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Frankenstein-politik (parte I)
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Il 12 ottobre dell’anno scorso nell’articolo Requiem per limperatore avevamo avvertito i lettori di ciò che sarebbe accaduto al governo Berlusconi:

«Secondo il piano del golpe istituzionale’, limplosione dovrà avvenire per una sincope allinterno della maggioranza e i numeri saranno contro Berlusconi. Dopo che qualche pentito di mafia avrà ritrovato la memoria per incolpare dellomicidio del camerata Borsellino a sedici anni di distanza un Berlusconi a quel tempo ancora fuori dalla politica, sarà più facile mobilitare contro il premier i 60 parlamentari peones, esibiti da Fini nelle settimane scorse per chiedere più collegialità nel Pdl (…). Come è facile intravvedere linizio del percorso politico per riconsegnare lItalia ai poteri forti che lhanno sempre governata, tranne nella parentesi del populismo alla puttanesca di Silvio Berlusconi, è già stato tracciato: governo istituzionale o del presidente, insediato dal comunista-liberale Napoletano, guidato da Gianfranco Fini e sostenuto dallesterno, dallinterno, da sopra, da sotto, comunque e come che sia da PD, Italia dei valori, UDC, gruppi misti, senatori a vita, Rite Levi Montalcini varie e qualche illuminato tecnico, professore, economista o costituzionalista, pronto a spacciare dogmi e cateteri tra Montecitorio e Palazzo Madama. Bello spettacolo! I soliti noti alla guida delle corazzate giornalistiche ci ammoniranno sul ritorno alla normalità, alla moralità, alla sobrietà, alla solidarietà, allunità, alla Costituzione, alla democrazia. Per Berlusconi si prepara un lento inarrestabile oblio: se il governo Dini fu la sua isola dElba, questa volta sarà SantElena. La fine dell’Imperatore è segnata. Ma non subito. Passerà qualche mese per convincere uno ad uno i transfughi, per preparare il clima, persuadere i renitenti, rassicurare i pusillanimi, promettere agli ambiziosi, ammonire i resistenti. Passerà qualche mese, durante il quale far scattare nuove trappole, rinsaldare le alleanze, tessere nuove strategie, cercare complicità, sollecitare solidarietà interne e internazionali. Passerà qualche mese dove forse il mandante delle stragi di mafia diventerà il duo DellUtri-Berlusconi: allora il manipolo anista si ricorderà di essere stato per qualche anno un partito giustizialista, tutto legge e ordine».

E infatti siamo qui. Sono passati dieci mesi e la trappola è scattata. Berlusconi è alle corde, come un pugile suonato che, messo all’angolo, tenta di reagire con la forza della disperazione e mena fendenti, colpendo l’aria. Ma – temo per lui – sia tardi. Ridotto ormai alla difensiva, il suo impero è eroso nell’enclave del Nord dall’ascesa della Lega e al centro-sud dai satrapi clientelari, che hanno sempre campato e càmpano di rendite parassitarie. Per uscire dall’angolo, dovrebbe rilanciare.

Presentare un programma di governo prendere o lasciare, esacerbare l’alleato-avversario fino al punto di far ricadere su di lui la colpa del collasso, o umiliarlo a colpi di fiducia ed obbligarlo a cedere: alzare la posta, esasperare la scelta federalista, radicalizzare la riforma della giustizia, drammatizzare l’opzione costituzionale, ingigantire ogni scelta identitaria, insomma liberarsi della palude che lo circonda e interpretare di nuovo e fino in fondo la parte del rivoluzionario.

E poi scegliere l’economia contro la finanza, il lavoro e l’impresa contro la rendita, il Mediterraneo contro la Manica, l’Europa dei popoli contro quella delle lobby, la geopolitica contro le astrazioni ideologiche, insomma praticare l’unica politica capace di tenere assieme Bossi, Tremonti, Alemanno e Lombardo, cicatrizzando in qualche modo la ferita a destra inflitta da Fini. E poi tornare a parlare alla gente, indossando il saio e cospargendosi il capo di cenere, se necessario, ma insomma una buona volta, essere di nuovo capo. E’ inutile si faccia altre illusioni, inutile che segua il volo delle colombe: Berlusconi, se vuole rialzarsi, deve cadere combattendo, rovesciando su Fini la responsabilità di aver aperto una crisi politica nel mezzo di una congiuntura economica gravissima.

Mandante dell’ennesimo tenato  golpe istituzionale è quel blocco di potere di matrice liberal-azionista, cattocomunista e radicalsocialista, che ha fatto col Risorgimento l’Italia contro gli italiani, che si mise in sonno durante il fascismo fino al 25 luglio, che si ridestò nella Resistenza per aggiornare l’Italietta da bellepoque a quella da Teatro delle Vittorie, che partorì questa Costituzione e che ha governato con un piede oltre il Tevere e l’altro oltre la Manica, campando di guerra fredda, intraprendenza e virtù civiche al Nord, cooperazione, turismo ed arte al Centro, clientelismo, assistenzialismo e mafia al sud.

Era quella l’Italia dell’arco costituzionale, in cui la conventio ad excludendum del MSI quale erede del Fascismo, era oltretutto il paravento per impedire all’Italia di rimettere in discussione se stessa, il suo processo formativo, la sua stessa storia unitaria. Il Risorgimento era implicito nella Resistenza e Resistenza e Costituzione furono e sono i due i sacramenti della religione civile dell’attuale Repubblica. La Repubblica antifascista nata dalla Resistenza si inserisce in una linea di ininterrotta continuità col Risorgimento, di cui paradossalmente è parte integrante anche il Fascismo. Non a caso esso rivendicava a sè il compimento della rivoluzione nazionale iniziatasi con il Risorgimento, colmando attraverso l’inserimento e l’integrazione delle masse nello Stato nazionale le lacune del parlamentarismo elitario dell’Italia liberale e in fondo rivendicando a sé la creazione di una sostanziale democrazia nazionale e popolare, assai più vera rispetto al simulacro costituito da quella dei notabili liberali. Caduto il Fascismo, la continuità dell’Italia repubblicana con quella risorgimentale  monarchica sarà garantita attraverso il mito della Resistenza.

Tutte le diverse e contrapposte famiglie ideologiche riaffiorate dopo il Fascismo, a partire dal Partito d’Azione leggeranno la Resistenza come secondo Risorgimento: ciò varrà anche per il PCI che, aderendo alla la lettura rivoluzionaria del Risorgimento proposta da Antonio Gramsci, vedrà nella Resistenza l’occasione per compiere quella rivoluzione sociale mai definitivamente attuatasi nel Paese.

Questo legame strettissimo tra Resistenza e Risorgimento era già presente durante la stagione della guerra partigiana, quando le Brigate comuniste presero il nome proprio da Garibaldi e rimarrà ben visibile proprio nell’immediato dopoguerra quando il Fronte popolare (l’alleanza che raggruppava oltre il PCI e il PSI, la Democrazia del Lavoro, l’Alleanza Repubblicana Popolare, il Movimento Cristiano della Pace, il Movimento Rurale e il Movimento di unità socialista) assunse nelle elezioni del 1948 come propria effige il volto dell’ eroe dei due mondi.

Sempre a causa della volontà di ricongiungersi al Risorgimento, il Partito d’Azione di Ferruccio Parri e di Emilio Lussu (erede dell’esperienza politica di Giustizia e Libertà, il movimento antifascista fondato dai fratelli Rosselli, assassinati in esilio da sicari dell’OVRA), assumerà lo stesso nome dell’aggregazione che nel 1853 era stata fondata da Giuseppe Mazzini, all’interno di quel vasto progetto politico che unì Casa Savoia a Camillo Benso Conte di Cavour e a Giuseppe Garibaldi, che unì cioè tutti coloro che - al di là delle profonde differenze che esistevano tra loro – predicavano una radicale riforma della cultura del Paese, che lo allontanasse definitivamente dalle sue radici cattoliche e controriformistiche, ritenute il principale ostacolo al suo processo di modernizzazione.

Nel secondo dopoguerra, mentre l’intera galassia delle forze di ispirazione laica è all’opera per conformare ai propri presupposti dottrinari la cultura dell’Italia repubblicana, la presenza cattolica è ben tollerata dalle forze occidentaliste solo come argine al comunismo, cui ogni male si rimprovera, ma che - al di là della contrapposizione geopolitica - appartiene comunque al medesimo humus culturale laicista e svolge in ogni caso l’importante compito di strappare vasti strati popolari all’influenza culturale del cattolicesimo.

Tra il resto il mondo cattolico tornava alla politica dopo i decenni del Non expedit (1) prima e la breve esperienza del Partito popolare di don Sturzo poi, peraltro maldigerita dal Vaticano, che infatti lo abbandonò al proprio destino, quando parve che l’interesse della Chiesa ad arginare il pericolo socialista e comunista del primo dopoguerra meglio potesse essere realizzato facendo conto sul blocco d’ordine, di cui il Fascismo avrebbe preso la guida.

Il cattolicesimo popolare andò in soffitta fino alla caduta del Fascismo, quando riemerse come cattolicesimo democratico. Di fatto largamente influenzato dal pensiero modernista, esso tendeva via via sempre più ad affrancarsi dalla Chiesa, rivendicando la propria autonomia in ambito temporale, come ben si dimostrò nella vicenda del 1952, allorché De Gasperi oppose un fermo rifiuto alle volontà di Pio XII di una lista unitaria per il Comune di Roma tra democristiani, monarchici e missini, guidata da Luigi Sturzo e con l’intento di contrapporsi ai partiti di sinistra. L’operazione sostenuta da Gedda, fondatore dei comitati civici, determinò anche il dissenso e le dimissioni di quasi tutti i dirigenti dell'Azione Cattolica, della quale Gedda era nel frattempo diventato presidente.

Insomma la Chiesa tramite la DC restava confusamente estranea e confusamente alla guida di un’Italia che era nata senza di lei, che di lei si serviva, ma di cui non vedeva l’ora di sbarazzarsene.

In questo contesto lo spettro comunista rendeva per la Chiesa impraticabile qualsiasi altra opzione che quella di assecondare le forze occidentaliste ed atlantiche, mobilitando le masse cattoliche a fare diga contro la minaccia rossa. Ciò senza che il partito di maggioranza relativa, espressione del cattolicesimo democratico, avesse alcuna nostalgia temporalistica o nutrisse verso le istituzioni statali quella diffidenza che aveva invece contraddistinto il movimento cattolico fin dai tempi di Pio IX. Si può dire che il cattolicesimo democratico, dopo avere assimilato il modernismo, si assimilava volentieri al mondo, specie se ne poteva occupare i posti di potere.

Tuttavia come eredità inconscia della vecchia opposizione cattolica all’Italia risorgimentale, rimaneva nella pancia del cattolicesimo democratico una certa allergia per l’idea nazionale, che si sposò bene da un lato con l’internazionalismo proletario di matrice marxista e dall’altro con un certo universalismo libertario che, in base agli immortali principi dell’89, brandiva contro ogni nazionalismo il vessillo della fratellanza tra i popoli e che i cattolici democratici accoglievano di buon grado, credendo erroneamente fosse solo e nient’altro che il prodotto secolarizzato della fratellanza evangelica.

In tal modo il docile pragmatismo democristiano non sanò, ma si limitò a coprire l’antica ferita nazionale. Così sbiadì ulteriormente l’identità della Patria, che agevolò la crescita di un odio di sé, alimentato anche dal progressivo diffondersi delle idee dell’internazionalismo proletario, veicolato dapprima dalle sinistre e a partire dalla metà degli anni ‘60 dai vari germi negativi della beat devolution: come la pseudo rivoluzione politica degli anni ‘60-‘70 ebbe come precipitato reale la sola rivoluzione sessuale, così l’internazionalismo proletario e l’ideologia della fratellanza universale crearono in realtà le premesse per la cultura della globalizzazione mondialista.

Peraltro l’Italia non apparteneva ai cattolici, che l’avevano subìta; non ai socialisti, che la governavano, ma quasi con vergogna; non ai comunisti, che non l’avevano ancora conquistata; non ai fascisti; che l’avevano persa. Forse apparteneva ai liberali, che però erano in via di estinzione. Non apparteneva agli industriali, che se ne erano sempre serviti; non agli operai, che non si sentivano rappresentati; non ai contadini, per i quali la terra era anzitutto quella da lavorare.

L’Italia era orfana dalla nascita e appariva davvero come una costruzione artificiale, voluta da pochi ed amata quasi da nessuno. Forse solo la Prima Guerra Mondiale aveva generato nel sangue sparso e rappreso di migliaia di giovani innocenti, mandati al massacro nell’inutile strage che segnò l’inizio della guerra civile europea, un cemento di unità e forse - paradossalmente - solo sotto il Fascismo l’Italia essa ebbe coscienza ed orgoglio di sé.

Oltre queste brevi parentesi l’Italia come nazione appare sempre allergica a se stessa, costruita artificialmente da poche selezionate elites, secondo idee e progetti che non appartenevano, né appartengono al suo substrato reale. Una Patria di patrigni, generata in vitro, partorita prematura, cresciuta nella conquista e nella rapina ed allevata all’odio di sé in una guerra (di religione all’inizio e civile alla fine) che la attraversa dai tempi della lotta al brigantaggio fino agli anni di piombo.

Lo scontro politico in atto è solo l’ultimo capitolo finora non cruento di una patologia irrisolta, cresciuta all’interno di un corpo sociale e politico privo di un’anima. E ciò non è un caso: come riconosce anche Ernesto Galli della Loggia – perché «lItalia è lunico Paese dEuropa (e non solo dellarea cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero siano avvenute in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale. Lincompatibilità tra patria e religione, tra Stato e Cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato nazionale» (2).

(continua)

Domenico Savino

Frankenstein-politik (parte II)



1) Non expedit è il Decreto della Curia romana, emesso nel 1874, con il quale si consigliò ai cattolici italiani di non partecipare alle elezioni politiche nel Paese e, per estensione, di non partecipare alla vita politica italiana. Quella che all’inizio molti interpretarono solo come un’esortazione, nel 1888 si trasformò con un decreto della Congregazione del Sant’Uffizio in una vera e propria proibizione.
2)
Confronta Ernesto Galli della Loggia, «Liberali che non hanno saputo dirsi Cristiani», in Il Mulino, numero 349, Bologna, 1993.


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