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Arriva l’autarchia. Per forza.
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Michel Barnier, il ministro francese dell’Agricoltura, s’è preso una velenosa reprimenda dal Financial Times: «Vuole consolidare l’autosufficienza alimentare dell’Unione Europea»,
si scandalizza l’organo ufficiale del dogma liberista, «e persino esorta i Paesi in via di sviluppo a fare altrettanto. E’ la lezione sbagliata che trae dalla crisi globale alimentare» (1).

La lezione giusta, per il Financial Times, è ovviamente: abolire tutti i dazi, intensificare il commercio planetario di prodotti agricoli e di allevamento. Aumentare la dipendenza dall’estero, insomma.

La minacciosa lezione può sembrare giunta nel momento sbagliato, ossia quando il greggio ha superato i 120 dollari il barile e, per l’OPEC, può facilmente arrivare a 200, rincarando tutti i trasporti e la stessa produzione agricola alla fonte, dato che  rincara anche il costo della manovra dei trattori, quello dei concimi chimici, e persino il calore nelle serre. D’altra parte, la casta sacerdotale del liberismo finge di dimenticare che già oggi l’Europa è il primo importatore mondiale  di alimenti, e il suo import è cresciuto del 20% negli ultimi cinque anni.

La metà dei piselli che l’Europa consuma vengono dal Kenia. La Spagna importa limoni dall’Argentina, mentre i limoni che la Spagna produce spesso non vengono raccolti perchè il loro costo «non è competitivo». La  Spagna, già grande esportatrice di frutta e primizie dalle sue serre nel sud, di recente è stata spiazzata  nei mercati dalle produzioni di Marocco ed Egitto, diventati i massimi fornitori di verdure fresche all’Europa centrale, grazie ai minori costi della manodopera e a trasporti migliorati: anni fa, un pomodoro marocchino ci metteva dieci giorni a raggiungerci, ora quattro.

L’Italia è diventata il più grande fornitore mondiale di kiwi, che esporta in tutto il mondo quando la Nuova Zelanda (in cui il kiwi ha origine) è resa improduttiva dall’inverno attuale; intanto, importa pomodori in scatola persino dalla Cina. La globalizzazione del cibo ha assunto aspetti paranoidi.

L’Inghilterra esporta ogni anno, ci si creda o no, 15 mila tonnellate di cialde dolci (waffles, quella semplice pasticceria che nei Paesi anglofoni si mangia con la melassa), e ne importa altrettanti, delle stesse waffles, da ogni parte del mondo. Le ditte inglesi mandano persino ogni anno 20 tonnellate di acqua minerale in Australia, e  comprano ogni anno dall’Australia una pari quantità di acqua in bottiglie.

Il merluzzo pescato in Norvegia viene spedito in Cina per essere  eviscerato e ridotto a filetti, e magari salato e asciugato, e torna poi in Norvegia da cui, detratto il consumo locale, viene di nuovo esportato in tutto il mondo. Ciò perchè, sulla carta, lavorare il merluzzo in Norvegia costa 2,70 dollari al chilo, e solo 46 centesimi in Cina.

Ma non sempre la «convenienza» (sfruttamento di manodopera a basso costo) è così evidente. Basta aver osservato per qualche ora il passaggio di frontiera a un valico alpino per accorgersi del viavai, su TIR fumosi e rumorosi, delle stesse merci nelle due direzioni: scendono da noi maiali che compriamo dalla Germania, salgono a nord camion di maiali vivi che la Germania compra da noi. La saggia decisione - ognuno si tenga i suoi maiali, come già facciamo per i politici - non sfiora nessuno.

Fino ad  ieri, almeno, perchè ora l’eurocrazia di Bruxelles sta pensando di  mettere un limite a questo bizzarro e superfluo viavai di carichi nel mondo. Naturalmente, per la ragione sbagliata: ridurre le emissioni.

Bruxelles ha ordinato alla Oxford University uno studio per calcolare a quanto ammonti il «costo ambientale» di portare per nave ed aereo waffles e pomodori, uva fresca e kiwi da una parte all’altra dell’emisfero (2).

I kiwi della ditta italiana Sanifrutta ci mettono 18 giorni per raggiungere gli USA, 28 per il Sudafrica e un mese per la Nuova Zelanda (eh sì, i neozelandesi vogliono mangiare i loro kiwi fuori stagione). Quanto contribuisce questo  trasporto all’effetto-serra? Solo il 3%, ha dovuto ammettere Oxford. Ma che diventa di più se si tiene conto delle refrigerazione, grande consumatrice di energia. Poco o molto, non importa. Quando gli  eurocrati vedono un problema, la loro decisione di complicarlo è inarrestabile.

Dal 2012 o anche prima - hanno deciso - tutti i voli cargo che portano merci in e dall’Europa al mondo saranno inclusi nel meccanismo dei Protocolli di Kyoto. Il che significa che dovranno comprare, per l’inquinamento che generano, «permessi» dalle ditte o nazioni che hanno «crediti ambientali».

Il sistema di Kyoto è di per sè mostruosamente macchinoso. Gli eurocrati, avendo deciso di accorciare la catena dei rifornimenti per la ragione sbagliata (non l’autosufficienza alimentare in Europa, bensì  ridurre l’effetto-serra), lo rendono cervellotico fino all’inapplicabilità.

Come misurare, infatti, il «debito» di emissioni da far pagare? La distanza che una tonnellata di carne o verdure percorre per arrivare sulle nostre tavole non è di per sè, è stato obiettato, in proporzione diretta all’inquinamento.

La frutta prodotta in Kenia e portata in Europa consuma meno energia di quella prodotta localmente, perchè là non c’è bisogno di serre riscaldate. La Nuova Zelanda (così lontana, poveretta, dai mercati) fa notare che per noi è meglio comprare i suoi agnelli e le sue verdure estive quando da noi è inverno, perchè servendoci da loro risparmiamo sulla refrigerazione, cui saremmo obbligati se volessimo conservare per mesi mele e cosciotti nostrani.

Per fortuna, tra le elucubrazioni e i ponzamenti, nelle teste (di legno) eurocratiche è albeggiata  anche la soluzione semplice ed autentica. Quale?

Si sono accorti che se conviene portare pomodori dalla Cina in Italia, è perchè i carburanti navali ed aerei per questi trasporti internazionali costano troppo poco. E non è questo un fenomeno naturale. E’ l’effetto di precisi trattati internazionali.

Nel 1944, per sostenere le proprie compagnie aeree, gli Stati Uniti imposero una Convenzione Mondiale sull’Aviazione Civile, firmata a Chicago: in base alla quale il kerosene per i trasporti cargo internazionali (ossia che passano una o più frontiere) sono completamente esenti da tasse, tributi e accise. Ovviamente anche le navi comprano il carburante - a tonnellate - in totale franchigia.

Insomma: i nostri camionisti nazionali pagano il diesel come Chivas Regal, caricato di imposte, balzelli e accise, mentre gli armatori navali globali restano esentasse, e lo pagano come acqua. Un’Europa che ha abolito il duty free negli aeroporti, avida di  porre tasse su una stecca di Marlboro, negli stessi aeroporti riempie i serbatoi di enormi Boeing di carburante duty free.

La soluzione sembra a portata di mano: tassare il carburante dei cargos, marittimi e terrestri, e si ridurrebbe il fantomatico effetto-serra e insieme (ma senza intenzione) la «convenienza» di far girare nel mondo freneticamente maiali e kiwi, piselli e merluzzi. Con un incentivo (involontario) alla preferenza nazionale, o europea. Meglio mangiare i prodotti che sono nati vicino a noi.

La semplicità della soluzione però è solo teorica. Bisogna convincere il mondo ad abolire la Convenzione di Chicago, e naturalmente i grandi esportatori emergenti non ci vogliono sentire.

La Commissione s’è imbarcata - è il caso di dirlo - in una  trattativa con l’organizzazione armatoriale mondiale, la International Maritime Organization, allo scopo di «studiare insieme varie alternative per ridurre i gas-serra»: messa così, è ovvio che la trattativa può durare secoli, senza che gli armatori si lascino indurre volotariamente a comprare carburante tassato.

La tassa, poi, dovrebbe essere globale, ossia applicata da tutti i paesi... cosa più irrealistica di ogni altra utopia che dalla Rivoluzione del 1789 allo stalinismo abbia mai schiacciato l’Europa. Alla fine, a decidere sarà il puro e semplice rincaro del greggio. A 200 dollari il barile, anche il merluzzo diverrà convenientemente baccalà in Norvegia. A questo punto, l’autarchia sarà  imposta dai fatti.

Dovremo tornare a produrre le nostre granaglie e il nostro latte. Ma quando avverrà, bisognerà sottrarre la PAC (Politica Agricola Comunitaria) a questi eurocrati che l’hanno avuta in mano per mezzo secolo  a nostro estremo danno.

Le euroteste hanno speso un fiume di miliardi di marchi ed euro per ottenere insieme scopi contraddittori: «salvare» l’agricoltura europea e «modernizzarla» ossia industrializzarla ossia espellere le piccole imprese, aumentare l’interdipendenza intra-europea, ridurre i surplus e mantenere gli agricoltori a curare il «paesaggio», favorire l’Olanda sull’Italia (sempre mal rappresentata a Bruxelles) ed ogni altra lobby con accessi privilegiati (leggi: promuovere gli OGM), fare un po’ di protezionismo ma senza farsene accorgere... tutto questo ha prodotto disastri, e qui bisogna dar ragione al  Financial Times.

Basta ricordare gli anni non lontani in cui, dopo aver sussidiato gli agricoltori perchè aumentassero il numero di bovini, la Comunità ha sussidiato gli agricoltori perchè uccidessero i bovini. Nel frattempo, multava l’Italia perchè produceva  «troppo» latte, mentre l’Italia  importava metà del suo fabbisogno di latte e derivati. Ciò mentre l’Olanda produceva latte a volontà e ne esportava, essendo i suoi costi minori per il seguente motivo: le sue vacche non pascolavano, del resto l’Olanda non ha terreni, ma chiuse in gabbioni davanti ai grandi porti olandesi, venivano ingozzate con panelle di soia appena scaricate dalle navi giunte dall’altro lato del mondo.

Ecco: questa non è l’agricoltura di cui l’Europa ha bisogno per i decenni di crisi e rincari che ci attendono. Essa deve essere guidata da uno scopo strategico, limpido e dichiarato: l’autosufficienza alimentare, come dice il ministro Barnier. Proprio per questo, dovremmo esautorare  Bruxelles.

O almeno aggirarla. Come fece il filosofo Vittorio Mathieu - la cui moglie è una allevatrice piemontese - che osò aggiungere una stalla-modello a quella azienda agricola, proprio negli anni in cui altri ricevevano incentivi per l’abbattimento di vacche.

Mathieu proclamò che la sua nuova stalla era stata concepita per produrre  letame. «Il latte è solo un sottoprodotto (by-product) del letame», un sottoprodotto accidentale e non voluto (3). Difatti, non pensava di vendere il latte, «il cui prezzo continua a calare», mentre «per il letame i clienti si prenotano mesi prima, telefonano di continuo per sollecitare, vengono di lontano a caricare essi stessi, pagano in anticipo».

Nell’ironia swiftiana, il filosofo-coltivatore aveva colto una verità: i veri agricoltori avevano constatato, e da anni, che coi concimi chimici il terreno s’induriva, e l’aratura richiedeva un maggior consumo di gasolio dei trattori; il letame organico naturale, sottoprodotto delle vacche da latte, era davvero molto richiesto.
Ma questa è un’altra storia.




1)
«Barnier’s barriers», Financial Times, 28 aprile 2008, commento non firmato. «The global food crisis should actually be a good opportunity to reform agriculture by lifting farmers off subsidy and tariff protection and getting global markets to work better. But though some emergency policies are going in the right direction - developing countries cutting food tariffs and the EU dropping its ‘set-aside’ policy of paying farmers not to grow food - many of the longer-term policy responses being mooted would make things worse. Raising tariff walls yet higher is one such. Trade barriers provide a disincentive to developing countries to invest in agricultural production and export capability by removing a potential customer. Access to international markets raises incomes, often by several hundreds of per cent, for poor farmers. Cutting off that source of income reveals the emptiness of France’s conception of itself as a country that truly cares about the developing world. This is not just a bad idea. It is a potentially lethal one. It should be discarded».
2) Elisabeth Rosenthal, «Environmental cost of shipping groceries around the world», New York Times, 26 aprile 2008. «Europe is poised to change that. This year the European Commission in Brussels announced that all freight-carrying flights into and out of the European Union would be included in the trading bloc’s emissions-trading program by 2012, meaning permits will have to be purchased for the pollution they generate».
3) Vittorio Mathieu, «Il letame nella politica internazionale», in «Elzeviri Swiftiani»,  Spirali, 1986, pagina 41.


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