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Si smonta il teatrino delle illusioni
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«I profitti aziendali salgono, le imprese siedono su miliardi di dollari di liquidità», si lamentava qualche giorno fa il Washington Post, «eppure i loro direttori generali non assumono e non fanno investimenti, che sono gli ingredienti necessari per la ripresa».

E come mai?

Occorrono più forti «stimoli», prescrivono i democratici e progressisti in genere; occorre abbassare ancora le tasse e ridurre ancor più le regolametazioni (ancor più? In America?) prescrivono i repubblicani e i loro padroni della finanza. Insomma, le solite ricette che non hanno funzionato. I grandi manager delle imprese reali dicono che nè l’una nè l’altra servono. Il fatto è che è inutile assumere lavoratori e non ha senso fare invesimenti (in che cosa, poi?), visto che i consumatori non consumano più.

«I consumatori USA deluderanno per molti anni», si teme, «sicchè è difficile che si torni alla prosperità, ininterrotta per 25 anni, che precedette la crisi finanziaria...».

Quella «prosperità» che si reggeva sul super-consumo a credito non regge più; la gente è stata abbastanza indebitata e si rifiuta di farsi indebitare oltre. Si spargano pure dollari dagli elicotteri, si inietti liquidità, si inventino sempre nuovi «stimoli», si abbassino ancora le tasse ai ricchi, tutto è inutile: come si diceva una volta, il cavallo non beve, anche se gli si fa vedere l’abbeveratoio pieno. Ciò crea disappunto nei padroni del vapore. I cittadini, consumatori e contribuenti, li stanno deludendo.

Ancor più deluso, il New York Times del 21 agosto, segnalava con allarme la fuga dei piccoli investitori dalla Borsa: «Nei primi sette mesi dellanno, i piccoli risparmiatori hanno ritirato la colossale cifra di 33,12 miliardi di dollari dal mercato azionario interno», più precisamente reclamando i loro investiumenti da fondi mutui o fondi pensione. E ciò, notate, mentre la Borsa stava di nuovo salendo. Che disappunto! (In Striking Shift, Small Investors Flee Stock Market)






E pensare, spiega il New York Times, che da decenni i piccoli risparmiatori erano diventati «più responsabili nel pensare alla loro pensione», e avevano investito tanto nelle azioni, sia direttamente sia attraverso i fondi comuni d’investimento. Fino ad oggi, hanno sempre risposto all’invito degli speculatori, dei loro economisti e giornali-maggiordomi («Tutti azionisti!»), tornando dopo ogni crisi ad affidare i loro pochi soldi a Wall Street, sicuri – come gli si ripeteva che «le azioni, nel lungo termine, sono gli investimenti più sicuri e profittevoli».

Ora questa loro fede è intaccata. Hanno approfittato dei rialzi in Borsa per intascare i profitti (o ridurre le perdite) ritirando i loro investimenti, e mettere i loro risparmi – o quel che ne restava – in Buoni del Tesoro, che non rendono niente.

Ciò è estremamente disappointing per i pescecani di Wall Street, esattamente come, alle fiere di paese, gli specialisti del gioco delle tre carte constatano che, nonostante i compari puntino un sacco di soldi e vincano grossi mazzi di banconote, gli astanti (i polli, nel gergo del mestiere) se ne stanno alla larga e se ne vanno scuotendo il capo.

A Wall Streeet sono rimasti a puntare i compari, fra loro. Non c’è più modo di spennare i polli, sicchè tutto il gioco non dà più gusto. Bisogna smontare il tavolino pieghevole e andare in un’altra fiera, sperando in polli nuovi e più ingenui.

Campa cavallo. Accadde lo stesso dopo la crisi del 1929: una intera generazione si ritirò, scottata, dalla Borsa, e non vi tornò più. Occorse aspettare che nascesse, e giungesse all’età adulta, una nuova generazione, che non aveva avuto esperienza personale della tragedia sociale provocata dalla finanza senza limiti, nè memoria tramandata su quel che era successo.

Solo molti anni dopo i compari avevano potuto rimettere il tavolino pieghevole e ripetere il vecchio solito gioco a nuovi gonzi: «Diventate tutti azionisti! Guardate quanto si vince! Guardate Soros, guardate Goldman Sachs! Vedete, le azioni sono linvestimento più sicuro e profittevole! Preparatevi una vecchiaia da milionari!». E ancora: «Azionariato popolare! Privatizzate la previdenza sociale! Solo, lasciateci lavorare con le tre carte, siamo più esperti di voi in questo gioco! Non ci mettete nuove regole, sennò addio profitti...».

E’ stato bello finchè è durato. E potrebbe durare ancora, se quei polli non fossero così disappointing. Invece il cavallo non beve. E il pollo non la beve più. Sicchè è colpa sua se cadiamo nella più grande, grandissima depressione della storia, se la ripresa appena annunciata è diventata, in pochi giorni, la paura di un secondo crollo (double dip) proprio come avvenne negli anni ‘30.

Lorsignori temono – non a torto – che si instauri «a long-term shift in psychology», «un duraturo cambiamento della psicologia» del consumatore-risparmiatore-contribuente che ha pagato per tutti i loro giochi sperando di partecipare alle briciole dei loro arricchimenti di carta. Soprattutto «duraturo», il che fà paura, perchè significa che il teatrino del supercapitalismo redditiero e finanziario non attrae più; e senza polli in platea, l’intero teatrino crolla. Quinte e fondali stanno cadendo e mostrano dietro le macchine da scena con cui si facevano i trucchi e le luci degli effetti speciali; dollari di carta e scenari di cartapesta devono essere ripiegati e restare in magazzino chissà quanto, a prendere polvere.

Comincia l’epoca della dura, durissima realtà, o di altri maghi e illusionisti di diverso genere.

Sicchè, è la super-grande Depressione mai vista prima. La deflazione durevole, il seccarsi degli investimenti e degli impieghi nonostante l’inondazione di liquidità. E il secondo super-crack delle insolvenze non solo private, ma di Stato – a catena.

Gli addetti ai lavori si domandano se le Banche Centrali hanno ancora i mezzi per intervenire come fecero nell’autunno del 2008 con i colossali salvataggi delle banche e della speculazione; constatano che i mezzi non ci sono più, che i trucchi  della creazione di denaro dal nulla per consumare a rate fanno ormai cilecca, che non si può più agire sulla congiuntura, che bisogna agire sulla struttura, perchè la crisi è strutturale, e il rimedio dovrà essere strutturale.

La struttura del capitalismo va cambiata. In breve e chiaro: finirla con «lextraterritorialità morale della finanza», come scrive l’economista Paul Jorion. Da decenni ormai, spiega, i governi occidentali hanno varato legislazioni che «esentano dai limiti previsti per il gioco dazzardo ogni operazione che potesse essere definita operazione finanziaria».

Il risultato è questo, sotto i nostri occhi. Gli incendi in Russia hanno mandato a male i raccolti cerealicoli, e i fondi speculativi – anzi perfino i Fondi Pensione – stanno comprando a man bassa materie prime agricole. Il che avrà effetti disastrosi in fame e rincari, ma gli stessi speculatori non possono farci nulla: sono costretti a farlo, per sperare di recuperare in parte le perdite precedenti.

Occorre una legislazione che vieti, puramente e semplicemente, le scommesse sulle fluttuazioni dei prezzi, e che consenta solo i mercanti fisici di cereali di partecipare al mercato a termine delle materie prime. Più in generale, occorre inquadrare la speculazione sotto il diritto, rimetterla al suo posto, assoggettarla di nuovo alla responsabilità morale e sociale.

Ciò salverebbe persino i finanzieri da se stessi. Ma non accetteranno mai, e vorranno continuare il gioco delle tre tavolette, e pagheranno i politici, i giornalistie gli economisti per salvare quel loro gioco dei profitti privati a prezzo delle perdite pubbliche.

E non è solo disonestà e malafede: è l’impossibilità culturale di pensare un mondo nuovo e nuove soluzioni. Lorsignori lo dimostrano proprio quando lamentano che il consumatore li delude, che il piccolo azionista li riempie di disappunto: nemmeno li sfiora il dubbio che siano i consumatori, gli azionisti e i cittadini ad avere il diritto di essere delusi. Il teatrino, anche crollando, mantiene la sua presa ideologica di illusione.

Un altro indizio nello stesso senso lo dà Eric Palmer, uno specialista delle faccende del Pentagono. Egli prevede il collasso dell’impero americano, ma dice: «Il crollo dellAmerica farà sprofondare il mondo nellEtà Oscura»... (America's collapse will move the World into the dark ages)

Come se quella a cui l’America ci ha portato nel breve giro di un decennio – l’economia reale dell’Occidente collassata dalla finanza che l’America ha voluto globale e senza regole, la disoccupazione galoppante e la perdita di competenze di un’intera generazione, guerre senza scopo che divorano miliardi e vite umane, lo spregio del diritto internazionale, la crisi climatica e di sovra-sfruttamento delle risorse, la crisi politica di classi dirigenti che non hanno la minima idea di come gestire i problemi che hanno creato con la loro volontà di gigantismo senza confini – fosse l’Età Luminosa.

La verità è che proprio l’America terminale, con l’applicazione incontrastata e rigorosa della sua ideologia, ci ha trascinato nell’Età Oscura. Ma il teatrino continua a imporre la sua illusione anche mentre i macchinisti già smontano i fondali, e le luci della ribalta si spengono per mancanza di elettricità.

Pochi se ne accorgono. Fra i pochi, va notato Gerald Celente, un economista-futurologo che ha azzeccato la previsione del collasso 2008.

«
Non ci sarà alcun double dip, secondo crollo», dice gioviale, «perchè il primodipnon è mai terminato. Non cè via di salvezza finchè non si ricostruisce la capacità produttiva in Occidente», che invece ha spedito la propria capacità produttiva a Cina, India, Asia in genere.

«
Non si può uscire dalle peste stampando moneta», continua Celente, «e nemmeno con quelli che chiamano programmi di austerità... Che stanno facendo? Stanno salvando le banche e fanno pagare il conto alla gente».

La gente americana è, secondo lui, tentata dalla rivoluzione. E consiglia un investimento sicuro: «La ghigliottina. Ecco un prodotto con un grande futuro». (Economic forecaster: ‘Greatest Depression’ coming)

Speriamo che azzecchi anche questa previsione.



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