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San Giuseppe da Leonessa: «L’ammazza compagni»
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Leggendo la lettera che Stefano A. ha scritto al direttore Maurizio Blondet, mi sono sentito veramente colpito dai dubbi, dalle perplessità, dal travaglio che questi giovane pativa e doveva sopportare. Ho già scritto altri articoli su santi francescani, tutti molto attratti dalla regola e molti tra loro addirittura «chiamati» da San Francesco stesso a seguirlo e ad entrare nell’Ordine senza esitazioni. Così fu per San Bernardino da Siena, per San Giovanni da Capestrano, San Giacomo della Marca.

Oggi, caro Stefano A., voglio proporti la figura di un altro piccolo gigante del francescanesimo: San Giuseppe da Leonessa. Vedrai che le difficoltà, gli ostacoli, le resistenze ed in ultima analisi i dubbi, non sono mancati sulla via stretta dell’entrata nell’Ordine e nell’opera al suo interno. Questo ti deve consolare, ma soprattutto dare la serenità di scegliere la tua via, che nonostante tutte le difficoltà, mi pare ti sia ben chiara.

È mercoledì 8 gennaio 1556 quando a Leonessa vede la luce Eufranio Desideri il terzo di otto figli di Giovanni Desideri e Francesca Paolini, i suoi genitori sono molto «timorati di Dio» che accolgono i figli come un dono della Provvidenza ed un benedizione. Giovanni Desideri tiene un libro di famiglia, ed alla data dell’8 gennaio scrive con calligrafia tremante: «Oggi mi è nato un figlio, Eufranio, Dio lo benedica come lo benedico io». Pensandoci bene solo la luce della fede può far accettare da parte dei genitori un terzo un quarto, addirittura un ottavo figlio e considerarli tutti benedizioni del Cielo.

Riceve il battesimo quasi subito, forse lo stesso giorno della nascita, come era consuetudine in tutte la famiglie di allora sia povere che agiate. San Padre Pio un giorno doveva celebrare un battesimo e, come spesso succede, i genitori erano in ritardo: lui era nervosissimo e quando finalmente i familiari arrivarono, li rimproverò aspramente. Davanti alle giustificazioni che in fondo erano in ritardo solo di una ventina di minuti il santo di Pietrelcina gridò che loro non potevano sapere quello che voleva dire lasciare la creatura venti minuti di più in mano a satana.

Al momento del battesimo gli fu imposto il nome di Eufranio che vuol dire portatore di gioia.

Grazie a questa famiglia che fin da subito lo educò cristianamente, il piccolo Eufranio, già in tenerissima età manifestò i segni di una divina predilezione. Un giorno mentre dormiva insieme alla madre, questa, nel sonno, gli si era buttata sopra senza volerlo. Si senti arrivare un «mostaccione» fortissimo e credendo che fosse stato il marito la povera donna protestò, ma lì accanto a lei suo marito Giovanni non c’era. Siccome la botta ricevuta gli faceva male assi fu chiamato il medico il quale le disse che una cosa del genere la poteva aver data soltanto uno spirito, in quanto la posizione che aveva assunto avrebbe di certo soffocato il bambino. Dai genitori imparò anche a mortificarsi e questo come un naturale completamento della preghiera e della frequentazione della chiesa: anche se non aveva ancora l’età giusta entrò nella confraternita di San Salvatore rispettandone sempre scrupolosamente gli statuti e digiunando tutti i venerdì e le vigilie delle feste della Madonna; mantenne questo modus agendi per tutta la sua vita.

Purtroppo questo bambino che diceva le preghiere chiuso in camera, digiunava e frequentava la Chiesa ebbe un’adolescenza segnata dalla morte precoce di entrambi i genitori avvenuta a causa di una delle ricorrenti epidemie che costellavano quel tempo. Il contraccolpo per lui fu un immenso dolore ed un gran senso di solitudine che lo attanagliò del resto ritrovarsi a soli quattordici anni privato di entrambi gli affetti più consistenti della vita non poteva che causare questi effetti collaterali davvero deleteri. Iniziò per lui anche un calvario di disagi, malattie, ingratitudini umane e penitenze, un vero martirio. Agli otto orfani venne incontro lo zio paterno Battista che era professore di lettere a Viterbo il quale portò con sé Eufranio e lo adottò addirittura come figlio. Nella città laziale lo zio gli fece da maestro nelle discipline letterarie scientifiche con dei risultati davvero sorprendenti Era stimato ed ammirato da tutti per il suo spiccato ingegno e intelligenza oltre che per la proprietà di linguaggio con la quale si esprimeva, ma che accompagnava con un raro senso di modestia. Se la sua crescita culturale era palese, più nascosta restava quella spirituale che metteva a frutto seguendo quegli insegnamenti di base molto importanti ricevuti dai genitori naturali. Un giovane così completo e pieno di lati positivi non poteva non attirare l’attenzione in città, come si suol dire era un gran bel partito per chi aveva delle ragazze da maritare. Il padre di una onesta e ricca fanciulla chiese allo zio di poter unire in matrimonio sua figlia con quel suo così attraente nipote, lo zio, come era costume de tempo, senza chiedere il parere di Eufranio accettò, ma si vide opporre, da questo, un netto rifiuto: si sentiva chiamato da Dio ad una vita di preghiera, di penitenza e di donazione di se stesso soprattutto nei confronti dei più bisognosi e poveri. Ovviamente lo zio cercò di dissuaderlo con ogni mezzo e dal farlo recedere dalla sua decisione, ma invano: Eufranio, per raggiungere il suo scopo, aumentò le preghiere e le penitenze. Qui si manifestò un altro segno del cielo: all’improvviso si ammalò di una strana malattia che aveva degli aspetti misteriosi e fu costretto, per recuperare la salute a tornare a Leonessa e qui poté recuperare le forze fisiche. Ma aumentare anche quelle dello spirito, lo zio lo mandò a completare gli studi a Spoleto. Nella città umbra ebbe la possibilità di considerare meglio la sua vocazione e si senti attratto fortemente dall’Ordine dei Frati Minori Cappuccini che era sorto da poco ed era l’Ordine più austero ed anche più vicino al popolo ed alle sue esigenze e sofferenze: era il 1572. Del resto fin da piccolo era rimasto impressionato da alcuni frati che, nonostante i rigori dell’inverno scalzi, costruivano il convento di Leonessa. Ormai assodato che la sua vocazione era profonda e ben radicata e che il suo desiderio era di farsi frate Cappuccino, dopo aver incontrato il Padre provinciale dell’Umbria presso l’eremo di sant’Anna di Spoleto, si recò ad Assisi presso l’eremo delle Carceri che sta nella parte occidentale del Subasio. In questo posto San Francesco soleva ritirarsi e passare in meditazione e preghiera intere giornate, spesso accontentandosi di dormire sulla nuda terra e rinchiuso in una piccolissima celletta. Iniziando in questo luogo simbolo del francescanesimo il suo noviziato, cambiò il suo nome e divenne Fra’ Giuseppe da Leonessa.


Panorama di Leonessa


Come vede e vedrà ancora più avanti, caro Stefano erano sì altri tempi per quanto riguarda il mondo dei francescani e delle vocazioni in generale, ma le difficoltà e gli intralci non mancavano di certo anche, perché allora come oggi, la vita mondana continuava a voler imporre alle persone le sue regole ed i suoi dettami: c’è e c’era sempre qualcuno che voleva imporre la propria volontà non tenendo minimamente conto della peculiarità, della diversità e della dignità di ogni essere umano!

Il Noviziato di Fra’ Giuseppe fu turbato dai ripetuti tentativi dei parenti di distoglierlo dal suo cammino: per ben tre volte si recarono ad Assisi per cercare di strapparlo dal Convento e ricorsero addirittura alla forza per imporgli l’abbandono: Il prezzo che dovette pagare fu altissimo: sia lo zio che i fratelli ed altri parenti si vergognavano loro benestanti, di avere un congiunto che aveva scelto la povertà più assoluta e per questo non vollero più sentir parlare di lui per un lungo periodo: era come se fosse morto al mondo!

L’8 gennaio 1573, il giorno del suo diciassettesimo compleanno, terminò il noviziato e pronunciò i voti; iniziarono gli anni di preparazione al sacerdozio anni in cui visse i suoi voti con grande adesione alla regola e con completa interezza ed a Spoleto attese agli studi con massima diligenza: quella era la sua vita e la sua strada! A rafforzare e confermare le sue scelte accade un fatto straordinario: un suo confratello Fra’ Girolamo da Visso, con il quale era vissuto in piena armonia ed amicizia, morì all’improvviso e gli apparve in sogno. Il defunto gli disse che lui si era salvato per grazia di Dio, ma che era estremamente facile perdersi e la via della salvezza era davvero difficile.

Queste parole lo avevano lì per lì turbato, ma invece poi diventarono di stimolo e gli parvero un atto dell’amore che Dio aveva per lui e che il Padre Celeste lo voleva santo sacerdote, portatore e mezzo di diffusione della santità in mezzo alla gente. Di ciò troviamo traccia nella sua «orazione programmatica» che precedette la sua ordinazione e che scrisse a Perugia nel 1580: in essa si offre totalmente a Dio come suo schiavo, gli chiede perdono delle negligenze commesse e lo ringrazia del bene che Egli gli ha concesso di poter fare. Finalmente terminati gli studi a 24 anni fu ordinato sacerdote il 24 settembre 1580 ad Amelia, ora poteva finalmente realizzare il comando evangelico «Andate e predicate il Vangelo a tutte le genti»; il pulpito ed il confessionale, da quel momento, divennero le sue più grandi passioni. Il grande amore per la Chiesa lo spinse a lavorare per impedire il diffondersi dell’eresia protestante in Italia: il 21 maggio 1581 il generale dei cappuccini gli concesse la facoltà di predicare su tutto il territorio nazionale.

Poco dopo si trovava ad Arquata del Tronto: ebbe la ventura di incontrare ben quaranta banditi; appena li vide ebbe subito l’impulso di convertirli, parlò loro con molta dolcezza non considerando quanto potessero essere pericolosi, li convinse ad entrare in chiesa. Una volta entrati chiuse le porte, alzò il crocifisso che portava sempre nel cordone e con quello tra le mani rivolse loro una predica infiammata: tutti si convertirono e cambiarono vita tornando alla normalità. Gli abitanti del paese ritennero questo fatto un vero miracolo come ricorda anche un suo futuro confratello, allora ragazzino il quale fu incaricato dal Santo di comprare le corone del rosario che regalò ai banditi.

Come sempre lo zelo, l’entusiasmo e la determinazione delle proprie azioni si concretizzano in frutti insperati: forse oggi tutto ciò manca e la figura del sacerdote è diventata più quella di un assistente sociale che di un religioso che si è donato totalmente e Dio e sia le crisi vocazionali, sia la determinazione missionaria sono sparite quasi del tutto ed i risultati on sono certo quelli sperati: Dio del resto si serve delle nostre mani e delle nostre azioni per far trionfare la su volontà.

Un’altra piccola riflessione s’impone: i francescani una volta portavano sempre con se il Crocifisso: quando predicavano lo brandivano e lo innalzavano sopra i fedeli e da esso sicuramente sprigionava una forza ed un’intensità di bene che si riversava su tutti. Il Crocifisso teneva in mano San Bernardino da Siena, quando «chiarozzo chiarozzo» predicava dai pulpiti di tutta Italia, il crocifisso teneva in mano e contemplava in continuazione San Giacomo della Marca quando tuonava contro l’usura, e la croce brandiva come un’arma letale San Giovanni da Capestrano sulle mura di Belgrado contro i Turchi. Sempre il Crocifisso levato al cielo da San marco d’Aviano dava forza e slancio alle truppe cristiane che combattevano i Turchi sotto le mura di Vienna. Amaramente devo chiedervi: vedete oggi un francescano brandire la croce e portarla attaccata alla vita? Va bene quando, oggi, questi brandiscono una chitarra per strimpellare qualche sgangherata melodia. Ho avuto la fortuna, in età tenera, di sentire il coro dei frati che nella basilica inferiore di Assisi, cantavano il mattutino della Vigilia di Natale, con il camauro alzato e con una dolcezza da coro angelico: vi assicuro che in quel momento, intorno a quell’altare, mentre l’ostia si alzava tra il tremolio delle lampade ad olio c’erano San Francesco e tutti queste altre grandissime figure di santi!

Missionario a Costantinopoli

San Giuseppe ad un certo momento sentì forte l’impulso a seguire l’esempio di Frate Francesco e dipartire missionario per portare conforto ai prigionieri e schiavi cristiani in Turchia e sperando di poter convertire sia i mussulmani sia lo stesso Sultano.

Il primo agosto del 1587, senza avvisare i parenti, raggiunse Venezia dove s’imbarcò per Costantinopoli insieme a d un confratello Fra’ Gregorio da Leonessa portando con sé solo il saio che aveva indosso ed un asporta nella quale aveva messo alcuni libri di predicazione, il breviario e l’inseparabile Crocifisso. La navigazione fu piena di rischi e di disagi: scoppio una violenta tempesta, che lo vide concentrarsi nella preghiera con tanta concentrazione e fervore: il mare si placò ed un uccello bellissimo e pieno di colori si posò sull’albero della nave e cantò con un soavità tale che tutti i marinai ne restarono commossi e sorpresi.

Quando giunsero a Costantinopoli i due missionari non sapevano dove andare, nessuno, ovviamente, aveva avvertito che sarebbero arrivati; anche qui si manifestò un altro prodigio. San Giuseppe, mentre pregava intensamente, vide comparirsi dinnanzi, all’improvviso, un suo nipotino morto quando aveva sette anni il quale lo condusse fino alla Madonna Santissima di Costantinopoli e poi sparì.

La sofferenza che patì nella capitale turca è indicibile: si doveva misurare ogni giorno con gente infedele e corrotta, quattromila erano gli schiavi cristiani che lavoravano in condizioni disumane nel Bagno penale. Con loro divise le sofferenze, il cibo e portò loro la carità ed il conforto della parola di Dio cercando di alleviare per quanto possibile le loro sofferenze; le sue parole li commuovevano fino alle lacrime, curava le loro piaghe infette e a chi spossati dalle sofferenze erano tentati di abbandonare la fede cristiana dava sostegno e una grande speranza. Quando scoppiò la peste due missionari morirono e, nonostante avesse contratto il morbo, restò solo con Fra’ Gregorio nel campo di lavoro. La sua attività si estese anche ai mussulmani ai quali predicava nei crocicchi delle strade e dove li vedeva radunati: ricondusse alla fede un vescovo greco che aveva abiurato la fede ed era stato addirittura nominato Pascià. Spinto da questo esaltante risultato iniziò a pensare di convertire il Sultano Murad III e almeno poter ottenere la libertà religiosa per coloro che si convertivano al cristianesimo o tornavano a riabbracciare la fede di Cristo: per questi era prescritta la pena dio morte. Dopo aver fatto vari tentativi un giorno riuscì ad arrivare fino all’anticamera del Sultano: bloccato dalle guardie davanti alla porta del cortile, fu malmenato a sangue e poi imprigionato in attesa della condanna a morte. In sé godeva per essere stato degno di morire per Cristo e per di più alla sua stessa età di 33 anni. Il supplizio al quale fu condannato era davvero crudele: fu appeso ad un gancio per una mano ed un piede e poi fu affumicato con della paglia umida accesa, fino a quando non fosse morto o per soffocamento o per infezione tetanica. Nonostante tutto continuava gridare la sua fede e di carnefici per non sentirlo erano costretti a fare strepito con i tamburi e a raddoppiare il fumo nella speranza che morisse presto. Arrivata la notte quando era arrivato al massimo del patimento, comparve un «giovinetto» che lo spiccò da quel gancio, gli toccò le ferite guarendole, gli diede del vino e del pane: la vita rifluì, immediatamente, nelle sue membra ormai fredde e quasi più senza vita. A quel, punto il »giovinetto» gli ordinò di tornare il Italia per continuare predicare il Vangelo in quanto la sua missione lì era terminata. Rivide la sua amata Leonessa alla cui aria ritrovò completamente a salute e la forza.

Missionario in Italia

Ovviamente la fama delle sue gesta in Turchia si spanse su tutto il territorio. Dopo aver adeguatamente riacquistato le forze tornò subito alla sua vita di penitenza, di digiuno e di povertà ed umiltà assoluta. Proverbiali erano le sue quotidiane mangiate di fave secche, un cibo che i contadini più poveri dividevano ogni giorno con le proprie bestie

I superiori ritenutolo guarito, lo destinarono all’incarico di evangelizzare l’Umbria e le Marche: salta subito all’occhio una cosa, ma forse che l’Umbria e le Marche non erano cattoliche? Sicuramente sì è l’ovvia risposta, nonostante tutto si sentiva la necessità di dare la possibilità di crescita a tutti soprattutto ai peccatori che allora, come oggi, erano numerosi e che spesso erano dei cristiani «tiepidi», non è che sia cambiato molto nella vita delle persone. Oddio qualcosa è cambiato, l’abbandono di tutte quelle pratiche e quei mezzi che venivano fornite alla gente per convertirsi o crescere nella fede: ma che diammine oggi non siamo mica più dei bigotti che vivevano un tempo oscurantista, siamo, per fortuna dei cristiani maturi, cioè degli allocchi felici e contenti, ma che non hanno più bisogno di evangelizzazione «permanente»!


San Giuseppe doveva spostarsi di frequente e con qualsiasi tempo neve, acqua o sole cocente. Testimoni degni di fede raccontano che leggeva di notte il breviario sotto la pioggia, al buio, ma circonfuso di una luce particolare e senza bagnarsi. (1) Altri raccontano che parecchie volte attraversò, incolume, torrenti impetuosi ed in piena stendendo sui gorghi il suo mantello; una volta sul fiume Tronto, vicino ad Arquata (2), un’altra, invece, sul Maroggia, nei pressi di San Giacomo di Spoleto.

Le sue prediche erano sempre soavemente consolatrici ed estremamente feconde e quando il Santo teneva alto il Crocifisso, parlando della passione di Gesù, le lacrime riempivano gli occhi di tutto l’uditorio. Pur prediligendo parlare tra la gente semplice, umile e disdegnando i pulpiti celebri e famosi, predicò su ordine dei suoi Superiori, anche in cattedre famose come quelle di Spoleto o di San Ruffino, il duomo di Assisi, dove predicò nel periodo di avvento del 1589, appena ritornato da Costantinopoli, ottenendo un grande successo: proprio per questo chiese ai Superiori di non farlo più predicare in quei pulpiti e di mandarlo nei paesi scomodi e disagiati in mezzo alla gente bisognosa e trascurata. Spesso andò tra le montagne abruzzesi ed umbre per raggiungere i pastori che, per lunghi mesi, vivevano fuori dal consesso civile e dai centri abitati.

Quando teneva i corsi di predicazione ai confratelli, dormiva pochissimo e sempre sulla nuda terra; una volta volle raggiungere di notte al buio completo Camerino da Verchiano di Foligno insieme a dei confratelli che consolava dicendo che avrebbero trovato una stalluccia dove poter riposare un po’. Il tutto accompagnato, soprattutto durante la Quaresima, da un pugno di fave lessate e senza condimento, o poco pane nero e qualche cereale. In quei periodi passava le notti flagellandosi ed era incredibile come il suo fisico potesse sopportare un tipo di vita così massacrante. I confratelli che erano «costretti» ad accompagnarlo in queste massacranti maratone quaresimali, in cui riusciva a tenere anche otto prediche al giorno, gli affibbiarono il nomignolo di «ammazza compagni».

Penso che il nostro giovane aspirante francescano tragga nuova linfa dal leggere queste cose e sia in grado di imitare ed affrontare serenamente le prove che lo attendono entrando nell’Ordine: starà a lui solo, di poter mettere in pratica quello che si sentirà di poter «sopportare e patire» imitando queste figure gigantesche dell’Ordine. Sarà sicuramente da stimolo e da esempio e si sa, l’esempio è contagioso e benefico per tutti: non credo che troverà dei Superiori così ottusi da biasimarlo o da imporgli di cessare certi atteggiamenti e certe penitenze, perché «sconvenienti», in questo caso ricordi Stefano che prima che ai superiori, deve obbedienza a Dio, davanti al quale San Francesco intercederà facendosi suo testimone! In fondo Gesù non ha salvato l’umanità attraverso l’immane sofferenza della croce? L’austerità di vita è o non è testimonianza palese del proprio distacco dalle cose terrene? Quindi di che può aver timore il nostro giovane amico? Di farsi Santo? Non credo certo: cammini spedito per la sua strada seguendo l’imitazione di Cristo: se sarà redarguito, punito, angariato ricordi sempre: «Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena m’è diletto» come diceva in continuazione San Francesco!!!

San Giuseppe da Leonessa non perdeva mai di vista la carità che con l’umiltà e la povertà lo spingeva sulla strada stretta ed aspra della santità: mai perdeva di vista le parole di San Paolo: « Mi sono fatto debole con i deboli … mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare tutti a Cristo». Ma soprattutto si rivolgeva con particolare attenzione ai più poveri, ai sofferenti, a coloro che subivano ingiustizie vedendo in essi il volto di Gesù: quando era a Costantinopoli si prese cura degli appestati contraendo anche lui stesso la malattia; passava settimane in mezzo ai carcerati ed addirittura scoperto, fu associato a loro e fu liberato soltanto grazie all’intervento dell’ambasciatore della Serenissima che veniva tenuto in grandissima considerazione dalla Sublime Porta.

Quando arrivava in un convento la sua preoccupazione maggiore era quella di mettersi subito al servizio degli ammalati, che accudiva con grande impegno spazzando la loro cella, rifacendo i letti e consolandoli con la sua parola angelica.

La stessa cosa succedeva quando visitava un ospedale: lì i primi che accudiva erano i malati di lebbra a cui, amorevolmente, lavava e curava le piaghe. Addirittura ad Otricoli se ne caricò uno sulle spalle in una osteria e, dopo avergli lavato le piaghe, costui guarì al tocco delle sue mani. Poi mentre accudiva ad altre cose, il lebbroso sparì e non fu più rintracciato: un suo confratello Padre Silvestro da Narni era convinto che il lebbroso fosse stato Gesù stesso, che aveva voluto provare e premiare la sua carità.

Molti furono gli ospedali che fondò e che raccomandò a signorine nobili di aprire solvendo affermare che i malati erano il mezzo più bello e più elevato che Dio offriva agli uomini per praticare la carità e per guadagnarsi la salvezza. Un giorno, a Leonessa, guarì Armellina Palla che era stata involontariamente ferita da un colpo di archibugio sparato da Giovanni Tosino.

La sua missione tra le montagne dell'Umbria e dell'Abruzzo fu intensa e ciò per stare vicino a quei poveri abitanti abbandonati nell'ignoranza e condannati alla povertà morale e sociale. Dio gli concesse varie volte di compiere prodigi di moltiplicazione di farina, di pane, di vino e fave. A Todi riservò una parte dell'orto del convento per le necessità dei disperati e dei bisognosi: spesso cuciva lui stesso dei capi di vestiario o preparava scarpe per loro, magari privandosi di piccole quantità di cose che erano sue.

Oltre agli ospedali fondò molti ospizi per i pellegrini ed anche numerosi Monti Frumentari fece ciò ad Otricoli, Retrosi, Amatrice e Campotosto. Per chi non poteva pagarsi gli ospedali nelle città, egli predisposte delle modeste abitazioni che chiamò Case di Dio dove gratuitamente potevano essere accolti. Spesso faceva il questuante per raccogliere il grano necessario per salvare le famiglie indigenti e per creare i primi nuclei di Monti Frumentari: ricordiamo fra i primi quello di Massa di Todi. Portava sempre chiaro in se l'esempio di San Bernardino da Siena e di San Giacomo della Marca che con i Monti avevano debellato l'usura e ridato speranza e dignità ai poveri.

La penitenza come esempio di umiltà


Abbiamo già detto, che San Giuseppe cominciò questo tipo di pratica ancora giovanissimo questo, a suo dire, gli serviva per mortificare il corpo, affinché non conoscesse ribellioni e rimanesse sempre fortemente sottoposto allo spirito. Sempre, ogni venerdì, digiunava a pane ed acqua ed a ricordo della passione di Cristo soleva disciplinarsi. Arrivò ad applicare questo rigoroso regime per tutta la durata della Quaresima e nelle vigilie delle feste dedicate alla Madonna. Quando era in missione per predicare, non accettava mai i cibi preparati con cura e si accontentava, alla fine della giornata, di un piatto di erbe dei campi, cotte. Nel 1608, a Leonessa, impose ad una signora di non portare più pietanze particolari al convento, ma solo «Cose grosse, in quanto i Cappuccini solo quelle potevano accettare».

Un episodio curioso avvenne durante la predicazione della Quaresima a Ferentillo, nel 1605: Fra’ Michelangelo da Siena, stufo di mangiare sempre fare e spesso nemmeno in buono stato di conservazione, un giorno le lanciò fuori dalla finestra, in un burrone, con tutta la pentola. Saputo, San Giuseppe andò a ricercarle e trovò la pentola sana e le fave squisite. Noi, mai sazi di benessere, non riusciamo a trovare altro che mille ragioni per criticare chi in passato, s’imponeva penitenze e mortificazioni, eppure, sempre i santi hanno condotto una vita austera se non proprio grama, anche se tutti non erano allo stesso livello di San Giuseppe. Non si può improvvisare la virtù e solo l’ascesi può dominare egoismo e sensualità. Spesso è necessario rinunciare anche a comodità lecite per abituarsi a rinunciare al male ed al peccato.

San Giuseppe sovente cercava solitudine e silenzio per dedicarsi alla preghiera. Era solito lasciare, come ricordo delle sue predicazioni quaresimali, delle grandi croci che richiamassero le persone alla preghiera e che lui stesso piazzava su monti in modo da renderle ben visibili a tutti. Se le caricava sulle spalle e a piedi nudi, anche con la neve, le portava fino al posto prescelto. Fece ciò a Collecollato, a Capo le Vigne di Leonessa, a Camprosentino e sopra Colleverde.

Fu più volte schiaffeggiato da suo cognato Ercole Mastrozzi, che lo riteneva un fallito, per le vie di Leonessa, ma offre sempre l'altra guancia ed è il suo perdono in nome di Cristo. Alla vigilia della morte scrisse e Superiori della sua Provincia Monastica, chiedendo loro di ottenergli il perdono da parte di tutti i religiosi per il cattivo esempio dato e per aver occupato un posto, nell'Ordine, togliendolo a qualcuno migliore di lui.

Fu apostolo di pace con tutti: interveniva sedando risse e componendo vertenze che si tramandavano di padre in figlio o, nelle città, di generazione in generazione sempre ottenendo risultati strabilianti. Nelle prediche esortava sempre a perdonare anche i torti più piccoli perché: « i grandi fiumi si alimentano con le acque dei piccoli torrenti». A Leonessa, un giorno, aspettò una vedova che non aveva perdonato mai l'uccisore di suo figlio; le chiese di farlo in nome di quel Cristo che poco prima aveva pregato in chiesa. Ella si sciolse in lacrime e perdonò proprio sul sagrato della chiesa.

Morte del santo

Continuò la sua attività apostolica fino a tre mesi prima della morte. Nel 1611, predicò la sua ultima Quaresima a Lama un grosso centro agricolo e commerciale nei pressi di Città di Castello in Umbria: annunciò al popolo che quella sarebbe stata la sua ultima predicazione quaresimale. Dopo Pasqua, infatti, si ammalò e per questo fu spostato da Spoleto a Montereale. Qui fu colto anche da emiparesi ed i Superiori, per fornirgli un'assistenza più amorevole e migliore, lo spostarono nel convento di Amatrice dove era superiore suo nipote Padre Leonardo da Leonessa. Ottenne un immediato giovamento, tanto da sembrare essersi guarito. Riuscì a predicare ancora a Borbona dove fondò un Monte Frumentario ed anche a Campotosto dove, anche qui, fondò un altro Monte Frumentario: l'ultimo della sua vita. Verso la fine di ottobre, le sue condizioni di salute si aggravarono ed il nipote gli propose di rivedere ancora una volta, anche questa l'ultima, la sua amata Leonessa. Vi trascorse una decina di giorni che passò visitando e portando benedizioni ad amici e parenti. Prima di ripartire per Amatrice i due frati furono accompagnati fuori dalle mura dai paesani; dall'altura di San Cristoforo, San Giuseppe, con il crocefisso in mano, benedì tutti così: «O Leonessa dove ho avuto l'essere e l'educazione, questa è l'ultima volta che ti vedo. Vi benedico presenti, assenti e futuri, bestiame e terre».

Davvero commovente, ma anche stupenda la formula in cui non si tiene conto soltanto dei presenti, ma anche degli assenti e dei futuri questo, perché Dio è acronico e per Lui è come se tutto fosse al presente davanti al se. Né, ovviamente, nell'ottica francescana, vengono escluse terre ed animali: tutto è dono e creazione divina.

Al ritorno ad Amatrice si aggravò. Celebrò la sua ultima messa il 28 dicembre 1611. Chiese di poter ricevere comunque la comunione tutti i giorni: «Non me la negate, fratelli, se mi volete ancora vivo». Non volle mai comunicarsi nella stanza in quanto ciò era poco degno della maestà divina: «A me, diceva, tocca come servo e schiavo suo andargli incontro per raccoglierlo e domandargli grazie». Fu sottoposto ad un doloroso intervento chirurgico, chiese di non essere legato, ma di aver con sé il suo crocifisso. La sera del 3 febbraio 1612 chiese il Viatico e l'Estrema Unzione che ricevette con grande commozione. Si sollevò con il corpo quasi volesse staccarsi verso il cielo, stringendo il crocefisso morì. La morte, racconta il nipote Fra’ Leonardo: «Gli aveva dato un angelico sembiante tale che sembrava mi avesse piuttosto ornamento che offesa».

Fu beatificato il 22 giugno 1737 da papa Clemente XII. Papa Benedetto XIV lo santifico il 29 giugno 1746. Questo fu il miracolo che venne scelto, come tale, riportato nella causa di santificazione.

Corpo del Santo custodito nella chiesa di Leonessa a lui dedicata



Nel luglio del 1737 a Leonessa, la signora Clara Cricchi Dionisio diede alla luce il quarto figlio, cui fu dato il nome Giuseppe. Fu subito chiaro, però, che il bambino, nella metà inferiore del corpo, non aveva ossa: il fatto fu appurato dal chirurgo Ercolano Ercolani e, sette mesi dopo, dal figlio di questi, Giacinto, pure chirurgo, che: "Torse le membra, le attorcigliò, le piegò e le appallottolò come un fazzoletto", riconoscendo l'inesistenza di un qualunque rimedio medico.

La madre cominciò allora a pregare il Beato Giuseppe senza però ottenere risultati, finché la Domenica di Pasqua del 1739, spinta dalla disperazione, lasciò il bambino sull'altare della chiesa di Leonessa, dove era custodito il corpo del Beato. Richiamata dal pianto del piccolo tornò sui suoi passi, si accorse che il figlio "Poggiava i piedi sui gradini dell'altare e si teneva eretto da solo». L'improvvisa guarigione fu costatata anche dal citato dottor Giacinto Ercolani che, insieme ad altri testimoni, depose al processo di canonizzazione, tenutosi nel 1743, attestando che il bambino presentava, dopo la guarigione, una struttura ossea normale, prima del tutto inesistente nella parte inferiore del corpo.

Il 12 gennaio 1952, Pio XII lo proclamò patrono delle missioni in Turchia; la data della sua memoria è il 4 febbraio.

Luciano Garofoli




1) La luce circonfusa si chiama aura: Essa si espande intorno a tutto il corpo della persona avvolgendolo. Nella iconografia i santi vengono sempre raffigurati con un piccolo cerchio di luce sopra la testa, che si chiama aureola. In realtà quella luce come detto circonfonde tutto il corpo ed è il segno che ormai Cristo ha materialmente preso possesso del soggetto il quale come dice San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me” . Esperimenti compiuti su cadaveri da scienziati russi hanno dimostrato, con copiosa documentazione fotografica, che questa luce persiste per giorni anche dopo la morte in qualsiasi individuo. Quindi è dentro di noi per dono divino: i santi riescono soltanto ad aumentarla in maniera consistente permettendo a Dio di entrare dentro di loro stabilmente.
2) Chi come me abita da quelle parti sa bene che cosa sia il Tronto in piena: spesso riesce a bloccare la Salaria, la via consolare che porta a Roma, letteralmente staccando pezzi interi di montagna o portandosi via pezzi di strada, tanta è la furia esercitata dalle acque.



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