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Un tibetano
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Portato da amici a Pomaia, centro tibetano il Toscana, non ho letto giornali nè saputo notizie per due giorni. Sono  pacificamente disinformato, ma - se posso dirlo - edificato.

Una sera invitiamo a cena in un ristorante «vero» - nè vegetariano nè analcoolico - il signor Ngwang Tsondue. Noi beviamo, fumiamo, mangiamo; lui beve acqua e partecipa, allegro, evitando la carne. A un certo punto, dice che deve andarsene: deve fare la sua ora di preghiera serale.

Converrà notare che l’uomo è un laico, non un monaco: vive fabbricando piccoli oggetti-ricordo, che sono oggetti rituali, venduti poi nello spaccio del centro. Non ha mai visto il Tibet ed è nato in India da genitori profughi, vive da un decennio in Italia. E’ sposato, ha una figlia e sua moglie ne attende un’altra. A nostra domanda, lascia capire che la sua prima bambina è handicappata.

Racconta in breve che la gravidanza è stata difficile, tanto che sua moglie fu portata d’urgenza
in elicottero all’ospedale di Grosseto.

Lì, un medico gli ha detto chiaro: la bambina non sarebbe nata sana, volete abortire? Nel ricordo, i suoi occhi hanno un lampo inequivocabile, vivono la lacerazione di quel giorno: il solo fatto che, in un’altra civiltà, gli si possa proporre una simile «scelta», è già una tentazione, terribile.

«Io e mia moglie abbiamo detto no». La bambina, ora, è cieca, muta e sorda, non dà segni di vita intelligente. Ha sei anni, sta in carrozzella.

«E’ pesante», ammette della situazione: «E’ il nostro karma, qualcosa che abbiamo fatto in una vita precedente». Poi aggiunge, nel suo italiano a cui sfuggono le parole esatte per dire quello che prova: «Così è meno pesante».

Mi viene da pensare che ogni cristiano, come ogni ebreo, di fronte a una simile esperienza, avrebbe l’impulso di accusare Dio: perchè hai fatto questo a questa creatura innocente? E anche: perchè proprio a noi, che ti siamo devoti?

E’ il problema del male - lo scandalo del male all’innocente - così difficile da digerire per chi, come noi, crede a un Dio insieme personale, onnipotente e buono. Secondo Albert Camus («L’Homme Revolté»), tutte le patologie e le convulsioni dell’Occidente moderno - dal romanticismo al socialismo totalutario - nascono dal rimprovero a Dio per il male, dalla rivolta contro Dio che manda il dolore.

Il Satana di Milton già disprezza Dio per questo: «E chi oserebbe invidiare chi dal più alto luogo a sofferenze senza termine?». Il dolore così continuo e ingiusto autorizzano la rivolta (di Satana).

Ivan Karamazov fa un altro passo, fatale: «Non nega l’esistenza di Dio, la rifiuta in nome di un valore morale. Se il male è necessario alla creazione divina, allora  questa creazione è inaccettabile... Ivan prende le parti dell’uomo, e afferra che la condanna a morte che pesa su di loro è ingiusta... per la prima volta è aperta qui la lotta della giustizia contro la verità… ancora qualche decennio, e una immensa cospirazione politica mirerà a fare, della giustizia, la verità».

Dostojevsky l’aveva intuito chiaramente, questo rigetto metafisico negli anarchici, nei socialisti, negli ossessi attentatori e terroristi  del suo tempo: «Il socialismo non è anzitutto la questione operaia, è anzitutto la questione dell’ateismo, la torre di Babele da costruire senza Dio, non per raggiungere dalla terra il cielo, ma per abbassare i cieli fino alla terra». Fanno la giustizia che il Dio cristiano o ebreo, il Dio personale, secondo loro  non sa o non vuole fare.

Il Grande Inquisitore dostojeskiano già prefigura quel che avverrà in Russia: «Noi saremo Cesare, e allora penseremo al bene universale». Commenta Camus: da allora, verranno gli «inquisitori che rifiutano fieramente il pane del cielo e della libertà ed offrono il pane della terra senza libertà», e sono i dittatori comunisti; ma oggi, siamo più  in basso.

Oggi l’aborto viene offerto in clinica, e  accettato massicciamente, con la scusa di non far soffrire l’innocente che deve nascere, e soprattutto, noi genitori «innocenti»: non merito questo peso, questa punizione. Invece il signor Ngwang, per quella figlia nata cieca e immobile, non ha un Dio contro cui protestare.  Dice: è colpa mia.

La conseguenza di qualcosa che ho fatto in un’altra vita e che non ricordo, perchè la rinascita è un trauma, nel non-illuminato, è un trauma, «come un incidente d’auto», dice. Ma quella figlia disgraziata è sicuramente frutto del suo karma di genitore. E da questo trae conforto: «E’ meno pesante così», se sai la ragione: azioni malvage determinano conseguenze penose, nella infallibile ruota delle esistenze: dunque...

Per quella figlia cieca e muta e paralizzata hanno fatto di tutto, mamma e papà. L’hanno portata anche in India, a Bodghaya, racconta. Non capiamo: perchè, là ci sono dei buoni medici? Per curarla? «No, per dare a nostro figlia un miglior karma futuro». Un pellegrinaggio a Bodghaya, presso Benares, dove il Buddha conseguì la Liberazione, accumula «meriti» che non saranno senza conseguenze. La figlia, dopo questa vita sulla carrozzella, rinascerà in condizioni migliori.

Non se se questa speranza possa chiamarsi teologale: certo è che è invincibile e commovente. Parla del Dalai Lama, di come si ride insieme quando viene a trovarli. I tibetani in Italia sono più o meno duecento, e il Dalai Lama li conosce tutti, cena e dorme da loro. Il Dalai Lama l’ha benedetto, ha benedetto la bambina: altro merito accumulato.

Il signor Ngwang racconta quel che ripete a questi duecento, che da troppo tempo sono in una cultura straniera, dov’è difficile la pratica: «Almeno, quando avete la testa sul cuscino, non vi addormentate senza prima aver passato in rassegna  i vostri atti di karma cattivo, e di karma buono».

Noi cattolici, questo, lo conosciamo: è l’esame di coscienza, che oggi pratichiamo sempre meno (parlo per me anzitutto). Con buona pace delle signore italiane che frequentano il centro «Lama Tzong Khapa» di Pomaia, vestitissime da buddhiste tibetane, a fare le «meditazioni» e gli «esercizi», in quei due giorni non ho trovato nè promesse di miracoli, nè di «poteri» preternaturali (siddhi), nè compiacimento per l’esotico e il mistero d’Oriente; ho trovato bensì una didattica per i primi, modesti passi dell’ascetica, che si può (o si poteva?) trovare presso un buon parroco.

Me lo confermano alcune scritte in italiano che spiegano la ragione dei numerosi stupa sistemati in giardino. Lo stupa è un momunento a forma di campana, che può o no contenere le ceneri di un santo lama,  o essere solo commemorativo dei lama che sono passati nel centro, e defunti. Con la devota cicum-ambulazione attorno a uno stupa, si ottengono «meriti».
Ma mi ha interessato la spiegazione di ogni gradino e zoccolo dello stupa, di cosa significhi. Qualche appunto scarabocchiato, e un po’ a casaccio: uno zoccolo alla base ricorda «i quattro sforzi perfetti», che sono:

- preservare le condizioni favorevoli che già esistono;
- produrre le condizioni favorevoli se non esistono;
- eliminare le afflizioni;
- evitare il sorgere delle afflizioni.

Altro zoccolo: ricorda le «Dieci virtù», del corpo, della parola e della mente:
- proteggere la vita;
- praticare la generosità;
- avere una vita corretta;

Per le «virtù della parola»:
- dire la verità;
- riconciliare.
- parlare in modo tranquillo e dolce;
- fare discorsi sensati (chiaramente noi giornalisti accumuliamo cattivo karma...).

Le «virtù della mente»:
 - non avere attaccamento;
- essere altruisti;
- credere in visioni corrette.

Vi ricorda qualcosa?

E’ ciò che facciamo - o dovremmo fare - come preghiera del mattino anche noi cattolici: rafforzare il proposito di comportarci, nelle occasioni della giornata che ci si presenteranno, cristianamente. La circum-ambulazione di uno stupa può dunque servire come preghiera del mattino, a ripassare le «cose» da fare e quelle da evitare  e gli atteggiamenti da tenere; un po’ come il check-out che i piloti fanno prima di un decollo, quando leggono sul manuale le verifiche da fare: flap, strumenti,  timone... E il check-out buddhista è ugualmente analitico e asciutto, si «spuntano» via via, si ricordano le cose una per una. Penso che mi sia utile anche come cristiano, e  per questo ne ho preso nota.

Al di là delle forme esotiche e delle enfasi tipiche della «retorica ecclesiastica» tibetana (è un buddhismo molto ecclesiale, molto strutturato), molto di quel che ho visto consiste in una precisa didattica ascetica di base, ben nota ai cattolici (o dovrebbe); gli atteggiamenti interiori suggeriti, per esempio. La continua  presenza a se stessi, che saremmo tentati di perseguire nevroticamente, diventa più comprensibile se la chiamiamo, come nei vecchi libri di devozione, «custodia del cuore». E l’entusiasmo costante cui si viene incitati è un invito a vincere «la tiepidezza», massimo pericolo per i cattolici, specie di noi contemporanei troppo attivi e niente contemplativi.

Poi ci sono, beninteso, gli stati superiori, indicibili, descritti pittorescamente  e miracolisticamente. Sulle ceneri di un santo lama cremato sul posto, ci assicura una scritta, si vide l’impronta del piede di un bambino rivolta verso Nord, segno della futura reincarnazione del principio che quel lama esprimeva in sè, e della direzione dove cercare il bambino privilegiato; su un’altra cremazione si sono visti arcobaleni e piogge di fiori... tutto ciò, in fondo, mi pare ricordare la cristianità medievale, una vita comune di fede ferma e ingenua, che faceva vivere in una natura incantata  dove il miracolo era possibile e presente.

Del resto, si apprende che quei santi lama sono morti uno di cancro, uno di tubercolosi, uno aveva il diabete... nulla di sovrumano, nessun potere sovrano sul corpo si attende dalle pratiche superiori. Lo stesso Buddha morì. Tutto ciò che ha una nascita, ha anche una fine.

Un’ultima parola sul nirvana, o meglio «nibbana», perchè il buddhismo parlava una lingua volgare del popolo, il pali («nirvana» è sanscrito, lingua coltissima e rituale, non parlata): esso è tradotto come «estinzione», la suprema estinzione dell’io individuale. Ma, come spiega Coomaraswami, la parola significa letteralmente «soffiar fuori».

Ciò che va «spento» è il fuoco che «arde», secondo Buddha, ogni atto dell’uomo naturale: ardono le sue membra, la sua psiche, arde la sua lingua e il suo cuore. Chi spegne soffiandoci sopra, una per una, queste «fiamme», non ha più io, non ha più nome.

Ma siamo sicuri che San Paolo intendesse una cosa diversa, quando scrisse: «Non sono più ‘io’ che vivo, ma Dio vive in me?». Inoltre, nella sua epistola, (III,6), l’apostolo Giacomo  grida: «Fuoco è la lingua!  (...) brucia la ruota della nostra esistenza ed è poi bruciata essa stessa nelle Gehenna».

E’ un pressante invito a tenere a freno la lingua (che mi accusa, personalmente): ma i termini usati potrebbe sottoscriverli Buddha Sakyamuni: la «ruota dell’esistenza» è la definizione del samsara, il vortice della vita di qua trascinata dai desideri e dagli odii, che spinge a rinascere in infinite «vite», che sono purgatori, pene (cattivo karma) da scontare.

Sono anzi inferni: e se l’inferno è temporaneo nel buddhismo, è solo perchè tutto ciò che ha un inizio avrà una fine. Ma dopo quanti eoni verrà una tal fine, meglio non chiedere.

Se vi ho dato l’impressione di eclettismoreligioso un po’ new age, mi dispiace. Mi ha commosso il signor Ngwang, artigiano di piccoli oggetti rituali che ha protetto la vita, e non ha incolpato la divina sapienza della sua disgrazia. Penso si possa sempre imparare da chi è migliore, e che la «nostra» ascesi cattolica, che mi pare un po’ tralasciata, dovremmo riprenderla con quello spirito buddhista: ossia con precisione, e spassionata analisi.


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