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Lo chiamano Amok
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La macellazione di un soldato in libera uscita, compiuta da due nigeriani con una mannaia in pieno giorno a Londra Woolwich, ha una evidente analogia con l’eccidio di tre milanesi commesso dal ghanese Kabobo a Milano Niguarda pochi giorni prima. A Stoccolma, in un quartiere degradato abitato da stranieri di colore, il 13 maggio un settantenne armato di machete è uscito in strada, ed è rimasto fuori controllo per un pomeriggio intero terrorizzando le persone del quartiere. La polizia ha fatto irruzione nel suo appartamento più tardi perché lui continuava a minacciare con questo machete dal balcone e c’era il sospetto che una donna fosse chiusa nell’appartamento con lui e fosse in pericolo; ha sparato e l’ha ucciso. Di qui i disordini violentissimi, con saccheggi e incendi, che sconvolgono la capitale svedese da giorni e notti.

Negri che di punto in bianco escono in strada ed ammazzano, con la stessa gratuita e improvvisa, gli stessi strumenti di morte primordiali, lo stesso odio indiscriminato e casuale contro vittime a loro sconosciute, ma solo identificate per la razza odiata, la bianca.

Esiste una malattia mentale «culturale» o etnica, dapprima segnalata da esploratori europei a Giava e nel Sud Est asiatico, che si chiama Amok. In un testo del 1516, il Barbosa (un parente ed ufficiale di Magellano) notava: «Ci sono alcuni di loro (giavanesi, ndr) che escono in strada ed ammazzano quante persone riescono a incontrare. Sono chiamati Amuco».

«Una specie di idrofobia umana, una follia rabbiosa, un accesso di monomania omicida, insensata», lo dice lo scrittore Stefan Zweig. La parola è d’origine malese. Il Manuale Diagnostico Statistico (il gran catalogo della psichiatria) la riconosce come malattia mentale specifica. Su Wikipedia, la sindrome è così descritta: «L'esplosione che segna l’esordio dell’Amok trae origine da un’offesa ricevuta e vissuta come intollerabile o, anche, dall’accumulo di tensione legato al sopportarne di successive. Il soggetto che è colpito da questa sindrome, dopo una breve fase di ritiro relazionale, aggredisce dapprima i familiari e poi gli estranei, in un crescendo incontrollabile di furia omicida. Nell’accesso di violenza corre velocissimo per le strade e tra i campi per poi, infine, accasciarsi. La manifestazione di violenza è poi seguita da amnesia e malinconico esaurimento».

Viene alle labbra il termine meno scientifico d’un’età più esperta del male: possessione diabolica.







Chiunque abbia dovuto fare il giornalista in Africa, durante qualcuna delle sue guerre o violenze frenetiche di massa, non ignora che qualcosa del genere colpisce anche i neri. A dire il vero, il video del giovanotto africano che parla e gesticola dopo il delitto a Londra, per nulla pazzo, agitando la mano rossa di sangue e tenendo nell’altra la mannaia da spaccaossa, è un’immagine in qualche modo tipica, o ancor più, archetipa dell’africano: riconosco quell’amok lucido, orribilmente argomentante, che ha compiuto gli innumerevoli mattatoi africani.

In Sierra Leone, le soldataglie di una guerra civile inestricabile e senza fine hanno tagliato lingue, piedi ed amputato le mani di decine di migliaia di persone: colpevoli, con quelle mani, di aver votato il candidato avverso. Le stesse amputazioni hanno fatto gli islamisti in Mali. Dal 1994, fine dell’apartheid, in Sudafrica almeno 3 mila bianchi sono stati sbudellati: un vero e proprio genocidio in corso per lo più contro coltivatori boeri, esposti perché abitanti nelle case di campagna isolate e, oggi, senza più il diritto a tenere armi; le uccisioni di famiglie intere sono perpetrate con la più sinistra fantasia; decapitazioni con le asce, gambe stroncate, sbudellamenti, i visceri estratti ed appesi come festoni ai lampadari. (South Africa)

È appena il caso di ricordare che il movimento dei Mau Mau in Kenia commise gli stessi eccidi contro i coloni bianchi, con la stessa raccapricciante efferatezza: nell’un caso come nell’altro, lo scopo è spargere il terrore ed impadronirsi delle terre dei coloni, forsennatamente invidiate perché ricche (ossia ben coltivate; in mano ai negri, non furono più tanto ricche).

L’ANC, l’eroico partito negro dell’eroico padre della patria Nelson Mandela, nei sobborghi africani ha imposto l’obbedienza «patriottica» con l’ampio uso del necklacing, la «collana sudafricana»: un vecchio pneumatico riempito di benzina e annodato al collo e alle spalle della vittima, a cui poi si dà fuoco: un’esecuzione sommaria molto pubblica, con scene di giubilo attorno alla torcia umana rantolante. Per rendere onore alla verità, non bisogna dimenticare che il necklace di fuoco è variamente praticato, qua e là nell’Africa nera, a scopi apolitici: per punire ragazze che sono credute streghe.

Le imprese di Boko Haram, il gruppo islamista che ammazza cristiani in Nigeria (circa tremila fino ad oggi) sono l’eterna replica di questo amok africano , che si compiace di squartamenti e, mentre squarta, argomenta e spiega. In un video che il gruppo s’è compiaciuto di diffondere, alcuni militanti sgozzano un giovane nero come una pecora; non guardatelo fino a quel punto, ma notate come l’assassinio sia preceduto da lunghe recitazioni e chiacchiere col tono di conversazioni apparentemente tranquille; solo quando il sangue fiotta dalla gola si eccitano un poco, contenti e soddisfatti. Com’è africano, purtroppo, tutto ciò. (Boko Haram Beheads Christian Man)

La somiglianza con il nigeriano di Londra, che parla dopo lo sgozzamento con le mani lorde di sangue, salterà agli occhi. Tanto somigliante, che la polizia britannica pensa ad una azione di Boko Haram a Londra.

Forse. Ma forse non è necessario pensare all’esecuzione di un ordine impartito dalla Nigeria. Ho già detto che l’Amok giavanese e malese fa sospettare la possessione, effettivamente più comune di quanto si creda nelle popolazioni non battezzate, dove la credenza e l’evocazione di spettri, spiriti o demoni, e la pratica del malocchio (o delle difese frenetiche dal malocchio altrui) intessono la vita quotidiana di angosce piene d’invidia e diffidenza – il Buon Selvaggio non è certo lì, se mai è esistito. Se quello africano è un Amok, lo caratterizza un elemento più spaventoso: l’assenso profondo che l’assassino dà al proprio invasamento. Non «viene colto» dalla possessione, ma «consente» di farsi possedere, se posso osar tanto. Da qui la verbosità apparentemente raziocinante del massacratore, la sua orrenda «normalità» mentre compie l’opera degli Arconti neri a cui s’è dato (1).

Tre negri che a pochi giorni di distanza a Milano, Londra e Stoccolma, brandiscono mannaie picconi e machete e ammazzano a caso. Fatti di cui non si potrà dimostrare in alcun modo che siano collegati. Ma che cambiano i discorsi politicamente corretti su integrazione, multiculturalismo, jus sanguinis e jus solis, correnti in Europa, in modo così dirompente e incisivo, che se una mente li avesse architettati, sarebbe una mente sopraffina e sovrumana. D’ora in poi in ognuno di noi coverà l’orrore del negro, dell’islamico, del negro-islamico che può farti schizzare il cervello a picconate mentre cammini per strada, senza ragione e senza preavviso. Inimicizia, odio e spavento , la formazione di un etat d’esprit che cambia i connotati delle nostre città che plurietniche sono, piaccia o no.

L’esito politico, ottenuto con mezzi così semplici, è davvero da Grande Regista. Quello conosce le sue creature; fra gli africani che la natura e sotto-natura lega con così forti radici al mondo ctonio primordiale, dove forze taurine, sub-umane, aspirano a prendere voce d’uomini, ha suoi fedeli: non gli ci vuol molto, al Princeps huius mundi, a mobilitarne sincronicamente tre. O quattro. O più.

Magari anche quel bianchissimo, intellettualissimo Dominique Vernier, che per protestare contro il matrimonio omosessuale in Francia, e difendere i valori spirituali dell’Occidente, sì è suicidato, ed ha trovato opportuno farlo a Notre Dame. Ha lasciato scritto:

«Scelgo un luogo altamente simbolico, la cattedrale di Notre Dame de Paris che rispetto ed ammiro, che fu edificata dal genio dei miei antenati su dei luoghi di culto più antichi che richiamano le nostre origini immemoriali. Non possedendo noi una religione identitaria alla quale ancorarci, abbiamo in condivisione, fin da Omero, una nostra propria memoria, deposito di tutti i valori sui quali rifondare la nostra futura rinascita in rottura con la metafisica dell’illimitato, sorgente nefasta di tutte le derive moderne».

Ciò non manca di suscitare ammirazione in alcuni. Un lettore mi invia il suo commento: «Dominique Venner ha centrato il punto: non abbiamo una nostra religione identitaria europea e quindi non abbiamo un centro spirituale a cui rifarci per organizzare una resistenza al mondialismo giudaico-cristiano. Abbiamo semmai una memoria e con questa dobbiamo costruire una religione neopagana».

Ma come non capire che sognare una religione «identitaria» per gli europei significa voler arretrare al piano di Boko Haram, del vudu, dell’Africa sanguinolenta?

A parte che proporsi di «costruirsi» una religione è una idea New Age molto americanista; le religioni non ce le si costruisce, esse vengono date dal cielo (o dagli inferi). Vernier ha profanato la cattedrale di San Luigi, e l’Eucarestia, sacrificando se stesso ad imprecisati «luoghi di culto più antichi» sui quali secondo lui è stata edificata la cattedrale. La natura di quegli dei appare chiara dal gesto del culto che Vernier ha voluto tributare loro: il Nulla, il suicidio.

Ci sono mille modi per combattere contro le nozze gay o la società multirazziale: il suicidio non lo è. A nulla serve, a nulla porta, e nulla lascia. È quanto di più identitario, in fondo, manifesti la civiltà, la spiritualità europea: l’autodissoluzione e l’irrealtà.

Né poteva mancare il ghignante commento a questa triste fine nichilista: la solita Femen, pagata, che a Notre Dame ha fatto la sua performance. Forse, alla fine, gli africani con le mani lorde di sangue sono perfino meglio di questi esangui fredduristi di Satana.

E questa voglia di insanguinare, sporcare, deridere gli altari cattolici dovrebbe suggerirvi la Mano che guida tutto questo.




1) Del resto, nemmeno l’Amok mailaisiano indonesiano sembra essere sempre un fenomeno involontario; al contrario, si parla di guerrieri ridotti nella condeizione di Amok ed usati nelle guerre locali a Giava; una classe di guerrieri pronti a «vincere o morire» che con lo scoppio di violenza assoluta, frenetica, potevano rovesciare le sorti di uno scontro. . Specialmente i Moros islamici di Mindanao si mettevano in stato di rabbia assassina «per giuramento» (juramentados, li chiamavano gli spagnoli). Tacito attribuisce la stessa disposizione ai Germani: furor teutonicus. Nella storia d’Islanda, si parla di guerrieri resi come« cani idrofobi o lupi, che mordono i loro scudi, e diventano forti come orsi o buoi muschiati e ammazzano tanti di colpo, insensibili al fuoco e al ferro». Le milizie di pazzi della guerra erano dette berserkergang. Da queste arti nere può venire la figura dell’assassino solitario.

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