezzanotte, da solo, in compagnia soltanto di quell’immagine bianca e protettiva. Soltanto dopo ho raggiunto gli altri, quando ero sicuro che lo spettacolo dei fuochi d’artificio fosse ormai giunto verso il termine. Ma appena giunto sul terrazzo, la sensazione di pace e di meraviglia provata fino a pochi istanti prima è stata velocemente sostituita da una desolante sensazione di solitudine e inutilità. Ad un certo punto ho fatto accenno alla luna piena, visibile dal centro del chiostro; ho anche voluto commentare lo spreco di soldi che si stava compiendo sotto ai nostri occhi in mille luci brevi e artificiali. Ma l’ho fatto a bassa voce, sapendo di risultare il solito noioso bacchettone che non sa godersi le cose belle della vita. Poi, senza fare gli auguri a nessuno, sono ritornato nella mia cella, come al solito, a dormire.

Il punto è che io so godermi le cose belle della vita, e forse a differenza di tanti altri ho già sparato mille fuochi d’artificio, ho già passato notti intere e scherzare e ridere sul niente, ho già avuto esperienze sessuali disordinate e inutili da non aver bisogno di guardare film volgari per sapere come si fa. E so che non sono queste le cose belle della vita, anzi, sono le peggiori.

Oggi mi ritrovo più confuso che mai. Ho paura. Oltre a tutte le normali e potenti paure che si possono presentare davanti a scelte così radicali come quella della consacrazione nella vita religiosa, si aggiungono quelle legate a questi vuoti di senso religioso che provocano ulteriore disorientamento.

Quando un giovane si accosta a un cammino di discernimento vocazionale va incontro a una serie di fatiche sovrumane, che solo con l’aiuto della grazia di Dio possono essere contrastate e superate: l’abbandono della vita laica e degli affetti, la resistenza e la pressione di amici e parenti, la scelta della castità, della povertà e dell’obbedienza, in un mondo più che mai lontano da scelte di questo genere. Non solo: c’è sempre l’inesorabile opera del nemico, dell’avversario, che cerca in ogni occasione di insinuare dubbi e tentazioni per farti abbandonare il proposito, colpendo i punti più sensibili e fragili della tua persona.

E tutte queste difficoltà, con le quali è necessario fare i conti se si vuole davvero seguire Cristo, devono essere sostenute e affrontate come dicevo con l’aiuto della grazia di Dio, la quale però non opera come se fosse un vago sentimento interiore, ma ha bisogno di essere incarnata, mediante la fedeltà e la perseveranza della persona in cammino, e contemporaneamente da una comunità di altre anime che prima di te hanno compiuto la tua stessa scelta, le quali con la propria testimonianza e la loro stessa pratica religiosa quotidiana ti aiutano e ti sorreggono nei momenti di maggiore difficoltà.
Per un “peccatore convertito” come me che vive in questo tempo, manca sia l’uno che l’altro sostegno: manca cioè una struttura interiore solida, che ancora non possiedo, e allo stesso tempo una comunità di altri “peccatori convertiti”, che sono morti al mondo e che sono in grado con l’esempio e la comunione di rinfrancare gli animi e i cuori, avendo ben presente la speranza che testimoniano nella propria vita.

Non mi resta altro in questa confusione e in questo deserto che guardare a Maria, l’unica che può ancora adesso generare in questo mondo e nella nostra vita il Salvatore, modellare la mia vita sul suo esempio, e la mia speranza nella sua stessa speranza. Affidare a lei me stesso e tutti noi, i fraticelli, gli amici, gli atei in cerca e perfino mia madre, e sopportare in silenzio le varie difficoltà. E se davvero il Signore mi vorrà in convento, insieme agli altri frati, proverò a testimoniare con umiltà e pazienza il bisogno di Cristo, sapendo che quando il Signore chiama un’anima a Sé, lo fa per raggiungere anche tutte le persone che le stanno intorno.

Offrendo me stesso, come “sacrificio santo e gradito a Dio”, per quanto poco possa valere.

Pace e bene

Stefano A».

p.s.: Più volte, durante la notte, ho trovato mia madre su internet a fare ricerche sulla sacra Sindone, a contemplare dipinti religiosi raffiguranti la Madonna, a leggere la vita di Padre Pio, e mi ha confessato che alcune sere, uscendo dal lavoro (è avvocato) è entrata in qualche chiesa, di quelle antiche, buie e deserte, e si è messa in un angolo in silenzio in attesa di qualcosa.


Blondet:

Cedo l’apertura del sito a questa lettera e al suo autore, così consapevole e limpido della sua vocazione. Personalmente, mi ha sgomentato apprendere che in un convento francescano (o in tutti?) si guardi la tv fino a tardi, e ai giovani ospiti da fuori si proponga il karaoke e un filmetto sporco, come non ci fosse niente di meglio da offrire. Frati che hanno abbandonato il mondo non sono più capaci di quella semplice forma di digiuno che è il digiuno dalla tv, così evidentemente salutare? Non esercitano quella forma elementare di povertà che consiste nel non avere un televisore, un lettore di dvd?

Viene subito in primo piano – e Stefano lucidamente lo indica – il motivo di tanta sconfortante banalità, e degrado spirituale: la dilagante “pastoralità”, ultima risacca del Concilio Vaticano Secondo che si volle solo e tanto “pastorale”, che ha segnato questo tragico rovesciamento: non più Dio, ma l’uomo è divenuto il fulcro dell’azione ecclesiale. Il vecchio catechismo insegnava: Dio ci ha creato per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e goderlo nell’altra in Paradiso. Nella temperie in cui si sviluppò il Concilio, atmosfera di ottimismo antropologico e progressismo venati di marxismo che indicava “la direzione della storia”, quella dichiarazione di radicale servitù dell’uomo da Dio non parve più proponibile. Fu tutto un esaltare “la dignità pressoché infinita della persona umana”, questa perla preziosa della creazione... Il risultato è quello che Stefano descrive.

La perla preziosa si dà al karoke fra le mura di un convento che ha visto generazioni di eroici “servi” di Dio. Prima, si raccomandava come sforzo primario ed essenziale la propria santificazione personale, e solo dopo la “pastoralità”, la ricerca delle pecorelle da portare all’ovile di Cristo. Oggi, a quanto pare, i buoni fraticelli si dedicano più che possono a tale “pastorale”: accolgono i giovani. Lo sforzo di attrarli è evidente; ma a cosa? Al karaoke. A qualche filmetto. A “pizza e Vangelo”. Tutto è così desolatamente sciocco: pizze, karaoke e filmetti sconci li fanno meglio fuori, nel mondo, che in un convento. Non c’è concorrenza. Non capirlo, come pare facciano i buoni e ben intenzionati frati, vuol dire forse che hanno abbandonato la santificazione personale? Lo sforzo ascetico quotidiano, di cui dovrebbero essere “specialisti”, e che solo potrebbe attrarre vere vocazioni? Ma allora, perché stanno lì?

Non so. Ma mi son posto il problema: vale la pena di incoraggiare il giovane Stefano nella sua vocazione, perché poi finisca a dover obbedienza a superiori di quel livello spirituale? D’altra parte, chi sono io per dare questo genere di consigli? La mia personale santità non è sicuramente all’altezza, anzi è – come ciascuno può constatare – molto più in basso di quella di Stefano. Gli ho chiesto dunque il permesso di pubblicare la sua lettera, e farla vedere ad amici del cui parere mi fido.

Stefano mi ha risposto:

«Leggerò con molto interesse le risposte e i commenti di tutti, sia in privato che sul Suo giornale. Anzi, ho proprio bisogno di un confronto ed è per questo che Le ho scritto.
Le confesso che il “pizza e Vangelo” c’è anche nella città in cui vivo, Busto Arsizio, e ogni tanto mi costringo ad andarci. Da noi però si chiama “pasta e Vangelo”. Lo faccio perché dopo aver mangiato la pasta e bevuto cocacola, si legge un brano del Vangelo (quest’anno, quello di Marco) e viene lasciato uno spazio di condivisione. Cerco di approfittare di quello spazio per dire qualcosa di diverso, anche solo raccontando la mia esperienza. È un esercizio faticoso, di pazienza e di equilibrio, ma sta portando i suoi frutti.

È capitato più volte agli incontri di “pasta e Vangelo” che la pasta fosse troppa e avanzasse nella pentola più di mezzo chilo di spaghetti conditi, che venivano senza troppi scrupoli buttati nella spazzatura. Ho chiesto perché la pasta avanzata non potesse essere conservata per la piccola mensa dei poveri del convento (che tiene al massimo 8 poveri), mi è stato detto che non è possibile perché devono tutti e 8 mangiare la stessa cosa, altrimenti c’è il rischio che i poveri si arrabbiano. Volevo suggerire: “perché allora non la mangiate voi frati domani? Anche voi vi arrabbiate se non mangiate tutti la stessa cosa?”. Ho evitato di insistere sull’argomento, e ho chiesto in prestito un contenitore per portare la pasta avanzata a casa mia, dove non si butta via niente”.

Uno degli amici a cui ho posto il caso di Stefano, consiglia che bussi alla porta di gruppi religiosi in vario grado tradizionalisti: come i Frati Francescani dell’Immacolata (casa madre a Frigento) fondati da padre Stefano Manelli. Si ispirano a padre Pio e a san Massimiliano Kolbe e sono antimodernisti per definizione, data la loro forte sensibilità mariana. Oppure la Fraternità San Pio X ad Albano Laziale: sono in contatto anche con ordini tradizionalisti di cappuccini e domenicani in Francia. “Sono tutte persone di grande valore che conosco personalmente e con cui un giovane assetato di santità può fare un grande cammino”.

Ma sono esperienze che Stefano già conosce. E frattanto, ho ricevuto un’altra mail da lui, che risponde alla domanda: incoraggiare la vocazione francescana, visto lo stato dell’ordine che lui stesso descrive?:

“Se davvero avrò la fede e le palle (perdoni il termine) di andare fino in fondo, e scegliere la via della consacrazione, ho già messo in conto di andare a sbattere contro questo muro invisibile che è la “pastoralità” post conciliare di cui abbiamo accennato. Con tutte le sue brutture.

Quest’estate mi trovavo in un eremo sperduto tra le montagne, una piccola baita di pietra senza corrente né riscaldamento, costruita accanto ad una minuscola chiesetta dedicata a san Michele Arcangelo, con un frate (il mio accompagnatore/padre spirituale) e altri tre ragazzi e una ragazza. Lo scopo di quella esperienza era il “deserto”. Secondo il carisma di san Francesco, la mendicità della vita minoritica deve essere alternata a periodi di silenzio e isolamento, dove sperimentare non soltanto il digiuno e la purificazione del proprio rapporto con Dio, ma vivere anche quella dimensione di lotta testimoniata nel Vangelo dalle tentazioni, che Gesù stesso dovette subire prima di iniziare la sua missione. Questo luogo si chiama “deserto”. Inutile dire che non abbiamo vissuto niente di tutto ciò: il silenzio è stato ridotto a poche ore di meditazione pomeridiane, con quadernetto e penna dove scrivere le proprie riflessioni, da condividere poi la sera; il digiuno invece l’abbiamo fatto un solo giorno, soltanto a pranzo, ma chi voleva poteva comunque mangiare un panino e della frutta, naturalmente dopo una colazione abbondante; durante il resto della settimana invece ci siamo alternati in cucina a pranzo e a cena per essere sicuri che tutti mangiassimo in abbondanza, fino alla grigliata di carne conclusiva il giorno prima della partenza. Le risparmio ulteriori dettagli.

Fatto sta che quello che più mi infastidiva in quei giorni, non era tanto un “deserto” vissuto mangiando e chiacchierando fino a notte fonda (un sera abbiamo giocato a carte). Quello che più mi metteva a disagio e che quasi facevo fatica a sopportare, erano le canzoncine da oratorio suonate con la chitarra durante la Messa. Le lascio immaginare la situazione: una chiesetta spoglia, povera, con le panche di legno divorate dai tarli e un piccolo altare di pietra grezza; il silenzio assoluto delle montagne e luce chiara e limpida che filtra da una finestrella laterale; un’icona dedicata a san Michele Arcangelo e una crocifisso di san Damiano; quattro ragazzi seduti a semicerchio appena sotto l’altare; nostro Signore che si offriva nel pane e nel vino in un’intimità difficilmente sperimentabile nelle chiese di città. Bene. Prima della Messa uno dei ragazzi che era con me aveva l’incarico di scegliere i canti (selezionandoli dal solito libretto di canzoncine fotocopiate, portato appositamente dalla città). Quando eravamo pronti, attaccava con una chitarra scordata il canto d’ingresso, che gli altri miei compagni di viaggio compreso il frate conosceva già a memoria. Melodie scontate e testi da rimbambiti. Io mi rifiutavo di cantare: non solo perché non conoscevo nessuna canzoncina da oratorio, ma perché frasi del tipo “quello che farò sarà soltanto amore” oppure “resta con noi Gesù, dentro il nostro cuore”, e via dicendo, urtano profondamente il mio animo e rompono quella contemplazione semplice e devozione immediata, che non ha bisogno di fare rima con cuore-amore-emozione. E il vedere con quanta passione gli altri seguivano quelle parole, in particolare il frate di fronte a noi con l’abito sacerdotale, non faceva che aumentare a dismisura il mio disagio. Anche l’Alleluja prima del Vangelo o il Santo prima della liturgia eucaristica erano supportati dallo strimpellare stonato della chitarra.

Devo confessarle che io suono la chitarra da quindici anni, e sono capace di accordarla a orecchio in pochi secondi. Più volte mi è stato chiesto di suonare: ma il mio rifiuto è sempre stato netto. Non ho voluto nemmeno toccarla. Durante il giorno, nelle inutili chiacchierate dopo pranzo e dopo cena, ho provato a condividere questo mio disagio, a spiegarlo con tutta la pazienza di cui sono capace. Ma non c’è stato niente da fare: mi guardavano come si guarda un ritardato, uno da prendere in giro bonariamente e da compatire, con la speranza che un giorno potrà cambiare e conoscere la bellezza delle rime cuore-amore-emozione. Ho parlato anche del canto gregoriano, un tesoro di inestimabile valore, che è veramente un canto liturgico, con monodie che accompagnano perfettamente la tensione contemplativa senza bisogno di chitarra né di battere le mani a tempo, e conducono l’attenzione là dove essa deve spingersi, cioè verso Dio, con parole che anche se in latino nessuno ha mai fatto fatica a comprendere, nemmeno quando l’analfabetismo era largamente diffuso.

Non c’è stato niente da fare. Anzi, la mia passione per il latino era sintomo di qualcosa ancora da purificare, non in sintonia con la semplicità e l’umiltà francescana, che al Te Deum preferisce “Te al centro del mio cuore” (il ritornello: “Ho bisogno di incontrarti nel mio cuore, di trovare te, di stare insieme a te....”): una pappetta dolciastra che non significa nulla.

Il vero problema di questi canti è che anziché mettere Gesù “al centro del nostro cuore” mettono in realtà semplicemente noi stessi: sono musiche che, indipendentemente dalla scarsissima qualità artistica e letteraria di chi le ha composte, cantano la nostra bellezza più che la Sua, le nostre emozioni più che le Sue, la nostra felicità più che la Sua santità. Quello che mi metteva a disagio, in definitiva, era osservare con quanto autocompiacimento gli altri cantavano se stessi, quasi che avessero nostalgia della propria infanzia oratoriale, frate compreso.

Arrivo al punto. Questo disagio mi ha seguito per tutti i giorni. Mi dicevo: se entrerò in convento, dovrò cantare queste canzoni anche io. Non solo in chiesa, magari durante le Messe più frequentate, ma anche durante i giorni feriali, nelle Messe conventuali a porte chiuse. È impressionante rendersi conto come un aspetto che sembra così secondario (come le canzoni di chiesa) sia in grado di mettere in crisi una vocazione.

Fatto sta che l’ultimo giorno ho capito una cosa. E quando l’ho capita, ho iniziato a cantare anche io quelle canzoni, e l’ho fatto con leggerezza e con piacere. Ho capito che se il Signore si degnava di farsi Pane e Vino in un contesto del genere, tutti i giorni, nonostante queste brutture inutili e gratuite, non limitate certo alle canzoni ma allo stesso impianto della Messa di rito ordinario, allora io non potevo permettermi di disprezzare il contesto al punto da voler andare via. Se Lui compiva ugualmente il miracolo di farsi presente, io non potevo essere assente.

Se voglio stare con Lui, devo stare dove sta anche Lui. Insomma, mentre gli altri cantavano con gli occhi a forma di cuoricino, io vedevo improvvisamente il Signore solo, a disagio come me, in attesa come me che finisse quel canto stonato, abbandonato più che dall’indifferenza del mondo anche dalle mille distrazione dei suoi. Eppure, Lui, il Signore, non ha mai smesso di essere presente, di offrirsi a modo suo: cioè senza alzare la voce, senza protestare, umiliandosi. E questa visione, mi ha riempito il cuore più di tutti i canti gregoriani messi insieme.

Quello che voglio dire è che bisogna stare nel mondo, pur non essendo del mondo. E se il mondo ha invaso i conventi, gli oratori, le parrocchie, perfino gli eremi sperduti tra le montagne, questo non giustifica un nostro rifiuto. Per questa ragione non sono un lefebvriano e non potrò mai diventarlo, né ho mai pensato fino ad oggi di accostarmi a qualche altro Ordine o Istituto. San Francesco ha riparato la casa del Signore, non ne ha costruita un’altra. Si è beccato insulti dalla famiglia, ha vissuto in solitudine, è stato abbandonato in carcere, si è sentito incompreso come un lebbroso: e ha vissuto tutto questo con gioia. Lui la chiamava “perfetta letizia”.

Pace e bene.

Stefano»


Dunque, Stefano ha sciolto il nodo. E credo, nel modo migliore: umiltà e povertà, oggi, è anche accettare una Chiesa karaoke. Lo segue la mia preghiera e la speranza che Gesù l’abbia scelto e lo chiami a “riparare la mia Casa”, come disse a San Francesco.

Il caso sarebbe chiuso. Ma ho poi ricevuto la lettera di un altro amico, Enrico G.; anche a lui – che come vedrete non è cristiano – avevo posto la questione: è da incoraggiare l’entrata di Stefano in convento?

Ecco la risposta di Enrico:

«Sì, è il caso di rafforzare il suo proposito, se con questo s’intende seguire una “via” in maniera rigorosa e sincera. Poi, che la sua particolare “via” sia quella di quel particolare monastero con quei particolari “superiori”, non lo so. Questo per dire che di fronte a certe “delusioni” (che vengono sempre dopo le “illusioni”), non si deve franare completamente o indietreggiare schifati, né rinchiudersi in un solipsismo controproducente.

Nella “via” che seguo io si usa dire: “Tarîqatu-nâ as-Suhba wa l-khayr fî l-jam’iyya”, che tradotto alla buona significa “la nostra ‘via’ è il ‘compagnonaggio’ [curioso, ma non troppo] ed il bene sta nell’associarsi (nello stare insieme)”. Questo per dire che anche nel Tasawwuf – che, lo ricordo, è il cuore dell’Islam, nella persona dei suoi ”maestri”, senza il quale tutto va a rotoli, non essendovi “chiesa” con relativa gerarchia – s’insiste particolarmente sulla necessità di “camminare assieme”, sia perché così è più facile (si pensi ad un’ascesa in cordata), sia perché c’è sempre da imparare dagli altri (anche in negativo), sia perché da soli si rischia di prendere delle cantonate (le illusioni dell’ego), sia perché il “maestro”, lo shaykh, considera tutti suoi “figli” (e per definizione i figli sono tutti uguali davanti ad un padre).

Poi va detto che nella “via” islamica, benché siano contemplati periodi di ritiro, fino a quello davvero molto duro, di quaranta giorni, non è previsto il monachesimo (cosa che saprà già). Cioè, ognuno se ne sta a casa sua, o se preferisce si crea una “comunità” in qualche luogo protetto, ma comunque ci si sposa e si hanno figli. Ora, sinceramente, non so se privarsi anche di questo sia una cosa auspicabile. Diverse “vie” lo prevedono, quindi sarà una questione di opportunità. È vero senz’altro che, com’ebbi occasione di notare frequentando un ordine religioso cattolico, c’è un rapporto “irrisolto” col “mondo” da parte di chi, per usare le parole del ragazzo, non è un “peccatore convertito”. Chi non ha sperimentato nulla non sa nulla, nel bene e nel male (il che è ovviamente cosa diversa dalla cosiddetta “via della mano sinistra” e simili!).

Ma siccome il ragazzo ha scelto la via del monachesimo francescano, bisognerà che si adegui, altrimenti starà solo male. Cosa gli si può dire? Intanto, che se sente davvero di avere una “marcia in più”, con tutta l’umiltà del caso, starà a lui essere di sprone e d’esempio per i suoi fratelli, che mica sono tutti dei novelli San Francesco! Poi, sicuramente, c’è anche da dire che sottostare a determinate prove di “pazienza”, compresa l’obbedienza ad un superiore ritenuto “inadeguato” è pur sempre un insegnamento spirituale. Se non è del tutto irrecuperabile, saprà comprendere chi ha davanti: ha visto quel bellissimo film, “Ostrov - L’isola”, sulla spiritualità ortodossa?

Poi, va detto che quel che si pretende da noi stessi non lo si può pretendere da tutti gli altri. Questo l’ho imparato col tempo. Io ad esempio so l’arabo e so “un sacco di cose”, ma non si deve confondere la “via” con un’accademia di “eruditi”. Per l’erudizione c’è una marea di posti in cui sfogare il proprio ego.

Parlando per me, non me la sentirei - o meglio non me la sarei mai sentita (perché con moglie e bambino sarebbe una cosa irresponsabile!) - di chiudermi in un convento. Per come la vedo, è una “rinuncia” troppo grossa, e non perché la rinuncia non ha senso, anzi, ma perché non vedo quel tipo di rinuncia adatto alla nostra natura profonda (la fitra, “la natura connaturata”: si dice che Allâh fatara l-insân, cioè l’ha creato con una sua natura profonda), che comunque, fatti salvi periodi più o meno lunghi di distacco dal mondo, è sociale e comunitaria. E poi “il mondo” non è solo qualcosa da rifuggire come la lebbra! Altro detto sufi: “al-khalwa fî l-jalwa”, che pressappoco significa “ (praticare) il ritiro nella mescolanza (con gli altri)”, dove per “altri” s’intende tutti, ma proprio tutti, non dei pretesamente “uguali” animati da “uguale” tensione. Per questo poi si prendono delle ‘scottature’... perché “uguali” non siamo!

Di certo c’è che se uno si vuole dedicare anima e corpo al “lavoro” interiore, il monastero è la condizione più ottimale: distrazioni zero, perdite di tempo zero, tentazioni (ordinarie) zero. Ma poi, siamo sicuri che non s’insinuino altri problemi in quella che si credeva una “oasi protetta”? Pare di sì, a leggere questa profonda lettera.

Dunque, una risposta certo non gliela darò, ché la questione, esistendo da quando mondo è mondo, è sempre aperta, ma se proprio un consiglio glielo devo dare è di non scoraggiarsi, di tenere sempre dritta la barra senza adagiarsi come magari fa chi s’è abituato alla vita in convento, e, soprattutto, di essere “misericordioso” nei confronti del prossimo e dei suoi “limiti”. La Rahma (da cui i due nomi ar-Rahmân e ar-Rahîm, della stessa radice di “rahim”, utero), guarda un po’, è una delle più grandi qualità ‘divine’ che il mutasawwif (non un sûfî, come erroneamente spesso scrivono) deve puntare a realizzare nel suo cammino.

Un’ultima cosa: in un certo senso, se la “porta del Paradiso” è stretta, le “vie” sono tante quante sono gli esseri, quindi diciamocelo francamente: è vero che si deve seguire una via regolare, sotto il controllo di un maestro che a sua volta ha ricevuto il suo “carisma” da una catena ininterrotta di suoi pari che giunge alla “fonte”, ma alla fine la “realizzazione spirituale” è qualcosa d’insondabile e d’inesprimibile, che non può essere ridotta né ad un “tecnicismo” (qui sta secondo me il rischio del “guénonismo”) né ad un qualsivoglia “metodo” o “atteggiamento spirituale” prestabilito per tutti quanti indistintamente.

La ringrazio molto per aver condiviso questa bella testimonianza, su cui ovviamente manterrò il più stretto riserbo.

Che il Signore guidi questo giovane e perdoni noialtri se gli avremo dato dei consigli sbagliati.”

Enrico G.»


Una storia che mi è parsa troppo bella, importante e ricca di insegnamenti perché restasse privata. La offro a voi lettori, e alla vostra riflessione.

Maurizio Blondet




 
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