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Cattolicesimo, liberalismo, tolleranza (parte II)
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Proprietà? Un diritto sempre relativo nella prospettiva cattolica

La nostra amica lettrice ci muove poi ulteriori critiche.

«
Von Mises, e anche Rothbard, - scrive la nostra interlocutrice - erano da un punto di vista personale sostanzialmente non religiosi, o comunque non inclini a parlare della loro religiosità. Ma il motivo per cui von Mises teneva moltissimo a puntualizzare che quello che studiava lui era esterno agli ambiti della religione non era certo lindifferenza alle questioni religiose; al contrario, era la consapevolezza che queste erano estremamente importanti. Il suo ribadire che la sua era una visione utilitaristicanon voleva dire che nella vita contano solo gli aspetti materiali, bensì che lui rivolgeva la sua indagine solo a quelli (un chirurgo o un anatomista nellambito dei loro studi parlano degli uomini in termini di ossa, sangue, nervi, eccetera, ma questo non vuol dire necessariamente che ritengono che luomo sia fatto solo dalla sua fisicità, e neanche che gli aspetti fisici siano quelli più importanti). La neutralità non era una scusa’. Per von Mises, era fonte di grande costernazione il fatto che le idee economiche che lui sosteneva fossero attaccate in base a presunte conseguenze religiose. In Europa, il liberalismo economico era visto come ostile alla Chiesa cattolica, e questa era una cosa che sgomentava von Mises (Qui forse è il caso di precisare: con liberalismoe capitalismo von Mises intende la difesa universale della proprietà privata’, che non è un principio di John Locke, ma che è un principio profondamente cattolico che data da molto prima di Locke, Smith, Ricardo e compagnia. Poi il termine liberale ha perso qualsiasi significato, al punto che come dicevo adesso negli USA indica i democratici. In Italia liberalevuol dire... Cavour, un accentratore del potere statale e oppositore della Chiesa. Nel senso della Scuola Austriaca, che direi è il senso corretto, un difensore della proprietà privata è tipicamente qualcuno molto scettico delleccessivo potere dello Stato, tendenzialmente religioso e conservatore su temi etici). La compatibilitàcon la religione a von Mises premeva enormemente. Certamente, per von Mises e la Scuola Austriaca è un punto fondamentale il principio di tolleranza religiosa’, che non vuol dire che tutte le religioni sono uguali’, o che dicono cose ugualmente giuste, e così via. La tolleranza religiosa vuol dire che, posto che tutti rispettino le leggi civili concordate dalla società (rispetto della vita, della proprietà, e corollari), allora chiunque ha la libertà di pensare e dire che gli altri si sbagliano, di fare il possibile per cercare di convincerli dei loro errori, ma nessuno ha la libertà di cercare di convertire gli altri con la violenza e con le armi. Un principio che è decisamente cattolico, e che non viene così naturale per le altre religioni. Io credo che lunica domanda importante sullopera di von Mises sia: nei suoi trattati di economia, diceva cose vere oppure no? E quando si scende su questo terreno, diventa non impossibile però molto arduo sfidare von Mises. Il libro del cattolicissimo Tom Woods di cui ho parlato dedica parecchie pagine al concetto di economia come scienza libera da giudizi di valore’; esaminare le conseguenze di una misura fiscale o di una politica monetaria in sè non ha un particolare significato morale; scegliere quale misura adottare dopo averne attentamente valutato le conseguenze sì. Woods discute il contenuto economico delle encicliche a partire dalla Rerum Novarum e pone il problema di un cattolico davanti ad indicazioni della Chiesa che lui sa porteranno ad effetti opposti a quelli del principio morale - indiscutibile - da cui sono scaturite. Woods: ‘Il tipo di domanda alla quale i cattolici favorevoli alleconomia di libero mercato non hanno mai ricevuto una risposta diretta è la seguente: se posso dimostrare che il sindacalismo coercitivo avrà come conseguenza quella di impoverire la società più di qualunque vantaggioche possa in proporzione ottenersi dalla manodopera sindacalizzata, e se la stessa manodopera sindacalizzata vivrebbe meglio in una società in cui esistesse un libero mercato del lavoro, come posso essere in coscienza obbligato a credere che il sindacalismo coercitivo rappresenti un vantaggio per i lavoratori e che sia unistituzione indispensabile che mi devo impegnare a difendere? Tom Woods crede proprio di poterlo dimostrare, ma non deve aggiungere praticamente nulla a ciò che si sapeva già a Salamanca».

Sono necessarie, a questo punto, alcune precisazioni irrinunciabili.

Che il diritto di proprietà sia un diritto naturale è cosa ben riconosciuta dal Magistero.

Non però l’assolutizzazione di tale diritto!

Vi sono passi molto espliciti in tal senso anche nel Catechismo della Chiesa cattolica del 1992. Citiamo ad esempio dai numeri 2401, 2402, 2403, 2406:

«
Il settimo comandamento… prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali… esige, in vista del bene comune, il rispetto della destinazione universale dei beni e del diritto di proprietà privata… Allinizio, Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dellumanità… I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano. Tuttavia la terra è suddivisa tra gli uomini, perché sia garantita la sicurezza della loro vita… Il diritto alla proprietà privata… non elimina loriginaria destinazione della terra allinsieme dellumanità. La destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto ad essa e del suo esercizio… Lautorità politica ha il diritto e il dovere di regolare il legittimo esercizio della proprietà privata in funzione del bene comune».

Il «principio di relatività della proprietà», che tutela la proprietà nei limiti del preminente bene comune, risale ai Padri della Chiesa. Di solito non è bella cosa l’autocitazione. Quindi ci si perdoni se ne facciamo una allo scopo di ricordare la non assolutezza del diritto di proprietà nella concezione cristiana:

«
La Cristianità europea, - abbiamo scritto altrove - sin dal sorgere stesso del Cristianesimo, si è interrogata su quali siano gli obblighi dei ricchi e dei proprietari nei confronti della comunità e dei poveri. Clemente Alessandrino, nel II secolo, condanna leccessiva preoccupazione per le ricchezze ed ammonisce i ricchi che la stessa legge divina, che sancisce la legittimità della proprietà privata, impone loro obblighi di carità verso i poveri. SantAgostino, chiarendo il fondamento etico di ciò che oggi chiamiamo funzione o uso sociale della proprietà, afferma che colui il quale usa male la sua ricchezza la possiede in modo sbagliato, e il possesso sbagliato ne fa proprietà di un altro’. SantAmbrogio ritiene che nel disegno di Dio vi siano anche situazioni nelle quali, per il bene comune, la proprietà deve essere comune. Nel De Nabuthae, SantAmbrogio afferma: ‘Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per luso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti e non solamente ai ricchi. Ecome dire che la proprietà privata non costituisca per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. San Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli, sollecitava i cristiani della città, sua sede episcopale, a creare fondi comuni, nei quali depositare parte dei propri beni, per sovvenire alle comuni esigenze di vita sociale. San Tommaso dAquino nella Summa sostiene che fra gli obblighi morali del potere politico, imposti dal diritto di natura, vi è quello di regolare la proprietà privata per il bene comune, aggiungendo che un cristiano ha lobbligo di mettere la sua ricchezza a disposizione dei bisogni comuni’. In altri termini, attingendo al tesoro della Tradizione, lAquinate afferma che in nome del Bene Comune è moralmente lecito, anzi doveroso, imporre limiti, anche, se necessario, duri, alla proprietà privata (1)».

Ed anche i salmantini si sono uniformati a questa concezione «relativizzante» del diritto di proprietà se è vero, come è vero, che Francisco de Vitoria, nella sua elencazione dei diritti umani, afferma chiaramente che: «E lecita alluomo la proprietà privata; ma nessuno è talmente proprietario che non debba, a volte, condividere con altri i suoi beni. In casi di estrema necessità tutte le cose sono comuni».

Per rispondere al
«cattolicissimo» Tom Woods

Della presunta «neutralità» della scienza economica liberale si è già detto.

Che il sindacalismo possa a volte essere irragionevolmente «coercitivo» è vero. Abbiamo, di recente, letto di un episodio di tal genere. Negli anni ‘70 il contratto nazionale metalmeccanici prevedeva che nei reparti di verniciatura fosse dovuto agli operai un quarto d’ora di pausa ogni ora di lavoro, in quanto la verniciatura effettuata a mano esponeva i lavoratori alla respirazione, dannosa per la salute, delle esalazioni delle vernici. Nel decennio successivo, alcune innovazioni tecniche consentirono di effettuare la verniciatura mediante macchine guidate a distanza. Fu naturale che da parte datoriale si chiedesse la revisione del contratto nazionale per recuperare i quindici minuti di pausa. Il sindacato si oppose. Ma in tal caso si trattava di una opposizione insensata e per atteggiamenti di questo genere che, a partire da quel periodo, il sindacato ha spesso perso di credibilità. Quel tipo di opposizione sindacale non era giusto alla luce del bene comune aziendale.

Molta della debolezza attuale del sindacato è dovuta a certe irragionevolezze del passato. Tuttavia, oggi, la parte datoriale sta approfittando di certi errori per tentare di eliminare l’intero sistema di relazioni sindacali costruito in secoli di esperienza di «capitalismo sociale». Marchionne, il più anglosassone dei manager italiani, ha fatto intendere di voler uscire da Confindustria, disdettando il contratto nazionale, con l’obiettivo di introdurre un sistema sindacale di tipo americano ossia incentrato su accordi diretti aziendali tra parte datoriale e parte prestazionale. Un sistema che pone il capitale in una evidente posizione di forza tale da egemonizzare le trattative che, per il loro carattere assolutamente «privatistico» ed aziendale, non vedrebbero alcuna mediazione statuale né alcun accordo di comparto a livello nazionale.

Il «cattolicissimo» Tom Woods, citato dalla nostra interlocutrice, si pone il problema degli effetti contrari, al giusto principio morale di partenza, delle indicazioni contenute nelle encicliche sociali dei Papi. Ben strana «cattolicità», questa, la quale, in sostanza, afferma che il Magistero pur ponendo questioni morali indubbiamente fondamentali non ne abbia, poi, azzeccata una sul piano delle indicazioni tecniche. Strana «cattolicità»che si spiega solo con la convinzione del Woods di essere in possesso dei segreti di una «scienza» ritenuta, positivisticamente, infallibile e tale da porre dubbi persino sul Magistero sociale della Chiesa, il quale se - è vero - da un punto di vista tecnico non pretende di essere infallibile, lo pretende però proprio dal punto di vista morale e che quindi indirettamente è legittimato anche a dare, tra le molte possibili, quelle indicazioni tecniche ritenute più conformi ai presupposti morali di partenza. Indicazioni che il Magistero fornisce forte della «prudentia fidei» e della propria grande sensibilità esperienziale e storica.

Woods parte dall’idea, assunta ma non dimostrata, che sia solo il mercato ed il regime di libere contrattazioni a porre le condizioni di quello sviluppo che alla fine dovrebbe portare beneficio anche ai poveri.

Forse Woods dimentica che scopo dell’economia, nella visione cattolica, non è quello dell’accumulo di ricchezze ma quello dello sviluppo dell’uomo come presupposto del suo, vero, fine che è quello soprannaturale. L’uomo, che non vive di solo pane, deve essere liberato dai bisogni primari per consentirgli di guardare verso l’Alto senza eccessive preoccupazioni terrene. La dottrina sociale della Chiesa non intende lo sviluppo e la ricchezza come il fine dell’esistenza umana ma come un mezzo. Ma se il mezzo diventa il fine, come nella visione liberale tutta fondata sul riduzionismo dell’orizzonte economico, la conseguenza sono quelle, oggi evidentissime, distorsioni antropologiche che rendono evanescente la promessa di felicità che il liberismo, fallace, offre all’uomo.

Bisognerebbe ricordare più spesso la parabola evangelica del contadino che soddisfatto del suo raccolto eccezionale si ripromette di goderne per molti anni avvenire ed al quale il Signore dice: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. Ed allora le tue ricchezze a chi andranno?».

Tom Woods pone il problema: «Se posso dimostrare che il sindacalismo coercitivo avrà come conseguenza quella di impoverire la società più di qualunque vantaggio che possa in proporzione ottenersi dalla manodopera sindacalizzata, e se la stessa manodopera sindacalizzata vivesse meglio in una società in cui esiste un libero mercato del lavoro, come posso essere in coscienza obbligato a credere che il sindacalismo coercitivo rappresenti un vantaggio per i lavoratori e che sia unistituzione indispensabile che mi devo impegnare a difendere?».

Egli afferma che mai nessuno tra i critici dei cattolici favorevoli al liberismo ha dato risposta a questa domanda. Forse la risposta è contenuta in un’altra domanda: «Se posso dimostrare che dalle cellule staminali umane o dalla clonazione umana posso ricavare mezzi utili alla cura di malattie, altrimenti incurabili, perché mai devo essere limitato, perché mai devo subire coercizioni morali o sociali, quando invece gli effetti di tali pratiche sono proficui?».

Quel che afferma Woods, quando pone la sua domanda, è in realtà un assioma assolutamente non dimostrato, neanche dagli «austriaci» (se non in astratto, secondo la logica della scienza economica classica). Al contrario, le vicende storiche hanno sovente dimostrato che gli assunti dell’economia liberista non funzionano.

Senza i vincoli della contrattazione sindacale l’economia, nel lungo periodo, non cresce ma, dopo una iniziale impennata, l’inevitabile decremento salariale, indotto dalla concorrenza tra i lavoratori, porta al conseguente calo di potere d’acquisto innescando il ciclo recessivo per sovra-produzione (che è la contro-faccia del venir meno del potere d’acquisto).

E’ esattamente quel che è accaduto nell’America del 1929. Dove, a dire il vero, la diminuzione del potere d’acquisto non fu dovuta solo alla compressione salariale ma anche al fatto che sia i capitali di investimento che i risparmi dei semplici cittadini furono dirottati, dalla febbre liberista del facile e subitaneo guadagno immediato, verso la finanza speculativa. Negli anni precedenti il venerdì nero di Wall Street tutti, negli Stati Uniti, giocavano in Borsa, dai grandi imprenditori fino alle cameriere d’albergo.

Una cosa analoga si è ripetuta nell’ultimo trentennio, come conseguenza delle liberalizzazioni reaganiane. Esse invece di limitarsi a liberare, laddove effettivamente necessario, l’economia reale da eccessi di rigidità, hanno dato la stura al liberismo più selvaggio ed alla deregulation finanziaria, che ha portato, in un primo tempo, ad una apparente crescita economica - una crescita «apparente» perché nascondeva un’economia in realtà drogata dai valori finanziari creati dal nulla - cui è seguita la crisi attuale a causa dell’esplosione di ripetute bolle speculative.

Ma torniamo alla domanda posta da Woods.

Come nel caso dei presunti benefici curativi dell’uso delle staminali umane – anche questo un argomento propagandato assiomaticamente senza vera dimostrazione – se pure fosse dimostrato che l’economia di mercato libera da qualsiasi vincolo comportasse maggior ricchezza generale, questo non potrebbe giustificare affatto l’uso di un siffatto modello economico in contrasto con ragioni morali e sociali - quelle proprie della fede cattolica e della naturale, benché ferita dal peccato, amicalità e socievolezza della creatura umana – che cozzano con l’individualismo liberale.

Il fatto che uno strumento tecnico – le staminali o il liberismo – possa (e – ripetiamo – si tratta di affermazione assiomatica, sovente contraddetta dai fatti) produrre esiti proficui non significa che quello strumento sia automaticamente lecito dal punto di vista morale e/o sociale.

Altrimenti, la campagna nazista per l’eliminazione dei malati di mente o dei portatori di tare genetiche, in nome della salubrità della razza, dovrebbe essere considerata legittima!

Il liberalismo ha radici nel soggettivismo luterano e quindi tende ad esaltare l’egocentrismo, che è cosa molto diversa dal concetto cattolico di persona. Per questo motivo il liberalismo perviene ad una visione assolutista anche in tema di proprietà. Parallelamente da tale assolutismo individualistico deriva un assolutismo collettivista. Non a caso le società anonime lungi dall’essere forme di comproprietà, ossia di comunione dei beni tra persone unite da vincoli sociali o di carità, sono una forma di assolutizzazione impersonale dei rapporti proprietari che parte da assunti liberali per giungere a conclusioni collettiviste: la società anonima, vero motore del capitalismo liberale, spoglia la persona della proprietà per attribuirla ad una finzione giuridica, la «società di capitali» cui viene riconosciuta fittiziamente una «personalità giuridica» come se si trattasse di una persona in carne ed ossa. Ma la società anonima è in realtà manovrata, e manipolata, da chi controlla il pacchetto di maggioranza, anche relativa, e dagli amministratori. Esattamente come accadeva nello Stato sovietico dove la proprietà nazionalizzata era in realtà manovrata e controllata dalla nomenklatura del partito.

Uno sguardo al recente Magistero sociale

Ci sono passi della recente «Caritas in Veritate» che, lapalissianamente, non potrebbero essere apprezzati da von Mises o da altri «austriaci».

L’intera enciclica è da leggere con attenzione, ma noi ne citiamo solo alcuni passaggi perché basta la lettura, sebbene episodica, di tali passi per comprendere quale distanza esista tra Dottrina Sociale Cattolica e liberismo. Poi, sta ai cattolici infatuati di quest’ultimo fare salti mortali per conciliare l’inconciliabile. Essi certamente ci proveranno e noi staremo a guardarli divertendoci della goffaggine dei loro sforzi.

A dimostrazione che non è possibile neanche sul presunto neutrale piano scientifico non tener conto, pur nell’autonomia della ragione, dell’inferenza di fede, Benedetto XVI ci ha chiaramente ricordato che:

«
Ubi societas ibi ius»… (ma)… ‘La carità eccede la giustizia’, perché amare è donare, offrire del mio allaltro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare allaltro ciò che è suo’, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso donare allaltro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è innanzitutto giusto verso di loro (…). La giustizia è inseparabile dalla carità’, intrinseca ad essa (…). Da una parte, la carità esige la giustizia (…): essa sadopera per la costruzione della città delluomosecondo diritto e giustizia. Dallaltra, la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. La città delluomonon è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione (…). Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità’ (Caritas in Veritate, pagine 8 e 9)».

Un argomento molto in voga oggi tra i cattolici liberal-conservatori è quello per il quale ogni critica all’Occidente nasconde una radice «gnostica» in quanto l’origine dello sviluppo tecnologico occidentale si deve alla radici «giudeo-cristiane» riconnettendosi all’invito biblico, rivolto all’uomo, a dominare la terra. Sicché – si dice un po’ troppo affrettatamente in certi ambienti catto-conservatori – criticare l’Occidente per il fatto che ha portato in tutto il pianeta la tecnica, che consente lo sviluppo, è segno della filosofia antiumana che muove, ad esempio, l’ecologismo panteista o il pauperismo di sinistra.

Ora, in tale argomentazione vi è una parte di verità. Ma, come succede inevitabilmente quando si fa di una «mezza verità» l’intero, si cade in uno strabismo foriero di erronee valutazioni.

Infatti, i catto-conservatori, che sulla scia di un Rodney Stark esaltano le radici «giudeo-cristiane» della scienza moderna, finiscono non solo per dimenticare che tra il concetto di «ratio», classica e medioevale, e quello di «scienza» moderna vi è un abisso che impedisce di assimilarli (benché ciò non impedisce - questo, però, è un altro discorso – alla fede di approcciare, problematicamente, anche la scienza moderna e post-moderna), ma finiscono anche per non tenere in debito conto gli aspetti equivoci e prometeici (si pensi solo all’eugenetica) della scienza e della tecnica, incautamente riconducendoli, in quanto a matrice, ad una radice teologica cristiana, esponendo, in tal modo, la fede alla critica nicciana, e neopagana, che individua, erroneamente, nel monoteismo l’origine della volontà di potenza e della violenza.

Sposare l’Occidente post-cristiano conduce ad aporie pericolosissime per la giusta e buona immagine della fede cristiana.

Grazie a Dio, il magistero ci soccorre:

«La tecnica – scrive Benedetto XVI nella Caritas in Veritate – presa in se stessa, è ambivalente. Se da un lato, oggi, vi è chi propende ad affidarle interamente (il)… processo di sviluppo, dallaltro si assiste allinsorgenza di ideologie che negano in toto lutilità stessa dello sviluppo, ritenuto radicalmente antiumano e portatore solo di degradazione. Così, si finisce per condannare non solo il modo distorto e ingiusto con cui gli uomini talvolta orientano il progresso, ma le stesse scoperte scientifiche, che, se ben usate, costituiscono invece unopportunità di crescita per tutti. Lidea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nelluomo e in Dio. E’, quindi, un grave errore disprezzare le capacità umane di controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che luomo è costitutivamente proteso verso l’‘essere di più’. Assolutizzare ideologicamente il progresso tecnico oppure vagheggiare lutopia di un’umanità tornata alloriginario stato di natura sono due modi opposti per separare il progresso dalla sua valutazione morale e, quindi, dalla nostra responsabilità Caritas in Veritate, pagine  19-20)».

Ed ancora:

«
La tecnica è bene sottolinearlo è un fatto profondamente umano (…). Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia. Lo spirito, ‘reso così meno schiavo delle cose, può facilmente elevarsi alladorazione e alla contemplazione del Creatore. La tecnica permette di dominare la materia, di ridurre i rischi, di risparmiare fatica, di migliorare le condizioni di vita (…). La tecnica è laspetto oggettivo dellagire umano, la cui origine e ragion dessere sta nellelemento soggettivo: luomo che opera. Essa manifesta luomo e le sue aspirazioni allo sviluppo, esprime la tensione dellanimo umano al graduale superamento di certi condizionamenti materiali. ‘La tecnica, pertanto, si inserisce nel mandato di coltivare e custodire la terra’ (confronta Genesi 2,15), che Dio ha affidato alluomo e va orientata a rafforzare quellalleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dellamore creatore di Dio. Lo sviluppo tecnologico (però) può indurre lidea dellautosufficienza della tecnica stessa quando luomo, interrogandosi solo sul come’, non considera i tanti perchédai quali è spinto ad agire. Eper questo che la tecnica assume un volto ambiguo (…) essa può essere intesa come elemento di libertà assoluta, quella libertà che vuole prescindere dai limiti che le cose portano in sé. Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe lumanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare lessere e la verità (…). Questa visione rende oggi così forte la mentalità tecnicista da far coincidere il vero con il fattibile. Ma quando lunico criterio della verità è lefficienza e lutilità, lo sviluppo viene automaticamente negato (…). Questa… deviazione della mentalità tecnica… è oggi evidente (…). Spesso lo sviluppo dei popoli è considerato un problema di ingegneria finanziaria, di apertura dei mercati, di abbattimento di dazi, di investimenti produttivi, di riforme istituzionali, in definitiva un problema solo tecnico. Tutti questi ambiti sono quanto mai importanti, ma ci si deve chiedere perché le scelte di tipo tecnico finora abbiano funzionato solo relativamente. La ragione va ricercata più in profondità. Lo sviluppo non sarà mai garantito compiutamente da forze in qualche misura automatiche e impersonali, siano esse quelle del mercato o quelle della politica internazionale (…). Quando prevale lassolutizzazione della tecnica si realizza una confusione fra fini e mezzi, limprenditore considererà come unico criterio dazione il massimo profitto della produzione; il politico il consolidamento del potere; lo scienziato, il risultato delle sue scoperte (…). I flussi delle conoscenze tecniche si moltiplicano, ma a beneficio dei loro proprietari (…). La razionalità del fare tecnico centrato su se stesso si dimostra però irrazionale, perché comporta un rifiuto deciso del senso e del valore. Non a caso la chiusura alla trascendenza si scontra con la difficoltà a pensare come dal nulla sia scaturito lessere e come dal caso sia nata lintelligenza. Di fronte a questi drammatici problemi, ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno luomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nellillusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia lestraniamento dalla vita concreta delle persone (Caritas in Veritate, pagine 113-119)».

La critica che il Papa, congiuntamente alle ideologie del pauperismo, fa all’assolutizzazione del progresso tecnico, grande cavallo di battaglia, quest’ultimo, usati dai liberali per giustificare la pretesa superiorità dell’Occidente sul resto del mondo, trova spiegazione in questi altri passi dell’enciclica:

«
Senza la prospettiva di una vita eterna, il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro. Chiuso dentro la storia, esso è esposto al rischio di ridursi al solo incremento dellavere; lumanità perde così il coraggio di essere disponibile per i beni più alti, per le grandi e disinteressate iniziative sollecitate dalla carità universale. Luomo non si sviluppa con le sole proprie forze, né lo sviluppo gli può essere semplicemente dato dallesterno. Lungo la storia, spesso si è ritenuto che la creazione di istituzioni fosse sufficiente a garantire allumanità il soddisfacimento del diritto allo sviluppo (…). Un tale sviluppo (invece) richiede… una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alla mani delluomo, che cade nella presunzione dellauto-salvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato (Caritas in Veritate, pagine 15-16)».

Invece i catto-liberalconservatori, nel loro «cristianesimo secondario», ossia tutto proteso a esaltare la funzione civilizzatrice del «retaggio giudeo-cristiano», dimenticano proprio quella prospettiva di eternità richiamata dal Papa e, tutto riducendo, per spirito di mal intesa apologetica, all’orizzonte della storia immanente, finiscono per giustificare come fosse cristiana la volontà di potenza dell’Occidente odierno, nato dalle rivoluzioni anticattoliche compresa - perché di radici protestanti benché diretta contro una monarchia anch’essa protestante - quella americana del 1775-76.

Lo sviluppo disumanizzato, paventato da Benedetto XVI, è il portato delle ideologie pseudo-messianiche della modernità, contrassegnata dal ritorno in forme nuove di antiche pulsioni millenaristiche. Chi ha letto il libro di Giulio Tremonti, La paura e la speranza, troverà ampie spiegazioni sul carattere ideologico e messianico che ha caratterizzato il processo di globalizzazione sotto l’apparente e rassicurante razionalità della scienza economica liberale. Tremonti non si spinge ad indagare più in là perché, se lo avesse fatto, avrebbe scoperto che il cosiddetto «perfettismo», ossia l’idea per la quale è possibile realizzare l’armonia sociale perfetta su basi esclusivamente immanenti, è stata tipica del liberalismo sin dal suo sorgere sette-ottocentesco.

E’ così che, dunque, il passo seguente dell’enciclica di Benedetto XVI può essere legittimamente applicato anche al liberalismo:

«
Imessianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni fondano sempre le proprie proposte sulla negazione della dimensione trascendente dello sviluppo, nella sicurezza di averlo tutto a propria disposizione. Questa falsa sicurezza si tramuta in debolezza, perché comporta lasservimento delluomo ridotto a mezzo per lo sviluppo… (Caritas in Veritate, pagina 23)».

Parole, queste, che meglio di qualunque analisi economica «scientifica» ci fanno intendere i motivi veri per i quali la globalizzazione ossia l’ennesimo sogno babelico di unificare il mondo su basi immanenti, come tutti quelli che lo hanno preceduto, da quello napoleonico a quello marxista fino a quello nazista, si sia infranto nel 2008, o perlomeno ha subito una battuta d’arresto che suona come un provvidenziale ammonimento a non perseguire su tale errata ed utopistica strada.

Infatti, «quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere lordine naturale, lo scopo ed il benecomincia a svanire (Benedetto XVI, ‘Discorso ai giovani al molo di Barangaroo’, Osservatore Romano, 18 luglio, 2008, pagina 8)».

Ammesso pure – per tornare alla domanda posta da Woods – che la difesa sindacale, come ogni difesa comunitaria, ponga limiti alla volontà individuale, e si tratta di limitazioni moralmente legittime perché l’uomo è creatura sociale e non solipsista, è davvero possibile sostenere seriamente che, senza quei limiti, l’incontro tra la volontà datoriale e quella del lavoratore produrrebbe, sempre e comunque, il maggior beneficio per entrambi, e non, al contrario, come i fatti hanno sovente dimostrato, per la sola parte oggettivamente più forte ossia la parte datoriale?

L’analisi degli «austriaci» è viziata da un eccesso di «astrattismo» perché essi partono da un’idea errata di soggettività e guardano alle soggettività, sempre ritenute «darwinisticamente» in concorrenza tra loro (il liberismo non riconosce affatto che i rapporti umani possano essere anche di solidarietà e di cooperazione, anziché solo conflittuali ed utilitaristici), come se esse fossero avulse da concreti contesti sociali, da appartenenze storiche e culturali. E – soprattutto! – da concreti rapporti di forza che, senza correzioni legislative o sindacali, rendono del tutto risibile e moralistico pensare che in una libera contrattazione tutte le parti siano effettivamente in una reciproca posizione di eguaglianza contrattuale e che quindi esse siano tutte capaci di disporre liberamente, senza costrizioni fattuali, delle loro volontà e delle loro sostanze.

Non è così. Il sano realismo cattolico dovrebbe indurre i catto-liberali a più attenta riflessione. Il Magistero sociale dei Papi non ha mai negato i benefici dell’economia di mercato e della proprietà ma al tempo stesso non ha mai accettato la visione astratta e contrattualista del liberalismo.

Quando Leone XIII pubblicò la Rerum Novarum, i socialisti lo accusarono di portare acqua al capitalismo (non tutti, però: i più intelligenti tra loro compresero che la Chiesa non stava affatto prendendo posizione in favore del liberalismo) mentre i liberali lo accusarono di essere un «Papa socialista». In realtà Leone XIII, e gli altri Papi dopo di lui, non era altro che un cattolico ed il cattolicesimo rifiuta sia gli errori del liberalismo che quelli del socialismo.

Queste cose, fino a qualche anno fa, erano talmente chiare, almeno tra i cattolici tradizionalisti, che non se ne parlava più di tanto dandole per scontate. Invece, da qualche decennio a questa parte, causa l’infiltrazione di correnti culturali provenienti da oltreoceano, si è costretti a dover ricordare, proprio ai cattolici tradizionalisti e a quelli conservatori, l’ABC del Magistero sociale cattolico. Che tristezza!

Certamente molta acqua è passata sotto i ponti dai tempi della Rerum Novarum ed ecco perché, per restare ancora all’ultima delle encicliche sociali, il Magistero attuale chiede anche ai sindacati di aprirsi ai nuovi problemi imposti dalla globalizzazione senza semplicemente arroccarsi in difese settoriali. Ma, ciononostante, il Magistero ribadisce la funzione essenziale dei sindacati:

«
Riflettendo sul tema del lavoro, scrive ancora Benedetto XVI nella Caritas in Veritate (pagine 105-106) è opportuno anche un richiamo allurgente esigenza che le organizzazione sindacali dei lavoratori’, da sempre incoraggiate e sostenute dalla Chiesa, si aprano alle nuove prospettive che emergono nellambito lavorativo (…). Il contesto globale in cui si svolge il lavoro richiede… che le organizzazioni sindacali nazionali, prevalentemente chiuse nella difesa degli interessi dei propri iscritti, volgano lo sguardo anche verso i non iscritti e, in particolare, verso i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso violati. La difesa di questi lavoratori, promossa anche attraverso opportune iniziative verso i Paesi di origine, permetterà alle organizzazioni sindacali di porre in evidenza le autentiche ragioni etiche e culturali che hanno loro consentito, in contesti sociali e lavorativi diversi, di essere un fattore decisivo per lo sviluppo».

Qui, il Papa non solo riconosce al sindacalismo – checché ne pensino gli «austriaci» – di aver svolto, in Occidente, un ruolo determinante per lo sviluppo, ma invita lo stesso sindacalismo a ripetersi su scala globale, in modo da far maturare anche nei Paesi in via di sviluppo o in Paesi a capitalismo selvaggio in fase di decollo, come Cina ed India, quel sistema di Welfare, di livello analogo al nostro, che solo può garantire una legittima apertura dei mercati che non si risolva, come è accaduto finora con la globalizzazione, in un dumping sociale costringendo all’arretramento globale da noi ed alla negazione nei Paesi in via di sviluppo delle conquiste sociali del lavoro. Unica via, inoltre, quella suggerita dal Papa, per mettere fine ai guasti antropologici e sociali della migrazione.

Non sappiamo quanto la prospettiva indicata dal Papa possa essere, nelle date circostanze storiche attuali, davvero praticabile, viste le contrarie forze globali che sono scese in campo. Tuttavia è nostra convinzione che quelle contrarie forze, alla lunga, siano destinate a portare l’umanità ad una tremenda debacle globale. Solo allora, forse, si inizierà a prendere in seria considerazione la necessità di guardare alla complessità dell’uomo senza cadere in facili economicistici riduzionismi liberali.

(continua)

Luigi Copertino


Cattolicesimo, liberalismo, tolleranza (parte I)



1)
Confronta L. Copertino «Spaghetticons - la deriva neoconservatrice della destra cattolica», Il Cerchio, Rimini, 2008.


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