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I media sotto vincolo (parte I)
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Un testo agghiacciante, che andrebbe letto alla luce de Lebreo nel mistero della storia, di padre Meinvielle. L’ebraismo come malattia dello spirito prima, del corpo, che dovrebbe essere il tempio di Dio, poi.

Non esiste più la Francia dei crociati, di San Luigi IX, di Giovanna d’Arco, la Francia per secoli faro del cattolicesimo nel mondo, persino, per arrivare a tempi più vicini ai nostri, la Francia collaborazionista del Maresciallo Petain, persino la Francia di De Gaulle.
Oggi, in gran parte, la popolazione francese è minata spiritualmente e fisicamente, corrotta profondamente.

La Francia è del tutto sotto occupazione nemica e non possiede più niente.

EFFEDIEFFE

I media sotto vincolo
Prefazione di Luciano Garofoli

Per poter stabilire in maniera definitiva l’instaurazione di un nuovo ordine mondiale oltre, naturalmente, all’indispensabile controllo del settore economico, è di vitale importanza poter essere in grado di controllare il flusso delle informazioni dirette ai consociati. E procedere, sfruttando soprattutto lo scorrere del tempo, alla manipolazione sia delle idee che delle coscienze.

Gli Stati Uniti d’America sono stati i primi, in quanto nazione molto giovane come nascita temporale e, perché fondata ed informata sui princìpi massonici, a compiere questo passo verso il controllo dei Media attraverso «mani forti e sicure».

La grande stampa statunitense nacque nella seconda metà dell’Ottocento, quando cioè lo sviluppo dell’economia americana cominciò ad assumere proporzioni davvero rilevanti.

Dobbiamo sempre ben tener presente che quindi libertà uguaglianza e fraternità, pur essendo principi basilari essenziali sono solo una tappa per la realizzazione della «Grande Opera», quella essenziale e la più importante, è sicuramente la creazione di un Novus Ordo Saeclorum e l’avvento di un unico Governo Mondiale.

Al momento della sua seconda rielezione alla presidenza degli USA, nel 1872, il generale Ulysses Simpson Grant, eroe nordista della Guerra di Secessione americana ed intimo amico dei banchieri Seligman, così si esprimeva nel suo secondo discorso di insediamento alla Casa Bianca:

«Il mondo civilizzato tende al repubblicanesimo, verso il governo del popolo attraverso i suoi rappresentanti e la nostra repubblica è destinata a servire da guida a tutte le altre… Il nostro Creatore prepara il mondo a divenire, in tempi opportuni, una grande nazione che non parlerà che una lingua e dove gli eserciti e le flotte non saranno più necessarie».

I grandi magnati del capitalismo americano sono formati a questo tipo di approccio e sono sempre stati disponibili ad investire, su questo grandioso piano, milioni di dollari. Indubbiamente il condizionamento e la «guida» dell’opinione pubblica passa attraverso i media e la carta stampata all’epoca era sicuramente l’unico mezzo più diretto ed efficace.

La crescita della «grande stampa» americana va di pari passo con il fortissimo sviluppo economico, dicevamo, lo sostiene e lo supporta anche perché essa ha un bisogno estremo di ingenti capitali per sopravvivere e crescere: quindi o si è dipendenti dei grandi gruppi bancari, oppure sono direttamente i grandi banchieri ad intervenire, nell’ottica della diversificazione degli investimenti, e nella previsione dell’avanzamento del progetto mondialista, li impiegano volentieri ed a profusione nel settore della stampa. Ovviamente chi viene scelto per dirigere i giornali sono uomini di sicura fiducia e di provata «fede»; essi, a loro volta a cascata, si circondano di personaggi su cui possono contare sempre ed in maniera assoluta e cieca. A questi personaggi viene garantita una brillante carriera, una vita agiata, la frequentazione dei «salotti che contano» dove si incontrano le «persone che contano» che consentono ulteriore crescita e fama.

In questo periodo cominciano a nascere le grandi fortune editoriali: gli Hearst, i Pulitzer i Vander Bilt.

William Hearst è figlio di George Hearst, miliardario californiano. Sua madre non gli nega mai niente di quello che desidera e questo tratto del suo carattere gli rimarrà per tutta la vita. A soli ventitré anni chiede al padre il permesso di dirigere il San Francisco Examiner, un giornale locale che è entrato nel patrimonio di famiglia come pagamento di un debito di gioco che egli saprà trasformare e far crescere in modo esponenziale a livello nazionale. Fu l’inizio della creazione di un vero e proprio impero mediatico, basato anche su giornali scandalistici che, senza censura, riportavano i fatti più piccanti della società dell’epoca. Anche Hearst non era esente da questo tipo di atteggiamenti molto «moderni»: ebbe una moglie ufficiale, Millicent Veronica Willison, ed una lunghissima storia d’amore mai nascosta o celata, dal 1918 fino al 1951 anno della sua morte, con l’attrice Marion Davies.

Entrò anche in politica militando nell’ala Liberal del Partito Democratico per il quale fu sindaco di New York dal 1905 al 1909. Famosa la sua guerra imprenditoriale ed editoriale ingaggiata con l’altro grande protagonista della stampa americana Joseph Pulitzer.

Hearst è anche l’ispiratore del famoso personaggio di Charles Kane il direttore di giornale senza scrupoli interpretato nel film IV potere da Orson Welles.

Oggi il gruppo Hearst è presente in modo massiccio nel mondo della carta stampata in tantissimi Paesi del mondo da Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, USA, Canada, Taiwan, Giappone, Cina, Ucraina, Russia. Qualche testata da ricordare: Cosmopolitan, Elle, Esquire, Seventeen, Gioia, Marie Claire, Gente Motori. Gente (ex gruppo Rusconi acquistato da Hachette e poi passato ad Hearst). Negli anni Settanta del secolo scorso il nome degli Hearst balzò alla ribalta per un caso clamoroso di rapimento della nipote del magnate, Patricia, la quale poi si unì al gruppo che l’aveva rapita (l’Esercito di liberazione simbionese) compiendo anche alcune rapine in banca.

Joseph Pulitzer, invece, era figlio di un ricco mercante ebreo di Makò, cittadina vicino a Csongrad, in Ungheria. Emigrato negli USA diventa giornalista e poi proprietario dell’Evening Post e quindi del Saint Louis Evening, per poi acquistare Il New York World, che fa crescere a livelli molto elevati.

La guerra ingaggiata tra le testate di Hearst e quelle di Pulitzer continuò a colpi di scoop e di notizie sensazionali come quando fu scoperto un caso di corruzione riguardante la compagnia del Canale di Panama, che avrebbe distribuito tangenti coinvolgendo addirittura Theodore Roosevelt, allora presidente degli USA ed un altro mostro sacro della finanza americana Jacob Schiff: il presidente si querelò, ma la causa non arrivò mai al termine, subì per così dire una messa in sonno per poi perdersi completamente, un modo elegante per coprire qualche cosa di vero che in fondo c’era.

L’ingente fortuna accumulata porta Pulitzer a donare un lascito di 20 milioni di dollari alla scuola di giornalismo della Columbia University, allora diretta da un famoso sostenitore del mondialismo, Nicholas Murray Buttler, Premio Nobel per la Pace del 1931, lascito che diventerà la base del famoso premio che porta il suo nome e che dal 1917 viene assegnato a 12 diversi giornalisti, reporter e scrittori, ogni anno.

Negli USA, però, come anche in Francia, non manca una vasta rete di stampa indipendente che, sganciata dal potere economico, riesce ad informare ed a portare all’attenzione dell’opinione pubblica fatti e misfatti, che la classe dirigente o la casta mondialista vorrebbe far passare sotto silenzio. A questo si aggiunge anche la vasta rete di informazione che oggi è costituita dai siti internet, che riescono a mobilitare anche migliaia di persone su temi di attualità scottante: si veda il famoso movimento Occupy Wall Street che continua la sua battaglia contro l’usurocrazia e lo strapotere delle banche e quello del capitalismo finanziario a livello mondiale.

Giornali come il The Nation o il San Francisco Chronical fanno le loro battaglie contro «limpero americano», ma naturalmente quando si parla di informazione, l’etichetta di «autorevole» la possono avere solo, in maniera autoreferenziale, solo testate come il New York Times, Il Washington Post, o il Wall Street Journal tutti, ovviamente, megafoni della globalizzazione, del turbo capitalismo e del mondialismo.

L’opinione pubblica americana aveva più di una volta manifestato la sua ostilità nei confronti di queste idee preconfezionate ed imposte da una ristrettissima élite di «illuminati» completamente avulsa dalla realtà effettuale della società americana. Ciò nonostante la «Grande Opera» doveva comunque essere realizzata con o senza il consenso popolare, con l’accettazione pacifica o con la forza: vorrei ancora una volta far notare come il concetto di democrazia venga usato solo come schermo da questi milieu e che sia solo una specie di cortina fumogena, un velario che nasconde chi dietro le quinte muove i fili e guida con mano forte e sicura la scena della vita su questo pianeta. È come se ci fosse un rumore di fondo che copre, in maniera ora armonica, ora stridula, la realtà effettuale che è ben altra da quella che compare sulla scena di questo palcoscenico virtuale.

Evidentemente lorsignori hanno avuto bisogno di lavorare nell’ombra, con calma, al riparo dagli occhi indiscreti dell’opinione pubblica, o da interferenze di qualsiasi genere. Hanno avuto bisogno estremo dell’aiuto dei media e della stampa per inoculare nelle menti questi veleni condizionando, indirettamente ed emozionalmente, le coscienze, giocando sul fatto che le generazioni future avrebbero assorbito e considerato solo quello che costoro volevano loro propinare.

La nascita di potentissime organizzazioni come il CFR hanno creato la cabina di regia occulta di questa manovra ed allo stesso tempo il serbatoio intellettuale che doveva spianare la strada e preparare il terreno alla semina di queste idee perverse.

Il ringraziamento che Rockefeller rivolse alla stampa, che diligentemente e ligia agli ordini, per anni aveva mantenuto il segreto su queste cose ne è la conferma più clamorosa soprattutto perché il ringraziamento fu fatto, in forma ufficiale, durante una delle riunioni periodiche del gruppo Bilderberg, quindi davanti all’assise più qualificata che potesse essere scelta.

Il controllo dei media, e soprattutto dei nuovi grandi mezzi d’informazione, come internet, le televisioni satellitari e quelle che sfruttano le tecnologie a banda larga, richiede un ingente impegno di capitali, una strategia di lungo termine ed una grandissima professionalità sia nel controllo dei budget, sia dal punto di vista amministrativo, sia dal punto di vista di scelta dei programmi e dei palinsesti. Vincente risulta la scelta di manager capaci e di grande esperienza settoriale, i quali garantiscano risultati tangibili e richiamino investimenti pubblicitari rilevanti: essi vengono contesi a colpi di milioni. Quindi solo l’alta finanza internazionale e le grandi concentrazioni bancarie sono in grado di poter intervenire e fornire le disponibilità economiche indispensabili ad un piano di questa grandiosa vastità.

A questo punto possiamo, con certezza, affermare che l’obiettivo è, in gran parte raggiunto.

Ormai, tranne che qualche rara eccezione, tutti i mezzi d’informazione, a qualunque latitudine, parlano lo stesso linguaggio e chi, eventualmente, si ponesse fuori dal coro, viene sempre sottoposto a grandissime pressioni, attaccato sempre con disprezzo e con virulenza, oppure ignorato, in modo che non possa avere nemmeno la chance di essere nominato e ciò di cui non si parla, o meglio anche tutto ciò che non si vede, non esiste.

Solo nel web viene lasciata ancora una certa capacità di movimento, che alla fine può fare anche comodo abbozzando un certo grado di libertà di espressione e di manifestazione del dissenso, sempre che resti un fenomeno di piccole dimensioni e di limitato accesso.

Lo studio di Polémia ci fa notare come ad esempio, nonostante il grande uso dei sondaggi ed il grandissimo sforzo di condizionamento, i risultati non siano quasi mai in linea con le proiezioni delle percentuali dei risultati. Questo, perché un margine di errore esiste sempre; ormai anche le persone spesso, per un meccanismo di autodifesa, dichiarano intenzioni di voto diverse da quelle che poi realmente esprimeranno.

È una piccola rivincita che il fattore umano si prende sull’oppressivo sistema di condizionamento mediatico. Anche in queste ultime elezioni presidenziali francesi è successa la stessa cosa: moltissimi non hanno dichiarato (la forbice si aggira tra il 3% ed il 5% dei contatti) l’intenzione di votare per il Front National, che si è ritrovato con una percentuale del 18% contro il massimo 13%/15% che gli veniva assegnato.

Anche la IPSOS a volte sonnecchia o viene presa in giro da chi ancora recalcitra e cerca di ragionare con il proprio cervello!

In questo contesto internazionale certamente la stampa italiana non fa assolutamente una bella figura: anzi per essere onesti i nostri media sono sicuramente i più ligi, i più proni e, lasciatemelo dire, anche i più servi del potere mondialista.

Il controllo dei grandi giornali da parte di consorterie ben definite la dicono lunga sulla libertà di espressione e sulla libertà d’informazione.

I due più grandi gruppi editoriali italiani la RCS e l’editoriale Espresso Repubblica sono nelle mani, il primo di Mediobanca, Giovanni Agnelli SAPA, Premafin (Li Gresti), Pirelli, Benetton, Banca Intesa, Assicurazioni Generali, Banco Popolare, Ubs, Merloni.

Il secondo è largamente controllato da Carlo De Benedetti e dagli eredi di Carlo Caracciolo, che insieme detengono il 60,88% del capitale sociale; piccole altre partecipazioni sono in mano alle Assicurazioni Generali 2,67% e a Giulia Maria Crespi (ex proprietaria del Corsera prima della cessione alla Rizzoli e grande sponsor di quel Mario Capanna ex capo del Movimento Studentesco nel ‘68), con il 2,33%.

In entrambi i casi la massiccia presenza di banche e di grandi capitalisti italiani legati sia all’Alta Finanza internazionale sia ai vari gruppi mondialisti (Bilderberg, Trilateral) sicuramente collocano i vari media italiani in quella vastissima area di pensiero unico, ultraliberista e globalista.

Bisogna notare anche che questi due grandi gruppi editoriali controllano anche tutta una serie di testate cosiddette locali che riprendono, per quanto riguarda la cronaca nazionale, gli articoli dei loro giornali di riferimento, per poi aggiungere una vasta parte dedicata al territorio.

Polémia evidenziava l’ingresso del barone Rothschild nell’azionariato di Liberation, storico giornale della sinistra francese, ma diceva anche che della cordata faceva parte, con una buona percentuale, anche Carlo Caracciolo (cognato di Giovanni Agnelli) che, come abbiamo visto, è il secondo azionista del Gruppo Espresso Repubblica. Non credo che grandi esponenti del mondo degli affari internazionali come i Rothschild scelgano a caso i loro soci; sarebbe solo ingenuo pensarlo. Quanto alla linea editoriale i due quotidiani stanno dalla stessa parte e propugnano sempre le stesse idee.

La presa di posizione nei confronti del governo «tecnico» del professor Monti è di sicuro plauso e di sostegno incondizionato: i peana che abbiamo letto sulle colonne dei due più grandi quotidiani italiani sono a dir poco veramente choccanti.

Né le cose vanno meglio nel campo dei cosiddetti giornali schierati dalla parte opposta, cioè i sostenitori del Centrodestra: anche qui, sia Libero che il Il Giornale sono schierati in difesa dell’Europa, considerata ormai cosa assolutamente intangibile, in difesa del liberismo ad oltranza, sostegno ai piani di austerità imposti dalla BCE, critica senza remore dei Paesi come la Grecia, che recalcitra al giogo imposto dai diktat tedeschi, danno un sostegno, anche se blandamente critico, al governo Monti.

Per far parlare questi quotidiani di Bilderberg, di Gooldman Sachs ci sono voluti i giorni neri della crisi e della salita alle stelle dello spread dei Titoli di Stato italiani nei confronti dei Bund tedeschi, o la denuncia dei trucchi del bilancio greco favoriti dalla banca americana. La campagna di «informazione» è però durata pochissimo ed ora nessuno più parla di ciò.

Ma la protesta si leva vibrata contro quei Paesi che osano fare di testa propria: Ungheria, Argentina, Grecia chi in generale esprime dissenso, attraverso le urne, ad una politica di lacrime e sangue suicida ed inutile: costoro o sono qualunquisti o catalizzatori dell’inutile e sterile voto di protesta.

Facciamo un esempio: il 17 aprile il TG 5 delle tredici, annunciando l’avvenuta nazionalizzazione della Repsol, da parte del governo argentino si lanciava in una reprimenda contro questo atteggiamento lesivo dell’economia liberale e della globalizzazione dei mercati. Subito l’Argentina veniva prima associata a Tevez e a Castro, poi partiva subito una raffica di insulti contro il governo sudamericano, colpevole di non essere più gradito ai mercati, squalificato, demonizzato, quasi fosse uno Stato canaglia, in quanto poco solvibile, instabile e lesivo dei diritti dei vari investitori stranieri.
Tutte accuse più che infamanti e linciaggio mediatico assicurato.

Il giorno seguente, il 18 aprile, Il Giornale, in una pagina più che defilata ed interna, per carità, in un articolo a firma di Roberto Fabbri annunciava l’avvenuta nazionalizzazione o meglio «lesproprio» della Repsol da parte del governo argentino. Il quotidiano prendeva apertamente le difese della Spagna, danneggiata da questa manovra, citando a sostegno le parole di Barroso, il presidente della Commissione Europea, ovviamente nettamente contrario all’operazione, ed accusando l’Argentina di ingratitudine e tradimento della Hispanidad.

L’autore insinuava che l’Argentina si stesse macchiando di protagonismo internazionale, rivendicando anche la sovranità sulle Malvinas (come ai tempi del regime militare negli anni Ottanta e sviando così l’attenzione dell’opinione pubblica su altri temi):

«Lesproprio della Ypf sinquadra in un contesto di protagonismo crescente dellArgentina nello scacchiere internazionale, il cui elemento più evidente consiste nella sfida lanciata a Londra a proposito della sovranità sulle isole Falkland: trentanni dopo linvasione, conclusasi con la disfatta argentina di fronte allinattesa e determinatissima reazione britannica, la Fernandez de Kirchner riapre la questione puntando sulla solidarietà latinoamericana e sulla relativa equidistanza di Washington tra i contendenti, due elementi sui quali la giunta militare di Galtieri non poté contare nel 1982».

Ed appena più sotto proseguiva: «È indubbio che la misura di esproprio appena decisa rischia di ritorcersi contro lArgentina, la cui affidabilità sui mercati è già tuttaltro che proverbiale, come ben sanno i risparmiatori italiani».

Che dire poi dei risultati delle elezioni greche?

La più grossa preoccupazione è l’ingovernabilità del Paese, il rischio (o meglio non sarebbe la fortuna?) per la Grecia, di cacciata dal consesso europeo, l’affermazione di quei gruppi che predicano il ritorno alla Dracma, ma soprattutto la grande preoccupazione che desta l’affermazione di partiti come il KKE o Krisi Avgi che schiudono «inquietanti orizzonti futuri». Il solito Roberto Fabbri su Il Giornale titola il suo pezzo: «Atene, dopo lo choc è lora del caos», nell’occhiello: «Crolla la Borsa mentre Samaras Nea Democratia fallisce limpresa impossibile di formare un governo».

Poco più sotto la preoccupazione è ancora più palpabile: «Bandiere tedesche bruciate nella capitale. E calo dei turisti dalla Germania».

Nessun accenno alle minacciose prese di posizione ed alle interferenze nella politica greca, del ministro federale delle Finanze Wolfgang Schäuble, che minacciava una vera e propria demonizzazione, se non l’espulsione dall’Europa qualora la Grecia non avesse rispettato il patto leonino imposto dalla Germania.

Ma ci pensate che disgrazia una cacciata dall’Euro? Quale iattura: ma certi soloni si rendono conto che una vasta parte della popolazione ellenica comincia ad avere problemi di sopravvivenza e di fame? E se la volontà popolare si esprime per un’uscita dal troppo oneroso contesto europeo cosa ci sarà di tanto demenziale? O forse chi deve essere salvaguardato è solo l’interesse delle grandi banche tedesche, che potrebbero subire delle perdite patrimoniali rilevanti?

Che dire poi della preoccupazione che si adombra negli articoli, per una eventuale intesa con la Russia di Putin in nome anche dell’appartenenza alla stessa area religiosa ortodossa? Tutte cose di una gravità inaudita specialmente l’ultima di riconoscersi fratelli in un credo religioso dogmatico e non laico!

Insomma come diceva qualche anno fa Ralf Dahrendorf: «La democrazia non è più sostenibile, in quanto in contrato con le leggi delleconomia di mercato».

Non ci saranno più le famose veline del Minculpop, ma anche in politica estera i media italiani si schierano senza riserve contro l’Iran, in difesa degli interessi israeliani, in sostegno delle azioni punitive e criminali che gli americani portano avanti in Iraq, in Afghanistan, per le primavere arabe, contro la Siria di Assad, in una maniera che veramente appare servile e da farli sembrare degli zerbini ai piedi dei padroni americani: ciò per schierarsi in una ormai sempre più logora e insostenibile difesa della cosiddetta civiltà occidentale.

Una vera e propria vergogna: e tutto ciò mentre tutto sta crollando e le persone sono sospinte sempre di più verso la soglia della povertà e della miseria: qualsiasi voce di dissenso, o alternativa al sistema è bollata come pericolosa o addirittura come rigurgito di ideologie violente e superate.

Sempre di più ci si rende conto che se non si ritorna ad un corpus di valori etici e cattolici e non si affianca all’azione umana l’aiuto e l’intervento diretto di Dio tutto sarà inutile e senza possibilità di salvezza.

Luciano Garofoli


Parte 1/2

I media sotto vincolo di tutela
Traduzione dal francese di Luciano Garofoli

Introduzione

In maniera astratta la Francia è una democrazia. Il voto è libero. Senza dubbio il voto, ma si può dire altrettanto dell’informazione che viene ricevuta dagli elettori?

Assolutamente no, i media assoggettano ed essi stessi sono assoggettati alle potenze finanziarie.

Dietro una facciata di diversità, i grandi media tracciano gli scenari dell’attualità secondo la stessa griglia di lettura, cioè quella di un’ideologia unica che è comune a tutti: liberismo esasperato, libero scambismo economico, cosmopolitismo apolide, abbandono delle tradizioni e rivoluzione dei costumi. È la Santa alleanza tra trotzkismo delle redazioni e capitalismo finanziario. L’unione dei miliardari con la mediaklatura.

La proposta può sembrare polemica. Ma i fatti presentati in questo studio mostrano, ahimè, come un ristretto numero di persone si sia accaparrato il controllo dei grandi miti a francesi.

Ed ecco quali sono gli attori principali di questa presa di potere sulle coscienze:

- Le banche: ben cinque di loro siedono nel consiglio di amministrazione della Bouygues, gruppo proprietario di TF1; il gruppo Rothschild controlla Libération; la Lazard è nel consiglio di amministrazione di Le Monde;il Crédit Agricole ed il Crédit Mutuel si dividono la stampa quotidiana regionale (la PQR) situata a destra della linea Amiens Marsiglia;

- le grandi fortune detengono l’industria del lusso e del tempo libero: Bernard Arnault, Serge Dassault, François Pinault, Martin Bouygues, Vincent Balloré; Arnaud Lagardéere, Claude Bébéar* sono pressoché onnipresenti;

- le grandi agenzie di comunicazione e di pubblicità: EURO RSCG di Stéphane Fouks e Publics di Maurice Lévy sono il centro di strategie d’influenza appoggiate da potentissimi budget;

- i grandi «editocrati»: Erik Israelewicz, Laurent Joffrin, Nicolas Demorand, Denis Oliviennes svolgono un ruolo chiave, quello di assicurare la coerenza tra i finanziatori e coloro che smistano le informazioni.

In tutto un centinaio di persone dirige la centrale che regna e forgia gli spiriti. Non c’è un direttore d’orchestra clandestino. Ma tutti o quasi partecipano al centro di potere più esclusivo della classe dirigente francese: il Club Le Siècle, che altro non è che la sezione francese di una super classe dirigente mondialista (SCM). Polémia evidenzia con un asterisco ogni nome di questi attori citati che sia membro del circolo di tendenza Le Siècle. Questa classe dirigente francese oggi non ha più assolutamente nessun tipo di visione nazionale, né di coscienza europea.

La nostra società è sempre più esigente in materia di trasparenza. Ma questo metodo di trasparenza deve essere applicato anche ai media: i loro ascoltatori e i loro lettori, che sono anche elettori, devono sapere di che cosa si parli per conoscere i piani strategici occulti finanziari, commerciali, ideologici o comunitari che determinano le loro prese di posizione e che spiegano la sparizione di qualsiasi vero spirito critico.

Lasciando da parte ogni inutile polemica, Polémia si limita a mettere insieme dei fatti. Dei fatti che gettano una luce vivida sulla «mediaklatura».

1. I media tiranniMa anche servi!

Nel settembre 2008, la fondazione Polémia pubblicò il suo primo saggio. Esso era intitolato La tirannia mediatica, e in 12 capitoli descriveva l’imposizione di una griglia di lettura obbligatoria, comune a tutti gli organi di comunicazione di massa, alle antenne audio televisive ed essa stessa fondata sulla dittatura dell’istante, dell’emozionalità, dell’immagine, della spettacolarità e della sistematica approssimazione.

La dittatura dellemozionalità

Ma chi era stato in grado di imporre questa griglia di lettura obbligatoria ha i mezzi di comunicazione e di farla passare come se fosse Vangelo?

Sicuramente non i giornalisti, anche se la maggior parte di essi sono usciti da scuole che per prima cosa praticano la formattazione dei cervelli piuttosto che tornare allo spirito critico; essi aderiscono nella quasi totalità alla moda del momento.

Certamente non i «proprietari padroni della stampa», scritta o parlata che sia, specie sempre più in via di estinzione, anche se alcuni si fregiano, più pomposamente che fraudolentemente, di questo titolo. Infatti sono finiti i tempi delle grandi tirature, che garantivano l’indipendenza della stampa! La situazione si è radicalmente trasformata a causa della fuga di gran parte dei lettori i quali preferiscono l’informazione audiovisiva gratuita, oppure i giornali gratuiti o internet, anch’esso gratuito, e, d’altra parte, e dell’abbassamento parallelo degli investimenti pubblicitari soprattutto dopo la crisi del 2008. Ormai, e purtroppo, sono solamente i nuovi oligarchi e le banche a condurre le danze. E tra gli oligarchi non tutti sono i russi, anche se tra di essi spicca il giovane Alexander Pougatchev il quale tenta di salvare un glorioso France Soir, agonizzante che ha visto il proprio numero di quote precipitare da 1.000.000 di esemplari a soli 23.000, che è quello che riesce a vendere oggi.

Una stampa tutta sbilanciata a sinistra

Tutto ciò non sembra per niente disturbare giornalisti che sono la stragrande maggioranza dei casi schierati su posizioni di sinistra, come risulta da un sondaggio pubblicato nel numero 109 del 23 aprile 2000 e uno da Marianne e ciò ad un anno dalla elezione presidenziale.

Ma tra quei 69% di giornalisti che avevano già fatto la loro scelta per chi si apprestavano a votare? Prima di tutto il 32% avrebbe dato il suo voto a Lionel Jospin*; il 13% avrebbe votato per Noël Mamère; 8% avrebbe scelto Jean Pierre Chevènement; e con il 5% ciascuno seguivano Arlette Laguiller e Robert Hue. Jacques Chirac raccoglieva soltanto il 4% dei consensi dei professionisti della stampa, Alain Madelin e François Bayrou* racimolavano un risicatissimo 1% ciascuno dei suffragi, fanalino di coda Jean Marie Le Pen con nessuna preferenza. Eppure miracolo, il 21 aprile 2002 il presidente del Fronte Nazionale superava Jospin restando solo in lizza al ballottaggio contro Chirac!

Il giornale di Jean François Kahn così commentava: «Il divario tra il voto popolare e quello espresso dai giornalisti era il massimo: soltanto il 6% del totale dei giornalisti pensava di votare a destra, contro quanto pensava di fare il 50% dei francesi!».

Ma cosa ancora peggiore è che costoro pretendono di incarnare «lopinione pubblica» quando invece sono in totale distonia con essa nella maggior parte degli argomenti sul tappeto politico: sull’immigrazione, per esempio, l’87% dei giornalisti interpellati da Marianne, si dicevano favorevoli alla regolarizzazione di tutti i clandestini, ed essi in compenso erano in perfetta osmosi con i grandi interessi economici e finanziari, che immaginano di poter regnare su un pianeta ridotto ad un «villaggio globale» popolato da una popolazione meticcia, senza cultura, con le radici sradicate, e completamente ormai senza più identità. Ed è in virtù di ciò, questa nuova popolazione sarebbe pronta a dare la sua adesione dall’Alaska alla Terra del Fuoco al «pensiero unico», ma soprattutto sarà sempre più consumatrice di «prodotti di massa», gli unici che saranno capaci di ridurre i costi di produzione.

2. M come miliardari e come Mediaklatura

Molti dei francesi più ricchi del Paese, giocano in modo diretto o indiretto un ruolo essenziale nella vita dei media e conseguentemente nell’orientamento generale della. Ci pare quindi giudizioso presentarli rapidamente (le fonti che abbiamo scelto per questa presentazione sono le riviste Forbes, Nouvel Observateur e Challenges 2010) prima di entrare nel vivo della questione. Questa ristretta cerchia di personaggi, tra i più ricchi di Francia, se non sono proprio proprietari della stampa, di fatto sono grandi annunciatori e propagandisti delle loro attività: immobiliari, automobilistiche, ipermercati, prodotti di lusso, alimentari, cosmetici o parafarmaceutici. Attraverso le agenzie di pubblicità, e si tengono in mano loro la sorte degli organi di informazione, ma anche dei poteri locali e politici ed esercitano di conseguenza un’influenza preponderante sulla vita sociale e politica del nostro Paese.

Bernard Arnault*
È lui l’uomo più ricco di Francia ed è anche al quarto posto nella classifica mondiale: il suo patrimonio si aggira intorno sui 22,7 miliardi di euro, queste le sue attività:

Gruppo LVMH (Louis Vuitton, Möet, Hennesy) è il leader mondiale nel settore del lusso, i suoi marchi, tutti conosciutissimi, sono Möet & Chandon, Louis Vuitton, Dior, Givenchy, Célin, Gucci, marchi questi che ha potuto acquistare grazie a fusioni o acquisizioni orchestrate da Antoine Bernheim* (a lungo anche a capo di aziende come Mediobanca e Generali) della prestigiosa banca d’affari Lazard Frères (vedi più avanti il punto 9).

Ha a disposizione un polo mediatico formato da: DI Group. È stato anche proprietario del quotidiano La Tribune, nel 1993 ha acquisito anche il controllo di Desfossés International, per poi cederlo nel 2007 all’allievo della Scuola Centrale delle Arti e Manifatture Alain Weill*, PDG di Next Radio TV (RMC, BFM).

Il gruppo di Arnault ha anche acquistato dal gruppo Pearson Les Echos. LVMH è anche proprietaria dei giornali Investir, Radio Classique, Le Monde de la Musique ed anche della rivista Connaissance des Arts; nell’aprile del 2011 si parlò molto della nomina, alla testa di Audiovisuel extérieur de France (AEF), di Christophe Girard*, responsabile alla cultura di Bertrand Delanoë* al Comune di Parigi, dove ha imposto un festival del cinema gay e lesbien, in quanto era un militante del movimento che vorrebbe che gli omosessuali potessero avere anche il diritto di essere genitori. Ma Christophe Girard è anche molto vicino a Bernard Arnault, che nel 1999 lo aveva nominato responsabile della «strategia mondiale» della LVMH, posto che aveva conservato anche dopo essere entrato in politica (prima con il partito dei Verdi, poi con il Partito Socialista).

Gerard Mulliez*
Il suo patrimonio si aggira intorno ai 19 miliardi di euro; è titolare del gruppo di supermercati Auchan.

Liliane Bettencourt*
Il suo patrimonio è stimato intorno ai 14.449 miliardi di euro; è titolare del gruppo L’Oréal.

Bertrand Puech*
Il suo di patrimonio è di circa 8.585 miliardi di euro e al suo nome fa capo il gruppo Hermès.

Famiglia Louis Dreyfus*
8,5 miliardi di euro il suo patrimonio; i suoi interessi sono concentrati nei settori dell’armamento marittimo, nei servizi, nell’immobiliare; è anche titolare di 9Cegetel, azienda fondata da Philippe Dreyfus, attuale PDG del gruppo; bisogna anche far presente che uno dei membri della famiglia partecipa, già dal 1904, al ristretto gruppo della quotidiano… LHumanité storica testata del PCF!

Serge Dassault*
6,8 miliardi di euro l’ammontare del suo patrimonio. Il suo gruppo è specializzato nel settore nautico della difesa; è il padre nobile e storico dei famosi caccia Mirages. Nel 2004 ha rilevato la proprietà della Socpresse (70 testate tra cui LExpress, e LExpansion) dal gruppo di Robert Hersant. Serge Dassault si è disfatto della quasi totalità delle testate, per mantenere soltanto quella di Le Figaro e dei suoi supplementi e del Le Journal des Finances. Ha anche rivenduto il gruppo Valmonde (Spectacle du Monde et Valeurs Actuales), creato da Raymond Bourgine, all’industriale Pierre Fabre, fondatore dei laboratori farmaceutici che portano il suo nome e settantottesimo in graduatoria tra le maggiori fortune francesi con 500 milioni di euro. Olivier Dassault*, figlio di Serge, era stato vicepresidente del gruppo Valmonde ed è anche spesso editorialista della rivista Valeurs Actuelles.

Francois Pinault*
6.216 miliardi di euro di patrimonio. Artemis è la holding di PDG di Pinault-Printemps-La Redoute (PPR); nel 1997 ha acquisito la maggioranza del capitale del giornale Le Point e possiede anche il quotidiano finanziario LAgefi. Inoltre il fondo di investimento Artemis è anche presente nel capitale di TF1 insieme al quale, nelle 2007, aveva esaminato la possibilità del lancio di una «rivista cittadina gratuita».

Alain Werthmeier*
4,5 miliardi di euro di capitale; è il titolare della Maison Chanel.

Jacques Sevier*
3,8 miliardi di euro di capitale; industriale del settore farmaceutico, produttore tra gli altri, di Médiator.

Jean Claude Decaux*
3.256 miliardi di euro di capitale; a lui fa capo il Gruppo Decaux, che si occupa di comunicazioni ed affissioni.

Vincent Bollorè*
2.917 miliardi di euro di capitale. È presidente del consiglio di amministrazione della Holding Havas. Ha in passato lavorato presso il ramo francese del gruppo bancario Edmond de Rothschild. Il gruppo Bolloré è presente in vari settori differenti: pubblicità, carta, trasporti, ed in Africa anche dei terminali di aeroporto; ha lanciato, nel giugno 2006, il quotidiano gratuito Direct Soir, dal febbraio 2007 il giornale gratuito del mattino Matin Plus e partecipa, in compartecipazione, al capitale di Le Monde. Vincent Bollorè, nel 2002, aveva incrementato le sue partecipazioni nella SPF ed aveva partecipato alla creazione, su TNT, della catena Direct 8 di cui Yannick, suo figlio e successore in pectore, è direttore generale. Yannick è anche vice presidente del gruppo Havas. Il gruppo detiene anche una partecipazione del 5,6% del capitale sociale di Mediobanca. Questa quota diventa l’11,42% delle azioni del patto di Sindacato del capitale dell’istituto bancario italiano. Vincent Bolloré è anche membro del consiglio di amministrazione di Mediobanca. Dall’aprile 2010 è anche vice presidente del gruppo Assicurazioni Generali, il più grande gruppo assicurativo italiano.

Benjamin de Rothschild*
2,8 miliardi di euro di capitale. Il gruppo bancario, tramite Edouard de Rothschild*, è azionista di riferimento, con il 38% di azioni, del quotidiano Libération.

Jacques Bouriez*
2,7 miliardi di euro di capitale, opera nella grande distribuzione.

Ginette Moulin*
2,7 miliardi di euro di capitale, azionista di riferimento delle Galeries Lafayette, storici grandi magazzini di Parigi.

Emmanuel Besnier*
2,5 miliardi di euro di capitale, provenienti quasi totalmente dal settore agroalimentare.

Patrick Ricard*
2,422 miliardi di euro di capitale, titolare del gruppo Pernod Ricard e di altre aziende del settore degli alcolici.

Martin Bouygues*
2,385 miliardi di euro di capitale. È presente in BTP e nel settore delle telecomunicazioni; il gruppo Bouygues detiene il 42,9% del capitale del gruppo TF1, che a sua volta detiene il 40% di Téle Monte Carlo (TMC) ed il 50% di TF6. Martin Bouyegues entrò nel capitale di TF1 nel 1987, data in cui il primo canale francese fu privatizzato. Detiene anche la quasi totalità dei canali telematici LCI, Eurosport, TV Breizh, Odissée, Histoire, Ushuaïa TV e TFou. Il gruppo ha anche una forte partecipazione nel settore delle gestioni delle reti di distribuzione di acqua in varie parti del mondo, sia da solo sia in consorzio con altre grandi gruppi del settore.

Xavier Niel*
2,338 miliardi di euro di capitale. È subito da rimarcare che nel 2004 il gruppo a lui facente capo aveva un peso finanziario di soltanto 678 milioni di euro e tra il 2010 ed il 2011 è passato dal diciottesimo al dodicesimo posto tra i gruppi più ricchi di Francia. A lui fanno capo il Group lliad comunicazioni, Free. Dal 2011 Niel è diventato azionista di riferimento del giornale Le Monde nel quale ha conferito 35 milioni di euro.

Robert Peugeot*
2,234 miliardi di euro di capitale, magnate del settore automobilistico, è titolare dei marchi Peugeot e Citröen.

Christian Courtin-Clarins (detto CCC)*
2,2 miliardi di euro di capitale, attivo nel settore della cosmesi. Sotto l’egida dell’UNESCO, CCC ha organizzato il finanziato il 2 e 3 aprile 2011 un seminario internazionale denominato «Bâtir une nouvelle société» (Edificare una nuova società).

Arnaud Lagardère

È possibile che i lettori particolarmente attenti si siano meravigliati dell’assenza, tra le prime 20 personalità citate nel capitolo due, di Arnaud Lagardère, ovvero i missili dell’informazione-disinformazione. In effetti, l’erede del fabbricante e venditore di armi Jean Luc Lagardère*, figura soltanto in centotredicesima posizione nella lista delle più francesi più ricchi (1). In effetti il suo patrimonio personale nel 2010 non avrebbe superato i 343 milioni di euro, anche se il suo gruppo, tra l’altro azionista di EADS (Airbus) è estremamente diversificato, e abbia realizzato un volume di affari di 7,9 miliardi di euro. Ma Arnaud Lagardère, che da un punto di vista ufficiale non possiede che il 9,6% del capitale, riesce tuttavia a controllarne la maggioranza grazie ad un sistema di accomandite e di fiduciarie, continuando tuttavia ad essere al vertice di numerosi media attraverso la controllata Lagardère Active, nata nel settembre 2006 dalla fusione delle divisioni della carta stampata (Hachette Filippacchi Médias) e di visione audiovisiva (Lagardère Active).

3. Un impero della stampa

In tempi recenti, la Lagardère Active era la prima società editrice mondiale di riviste del calibro di Paris Match, Première e Le Journal du Dimanche oltre che di ELLE numero uno mondiale dei periodici femminili davanti alla americana Vogue, sia per la sua diffusione che per il numero di lettrici (le due cose non possono essere considerate alla stessa stregua in quanto la circolazione degli esemplari di una rivista è differente) oltre che per la quantità di pagine pubblicitarie in essa contenute. La rivista ELLE è naturalmente piena di titoli osannanti il multiculturalismo, l’accoglienza del diverso, gli amori plurimi, con grandi supporti di reportages di grande sostegno di questi temi. Ma, nel gennaio 2011 Lagardère ha ceduto ben 102 delle sue riviste edite in una quindicina di Paesi nel mondo al gigante della stampa americana Hearst. Il numero 647 della rivista Lectures Française ci informa che la cessione è avvenuta per una cifra di 651 milioni di euro in contanti e 100 milioni in royalty e opzioni immobiliari. In seguito a questa vendita, comunque, la Lagardère Active è tutt’altro che un guscio vuoto. Infatti il suo portafoglio e ancora ben guarnito detenendo il 17% del gruppo Le Monde SA gruppo nato dalla fusione di due emittenti satellitari, CanalSatellite e TPS, oltre che il 20% di Canal+France il cui 80% è invece detenuto da Vivendi (il cui PDG Jean Bernard Levy*, che si è ricomprato recentemente, da Vodafone, la sua partecipazione del 44% del capitale dell’operatore di telefonia mobile SFR per 7,9 miliardi di euro e che vanta anche una partecipazione nella catena televisiva tedesca Première). Questa holding dispone anche di una decina di catene tematiche specialmente nel settore musicale (MCM, Europe2 TV) ed in quello destinato ai giovani (Canal J, Gulli, sui quali torneremo a parlare). Ed il gruppo resta sempre al comando di Radio Europe 1, diretto all’inizio del 2011 dall’ex allievo della ENA (École National Administration) Denis Olivennes*, ex amministratore delegato del Nouvel Observateur. Pieno di incarichi, Olivennes si è fatto carico anche della direzione operativa di un nuovo polo di informazione della Lagardère Active, che raggruppa +Europe 1, Paris Match, Le Journal du Dimanche, non ceduti alla Hearst, oltre che a Newsweb, società d’informazioni on line del gruppo che edita JDD.fr.

Supercapitalisti e trotskisti: fatti per intendersi

Ci si può chiedere, a ragione, perché mai un capitano d’industria come Arnaud Lagardère, persona che Nicolas Sarkozy* presenta come «suo fratello», abbia conferito delle responsabilità così importanti e pesanti ad un socialista come Olivennes che, a dire del deputato europeo Henri Weber*, anche lui ex trotskista; fu «vicino alla Lega Comunista Rivoluzionaria in quelli che vengono chiamati Comitati Rossi», per diventare poi primo membro della Corte dei Conti e, dopo il 1992, Capo di Gabinetto del ministro dell’Economia e delle Finanze, poi diventato Primo Ministro, Pierre Bérégovoy*. Olivennes, nominato nel giugno 2000 presidente di Canal+France dopo esserne stato l’amministratore delegato, chiese un’indennità di liquidazione di 3,2 milioni di euro! Senza dubbio Lagardère considerava di scambiare uno schieramento a sinistra di Europe 1, emittente già di per sé non certo schierata a destra, con la garanzia che gli poteva essere offerta dal neo assunto, in caso di una eventuale salita al potere dei socialisti nelle elezioni presidenziali del 2012. Del resto Olivennes non è poi così settario per quanto concerne la sua carriera. Lasciato Canal+, senza esitazioni assunse responsabilità di primo piano nel gruppo del miliardario François Pinault, una volta accusato di avere avuto delle debolezze nei confronti di Jean Marie Le Pen. Ed Olivennes riteneva anche che in materia di media «la gratuità è un furto», titolo anche dato ad un suo libro apparso nel 2007. È sempre lui, il 4 settembre 2009, durante i corsi dell’Università d’estate di Medef, dichiarava che «una società che crea dei divieti (in materia ideologica, si intende) è una società che progredisce». Strano, credo, sulla bocca di un personaggio con incarichi dirigenziali di una delle principali radio di informazione e che la dice lunga sulla libertà di stampa all’inizio del XXI secolo. Ma tutto ciò non disturbava assolutamente Lagardère, che ama spesso rudemente ricordare ai suoi salariati: «Che cosè lindipendenza in materia di stampa? Soltanto chiacchiere! Prima di sapere se sono indipendenti, i giornalisti farebbero meglio a sapere se la loro testata e duratura»; ciò non è che la potenza della proprietà… O quale sia il potere del banchiere che ne detiene ufficialmente la proprietà.

4. OPA bancaria sulla stampa regionale

Nel febbraio 2011, i «dispensatori di opinioni» avevano gli occhi puntati sugli avvenimenti in svolgimento nel Maghreb, dove le rivoluzioni dei Gelsomini e del Loto, svoltesi in Tunisia e in Egitto, avevano poi fatto anche scuola oltre frontiera, coinvolgendo la Libia e facendo traballare il regime del dinosauro Muammar Gheddafi.

Per il Credit Agricole benvenuto in Chtis

Nel continuo susseguirsi di drammatici reportages dal Nord Africa, un’altra rivoluzione passa in secondo piano in Francia: il «partenariato strategico» stretto il tre febbraio tra il gruppo della editoria regionale lq Voix du Nord ed il Crédit Agricole. La banca acquistava dal gruppo editoriale belga Rossel (Le Soir), che era proprietario del 95% del capitale della holding Voix du Nord Invesstissement, il 25% delle azioni, con la possibilità di poter acquistare il 35% del capitale entro cinque anni. In sostanza un buon affare per la «Banca Verde» (il cui PDG è l’alsaziano Jean Marie Sander): con 230 milioni di euro di giro d’affari nel 2009, Il Quotidiano del Nord è uno dei rarissimi gruppi editoriali francesi a godere di una situazione finanziaria sanissima, almeno sulla carta, in quanto in effetti il mantenimento di un volume di abbonamenti si spiega con il fatto che tutti i sottoscrittori si vedono rimborsare… una buona parte della spesa di un tablet iPad! In più la Voix du Nord raggruppa sotto il suo controllo una sequela di quotidiani come Nord Eclair, Le Courier Picard, Nord Litoral, il quotidiano gratuito Direct Lille Plus, oltre che altre riviste locali e Wéo, una catena di TV regionali che approfittano del passaggio al digitale terrestre. Per Jacques Hardoin, direttore generale della holding della La Voix du Nord, «larrivo del Crédit Agricole Nord de France permette a di realizzare delle sinergie specialmente nei campi del digitale dove noi subiamo la forte concorrenza di Google e di Groupon. Del resto non escludiamo nemmeno delle operazioni di crescita esterna, sia che si tratti di stampa o anche di radio» (parole riportate da Le Figaro del 23 febbraio 2011).

Per la Lorena, buongiono tristezza!

Speriamo che ad un così accentuato ottimismo, degno di Perrette che specula sui dividendi, non succederà poi un’amara delusione, quella approvata dai dipendenti di Républicain Lorrain. Essi simultaneamente appresero che il Crédit Mutuel, che nel 2000 e sette aveva acquistato il quotidiano di Metz, si apprestava a disfarsene, come dichiarò con rara brutalità il PDG Michel Lucas durante una conferenza stampa il 25 febbraio 2011: «La baracca è stata rimessa in sesto, penso che il Crédit Mutuel abbia fatto un buon lavoro. Essa può essere venduta, di conseguenza viene messa sul mercato per essere venduta». Da qui sorge l’angoscia del personale il quale si domanda se, su questa base, la banca non abbia dichiarato elegantemente l’intenzione di affossare o, quanto meno, di smantellare il gruppo Ebra. Gruppo del quale essa detiene la quasi totalità delle azioni e che in effetti risulta essere il primo editore di quotidiani regionali che dominano l’Est della Francia con dei titoli come: Républicain Lorrain, Le Progrès de Lyon, Le Dauphiné liré, Le Journal de Saône et Loire, Le Bien Public. Il tutto per un totale di più di 1,2 milioni di copie vendute ogni giorno ed a questo va aggiunto anche che è in dirittura di arrivo e stanno per essere acquistati dal gruppo Ebra giornali come LEst Républicain e Dernières Nouvelles dAlsace.

Controllo della stampa non solo come obiettivo puramente commerciale

Quale spiegazione può essere data a ciò che Jean Clément Texier, banchiere consulente indipendente, specialista nel settore della stampa, qualifica come: «strategia radicalmente differente da quella condotta fino adesso dal Crédit Mutuel»? Il settimanale Le Point, evocando le esperienze tentate dal Crédit Agricole nel Nord e dal Crédit Mutuel nell’Est, in un suo editoriale così si interrogava: «Quale interesse trovano queste banche di tipo mutualistico ad investire anche nel settore della stampa quotidiana? Gli analisti si perdono solo in congetture». A questa domanda risponde solo in parte il periodico trimestrale Médias: a fine febbraio 2011, malgrado l’opposizione dei redattori, i giornali del gruppo Ebra, dovranno sostenere un «Test felicemente sperimentato con lapporto del Crédit Mutuel durante la ricostruzione della colpita e spossata isola di Haiti». Infatti l’obiettivo non può essere esclusivamente di carattere finanziario. Gestire infatti un quotidiano o più di uno non sarà forse un espediente per esercitare una pressione di lobby riuscita, sia in materia industriale, ma anche, e soprattutto, politica o societaria? Tutto ciò è lontanissimo dal ben noto «pubblico interesse». Bisogna, d’altro canto, essere di una ingenuità abissale per immaginare gli stati maggiori delle grandi imprese bancarie come dei forum di moralisti infarciti di filantropi.

5. Libération: dallanarchia alla Banca

«La settimana in cui la stampa ci dà pagina», intitolava il 6 febbraio 2011 Le Journal de Dimanche. Nei giorni che seguirono, tre organi di stampa videro cambiarsi il direttore: Nicolas Dermorand* approdò a Libération, Erik Izraelewicz* a Le Mond, e Laurent Joffrin* al Nouvel Observateur; quest’ultimo, appena uscito da Libération, tornava di nuovo a questo giornale: infatti dal 1988 al 1996 e poi dal 1999 al 2006 aveva già diretto questo settimanale della sinistra radical chic, e di cui menava vanto di averne fatto un vero e proprio «Gala per ricchi». Con la benedizione di Claude Perdriel*, maggior azionista del Nouvel Observateur non incitava forse i suoi lettori a scambiarsi delle piccole bazzecole di Cartier che costavano più di 30 mila euro l’uno? Un suggerimento seguito anche dal suo successore Denis Olivennes passato, dal 2008 al 2010, dalla FNAC e dal gruppo Pinault al Nouvel Observateur quando rimpiazzò alla testa di Europe l’enarca ed ispettore delle Finanze Alexandre Bompard, quest’ultimo spostato al suo posto alla FNAC in un valzer musicalmente accordato di poltrone.

Laurent Joffrin, strumento della «vittoria del capitalismo allinterno della sinistra»

Nel 1973 Libération venne accompagnata al suo debutto da uno slogan di Jean Paul Sartre: «Popolo, prendi la parola e mantienila». Fu Serge July*, che lavorando alla de-sovietizzazione del quotidiano di sinistra, nel 1981 vi piazzò Laurent Joffrin alla testa del servizio economico di Libération: «Un servizio strategico per iniettarvi del liberismo» secondo la confessione fatta dal nuovo assunto e citata da Serge Halimi nel libro Les Nouveaux Chiens de garde, edizioni Raisons d’agir, 2005. Provava disprezzo per «La massa grigiastra dello Stato francese», Joffrin, cresciuto all’ombra di un padre editore di opere politicamente scorrette, già dal 1984, per esempio, dichiarava che: «La vita è altra cosa: è sorda alla crisi dellimpresa, delliniziativa, della comunicazione». Comunicazione: ecco la grande parola trascurata. Ecco qua la nuova dea idolatrata anche da parte di coloro di cui il buon popolo ingenuo, crede che abbiano ricevuto la missione di informarlo.

È dunque rientranti nell’ordine naturale delle cose che nel novembre 2006, Edouard de Rothschild* si rivolse a Laurent Joffrin, perché assumesse la direzione di Libération, ma soprattutto organizzò un piano di rilancio del quotidiano, dissanguato da un punto di vista economico malgrado i costanti aiuti governativi (nove centesimi a coppia pagati «Il che fa un pomeno di 4 milioni di euro allanno pagato dai contribuenti» secondo Lectures Françaises numero di marzo 2011); l’aiuto di Edouard de Rothschild fu di 20 milioni, di euro versati nel 2005. Ma una nuova ricapitalizzazione del quotidiano era inevitabile; «Rothschild è sia originale che intransigente», come lo descriveva allora Le Monde; nel 2006 doveva porre mano al portafoglio: ed attraverso l’intermediazione della holding finanziaria, da lui controllata, acquistò il 38,87% del capitale di Libération divenendone così l’azionista di riferimento. In questa posizione ottenne la rimozione dello storico Serge July e del direttore generale Louis Dreyfus* (2) e insediava Laurent Joffrin alla direzione del quotidiano. Il quotidiano «autogestito» che, il 22 maggio 1973, nel suo primo editoriale si vantava dicendo: «La nostra povertà e la misura della nostra indipendenza»; ormai ne sopravvive soltanto un lontano ricordo. I dipendenti di Libération, che attraverso la Société civile (SLPL) erano proprietari del 18,45% del capitale sociale, ormai non fanno che una comparsa figurativa con una quota ridotta al 10,35%. Nel 2007, come afferma nuovamente l’enciclopedia on-line Wikipedia, «Edouard de Rothschild conferisce un capitale di 15 milioni di euro, che cambia radicalmente la struttura del capitale sociale di Libération. Carlo Caracciolo, limprenditore del settore della stampa italiana e cofondatore del quotidiano socialista la Repubblica, diventa il secondo azionista. Il nuovo assetto societario e così suddiviso: 5,8 milioni di euro della Holding finanziaria Jean Goujon del Gruppo Edouard De Rothschild, 5 milioni di euro di Carlo Caracciolo come quota versata a titolo personale, 1,5 milioni di Pathé, 1,2 milioni di Médiasscap, società del gruppo La Libre Belgique-La Dernière Heure, 1,2 milioni in mano ad una decina di investitori a titolo personale tra i quali Pierre Bergé, André Rousselet*, Bernard Henri Levy, Henri Seydoux*, 0,3 milioni della Suez».

Edouard de Rothschild Al (France) Galop

5,8 milioni, una somma relativamente modesta per il figlio del barone Guy de Rothschild (e fratellastro di David de Rothschild, fondatore della banca d’affari Rothschild & Cie) la cui fortuna, nel 2007, la rivista specializzata e molto quotata Challenge, valutava intorno a 315 milioni di Euro. Vent’anni prima, questo ex studente dell’università di Assas, possessore anche di un MBA in Finanza conseguito presso l’università di New York, aveva indirizzato una carriera di banchiere d’affari a Wall Street presso la Wertheim and Co. Nel 1993 entrava a far parte ufficialmente della Rothschild & Cie come associato e partner: sotto questa veste partecipò ad importanti operazioni di fusioni e acquisizioni a fianco del suo fratellastro; citiamo specialmente l’acquisto della Pathé da Jérôme Seydoux, suo futuro socio a Libération ed anche l’acquisizione della banca Rivaud da parte del finanziere bretone Vincent Bolloré. Attraverso i buoni uffici di quest’ultimo fu introdotto nelle entourage più intimo di Nicolas Sarkozy e di Arnaud Lagardère. Fu grazie a Jean Luc Lagardère, padre di Arnaud, che si appassionò all’equitazione ed entrò a far parte dell’esclusivo Polo de Paris, succedendogli nel dicembre 2004 alla presidenza di France Galop. Dal mese di dicembre 2004, quando i primi rumors di un’acquisizione capitale cominciarono a correre, Le Point faceva notare che: «Rothschild è tuttaltro che un dilettante. Sempre molto concentrato, il banchiere non lascia niente al caso. Se accetta il rischio di togliere 20 milioni di euro del proprio patrimonio personale, non è certo per buttarli dalla finestra». Cosa che il 6 dicembre l’interessato confermava su Europe 1 rispondendo a Jean Pierre Elkabbach* che si domandava: «Perché mai un finanziere investe nella carta stampata che è in difficoltà dappertutto?»; Rothschild negava di essere un mecenate, replicando così: «Questo risulta da una ricerca molto approfondita nel settore della stampa,… Pertanto non si tratta di un regalo, ma di un progetto industriale al passo con i tempi… Quando ci sono delle difficoltà in un settore questo crea anche delle opportunità… Oggi sono da fare molte cose… Questo è il ruolo di un azionista, anzi di un azionista diventato azionista di riferimento, di mettere in piedi un metodo che abbia un certo tipo di disciplina e degli obiettivi precisi. E questi obiettivi devono essere quantitativi».

Nicolas Demorand, un direttore di testata che rivendica di essere un «ebreo culturale»

Certamente, la gestione di Laurent Joffrin non riusiva assolutamente a rimettere in sesto Libération; mediamente nel 2010 non riusciva a vendere più di 115.622 copie al giorno. Pertanto la sua sostituzione con Nicolas Demorand non sembrava evidente. Questo transfuga da France Inter, era passato nel settembre 2010 a Europe 1, non aveva alcun tipo di esperienza diretta della carta stampata e non si augurava assolutamente di interrompere così velocemente la sua collaborazione con Europe 1 dove il suo arrivo presso di essa non aveva certamente stimolato l’audience, anzi tutto il contrario. Ma Nicolas Dermorand fu letteralmente «circuìto da Edouard de Rothschild, che non esitò a mettere mano al portafoglio» (Le Point del 25 gennaio 2011). Il 22 aprile 2008, era stato soggetto di un compiacente ritratto su Libération, lui che all’epoca era un giovane commentatore del mattino di France Inter (infatti era nato il cinque maggio 1971 a Vancouver, dove suo padre svolgeva compiti diplomatici) era accreditato della stessa parlantina di sua madre Jacquelin Bouanniche, nata ad Urano in una famiglia di ebrei «piedi neri». Lui stesso del resto si vantava di essere un «ebreo intellettuale» prima di elencare le proprie letture del momento: Graphes, cartes et arbres, di Franco Moretti, Au coeur des mers, di Samuel Joseph Agnon (premio Nobel di lingua ebraica), Histoire du ghetto de Venice, di Riccardo Calimani. A malapena insediatosi ai comandi Nicolas Demorand, il proprietario di Libération faceva entrare nel capitale sociale del suo quotidiano quello che Les Echos chiamava «un investitore francese». Alla conclusione della seduta dell’8 marzo 2011, il consiglio di sorveglianza del giornale aveva comunicato che aveva «preso atto dellaccordo intervenuto tra tutti gli azionisti del gruppo Libération e Bruno Ledoux, rappresentante del gruppo Colbert» (gruppo immobiliare proprietario dei locali del quotidiano diventato un anarco-banchiere) ed il 29 aprile 2011 chiamato a diventare «azionista del gruppo Libération alla pari di Edouard de Rothschild, azionista di maggioranza»; il regalo di matrimonio ammontava a 12 milioni di euro. Se si tiene conto che la banca Rothschild è la stessa del gruppo Colbert, questo può significare che il tandem Edouard-Bruno disponeva di più del 52% del capitale.

Quando latomo si invita a Liberation

Il 13 luglio seguente, lo stesso consiglio di sorveglianza annunciava di aver cooptato Anne Lauvergeon* nel consiglio, per «affidarle la presidenza del medesimo». Certamente questa allieva della scuola normale superiore nata nel 1959, fu la sherpa di François Mitterrand dopo che nel 1990, aveva sostituito Jacques Attali*, ma la era soprattutto, dopo il suo passaggio al Commissariato dell’Energia Atomica nel 1984; una vestale del nucleare. Ciò, nel 1999, le era valsa la promozione, da parte di Dominique Strauss-Kahn (detto DSH), alla testa della Cogema, poi diventata Areva, di cui aveva di coperto il ruolo di direttore fino al 16 giugno 2011. Ma senza dubbio David de Rothschild sperava che il lettore di base di Libération, fervente militante antinucleare, avrebbe accettato questi piccoli errori di percorso tenendo conto delle sue prese di posizioni socialiste. Al Women’s Forum di Deauville, a fine maggio 2009, questa ex della banca Lazard (vedi più oltre al punto 9) posizione che aveva lasciato nel 1995, ma dove continuava a conservare solide amicizie, aveva dichiarato freddamente: «Davanti ad uguali competenze, ebbene, sono desolata, ma io scelgo una donna… Scegliere la persona proveniente da… eh per ben altri motivi che il maschio bianco, per essere chiari». Decisamente The right woman at right place.

6. Con il «Trio BNP» la fine di Le Monde?

Libération, Il bue che dice cornuto allasino; così il 12 aprile 2010 sbeffeggiava Le Monde il quale «Ben presto non sarebbe più stato lo stesso di una volta!». «La sua indipendenza è stata messa sotto la mannaia. I giornalisti pur essendo azionisti di referenza, devono accettare levidenza dei fatti». Con delle finanze in uno stato disastroso, il gruppo ha dovuto procedere ad un aumento di capitale che va sicuramente a diluire la loro quota. «Questa operazione indispensabile di rafforzamento dei mezzi propri del gruppo avrà, come conseguenza la diluizione azionaria storicamente consolidata la quale diventerà per forza di cose minoranza». Questo anticipava un comunicato del consiglio di sorveglianza del gruppo. E ciò era la fine di un’epoca, quella del potere della società dei redattori (SRM) creata nel 1951. Era accettare l’entrata o la salita di azionisti esterni, che ne avrebbero assunto il controllo. Un crepacuore conseguenza di 10 anni di esercizi deficitari. «Non abbiamo altra scelta e si deve sperare che questo piano di ricapitalizzazione risanerà i nostri conti» dichiarava un giornalista. A Le Monde, gli ultimi anni erano stati molto duri. Crisi di governance nell’inverno 2007, piano sociale nel 2008 con i primi scioperi della sua storia, cessione di molti titoli (Fleurus Presse, la rete di librerie La Procure, Chaiers du Cinema). Nel 2009, fu necessario contrarre un prestito di 25 milioni di euro per sostenere Télérama, acquisita nel 2003. E fu necessario promettere anche che sarebbe stata fatta una ricapitalizzazione entro il 2011. Il piano di ristrutturazione studiato da Eric Fottorino, presidente del consiglio di amministrazione dopo il gennaio 2008 e dal suo direttore generale David Guiraud*, prevedeva di fare delle economie per trovare nuove strade di sviluppo (nuova formula, nuovi magazines, nuovi mezzi multimediali). Inoltre furono intavolati i negoziati anche con un operatore spagnolo, socio, era questa la novità, con un’importante investitore finanziere francese perchè entrassero nella maggioranza del capitale di Le Monde Imprimerie in modo tale da poter far crescere di 25 milioni di euro l’utile industriale. La ricapitalizzazione, questa parola grossa pronunciata e presa con le pinze dopo il 2007, rimandata sempre alle calende greche da parte della SRM e della direzione del giornale, è oggi divenuta inevitabile. E tutto questo nello stesso arco di un anno.

Lo Stato magnanimo

In effetti anche il riscatto del gruppo La Vie Catholique si era dimostrato deludente e la diffusione del relativo quotidiano palesava un costante regresso: 407.000 copie vendute mediamente ogni giorno nel 2002. E tutto ciò grazie ai «quindici giorni dellodio» orchestrati contro Jean Marie Le Pen inaspettatamente arrivato al turno di ballottaggio delle elezioni presidenziali, 358.600 copie cinque anni più tardi. Da qui il gigantesco debito accumulato: 125 milioni di euro, ciò malgrado il sostanziale aiuto da parte dello Stato. Dal 2003 al 2010, Le Monde ha riscosso da parte della collettività quasi 3.000.000 di euro prelevati dallo speciale fondo di aiuto per la modernizzazione della stampa. Nella primavera 2010, il progetto di ricapitalizzazione, impostato sul 50 milioni di euro minimi, era stato affidato alla filiale CIB Global Investment Banking del Crédit Agricole e si parlava di investitori stranieri, specialmente spagnoli. Ma nove mesi più tardi fu la banca Lazard ad intervenire in forze e, lo stesso giorno dell’elezione di Nicolas Dermorand alla direzione di Libération, il consiglio di sorveglianza del gruppo Le Monde presieduto da Pierre Bergé comunicava che aveva nominato Erik Izraelewicz membro della direttorio e direttore del quotidiano, salvo approvazione da parte della società dei redattori di Le Monde (SRM). Voto che fu espresso il 10 febbraio seguente e si concluse con un risultato assai lusinghiero: 74, 25% delle parti presenti o rappresentate che si espressero positivamente.

Con Izraelewicz, prima di tutto economia

Era la prima volta nella storia del quotidiano detto di riferimento che il suo direttore esce direttamente dal settore della stampa economica. Contrariamente ai precedenti direttori Debû-Bridel, Vianson-Pontè*, Fauvet*, Plenel, Colombani* e Fattorino, Erik Izraelewicz, nato il 6 febbraio 1954 a Strasburgo e diplomatosi alla HEC e anche presso il centro di formazione dei giornalisti, aveva svolto tutta la sua carriera prima a LUisine nouvelle, poi a LExpansion e successivamente a La Tribune de léconomie (poi diventata La Tribune) prima di arrivare a Le Monde nel 1986. All’inizio fu incaricato di seguire le banche, le assicurazioni e la congiuntura finanziare francese, cosa che lo doveva naturalmente portare a essere il corrispondente del giornale da New York, dove riuscì a stabilire contatti molto fruttuosi con l’alta finanza. Dal 2002 al 2008, fu responsabile di Echos, ritornando in seguito come direttore di redazione di nuovo al quotidiano La Tribune, nel frattempo acquistato da Alain Weill (gruppo NextRadioTV: RCM, BFM) con il quale le cose andavano bene (confronta Le Monde. Fr dell’11 febbraio 2011. Ma nonostante ciò le azioni erano deficitarie; le perdite erano salite a 8 milioni di euro nel 2010 e, a maggio dello stesso anno, Alain Weill vendette, o meglio vendette La Tribune alla sua direttrice generale Valérie Decamps per la cifra simbolica di un euro (3). «La partenza di Alain Weill precedette quella di Erik Izraelewicz, nel luglio 2010. Che non è più in sintonia con la nuova proprietà. Egli comunicava di mettersi a disposizione per altri tipi di funzioni. In gennaio presenta la sua candidatura agli azionisti di Le Monde», così riferisce Le Monde.fr, che tuttavia non fa parola dell’ostilità manifestata anche da altri giornalisti, a cominciare da un a figura centrale della redazione del quotidiano come Véronique Marus la quale, il 12 marzo 2011, commentando l’uscita del suo predecessore, Robert Solé, anche lei comunicava il suo addio sfruttando la clausola detta «di cessione» prevista dalla legge del 1935 che, ricorda la Marus, prevedeva: «Ad ogni giornalista di lasciare la propria testata dopo che sia intervenuto un significativo cambiamento nella composizione del capitale, beneficiando delle condizioni previste per un licenziamento. A Le Monde è la prima volta che un tale tipo di clausola veniva esercitata… Da qui alla fine di giugno ne seguiranno altre. Per quanto mi concerne io mi renderò libera dal 16 marzo prossimo». Non era certamente né la personalità, né la carriera di Izraelewicz – tra le altre cariche da lui ricoperte c’era anche quella di amministratore dell’ENA –; ciò che invece ponevano dei problemi erano i nomi dei tre nuovi azionisti di maggioranza che avevano vinto su altri concorrenti tra cui Claude Pedriel già proprietario del Nouvel Observateur (il quale si era già detto pronto a rilevare altri quotidiani come Le Parisien). Erano quindi i nomi di Pierre Bergé, già maggior azionista di Libération, Xavier Niel e Matthieu Pigas*. Quindi era il trio «BNP» come li chiamavano gli addetti ai lavori. Un trio a cui l’Eliseo aveva cercato, inutilmente, di sbarrare la strada.

7. Un pessimo Bergè

Pierre Bergé, classe 1930, ama molto atteggiarsi da esteta. E ciò in forza dei suoi rapporti con Jean Cocteau, con lo scomparso pittore Bernard Buffet e con il grande coutourier Yves Saint-Laurent. Quest’ultimo, poi, fu da lui lanciato nel firmamento della moda nel 1962, grazie ad un prestito fattogli concedere dalla First National City Bank attraverso l’intermediazione di un uomo d’affari di Atlanta. Durante la presidenza di Mitterand fu il promotore di un concerto con Jack Lang* e di numerose operazioni nel campo delle arti e delle lettere. Ma in realtà questo figlio di un agente delle tasse era soprattutto un temibile finanziere. Inoltre fu sotto questa veste che obbligò il suo protetto a creare una linea di prêt-a-porter Yves Saint-Laurent Rive Gauche, trovando, all’inizio, molto poco favorevole il suo protetto. Inoltre la manifattura di questa linea nuova di abbigliamento fu velocemente delocalizzata in alcuni Paesi a bassi costi di manodopera! Se da un lato onorò con sfilate di Haute Coture i «proletari» della Festa dell’Humanité, (4) dall’altro proibiva qualsiasi forma di sindacalizzazione all’interno della sua «maison».

Esteta e finanziere

Fu esteta e finanziere insaziabile; sia da solo, sia in una società con Yves Saint-Laurent, acquistò l’esclusivissimo ristorante Prunier, specializzato nel caviale francese, il Théâtre de l’Athénée, molteplici residenze principesche (tra le quali un hotel particolare sito in Rue De Babylone nel VII Arrondissement di Parigi; lo Chateau Gabriel a Deauville, la Villa Majorelle ed il Jardin Majorelle a Marrakech), oltre a innumerevoli quadri, statue e oggetti d’arte: dei quadri di Goya e di Basquait, il genio sregolato americano haitiano di cui sembrava ammirare molto i graffiti; la vendita all’asta delle sole opere d’arte che organizza nel 2009 dopo la morte di Yves Saint-Laurent (che l’aveva nominato suo unico erede universale) incassa più di 373 milioni di euro, che entrano nelle casse della fondazione Pierre Bergé Yves Saint-Laurent. Un anno più tardi, è la troika che formava con il banchiere Matthieu Pigasse e con il fondatore di Free, Xavier Niel, ad essere scelta il 28 giugno 2010 dal consiglio di sorveglianza di Le Monde, allora presieduto da Louis Schweitzer* (vedi più avanti al punto 10) che seguiva il voto di ratifica dei dipendenti espresso il 25 giugno. «Questo trio, commentava La Croix a fine giugno 2010, annuncia di poter investire su Le Monde 110 milioni di euro. Una somma fornita da ciascuno degli associati e tratta da fondi personali e divisa in parti uguali tra loro. BNP prende in mano un gruppo fortemente indebitato (lammontare globale del debito è stimato in circa 125 milioni di euro) il cui bilancio di esercizio accusa, soltanto per il 2009, un deficit di 25,2 milioni di euro. Tra le urgenze a cui far fronte come pagamento, la nuova compagine maggioritaria dovrà rimborsare le obbligazioni convertibili in azioni (ORA) per un ammontare di 69 milioni di euro, il prestito di 25 milioni di euro contratti nelle 2009 con Télérama sotto forma di pegno. A questo si aggiunge lindispensabile modernizzazione della sezione Le Monde Imprimerie, stimata tra 20 e 25 milioni di euro. La triade vincente si troverà di fronte ad affrontare lemissione di una cessione da parte del consiglio di sorveglianza per iniettare immediatamente 10 milioni di euro per rivitalizzare una tesoreria in perdita di vitalità e di velocità e assicurare il versamento necessario al pagamento dei salari di Le Monde questa estate. E tutto ciò stranamente senza nessun influenza ed eventualità sul piano sociale». Per assicurarsi i voti dei dipendenti, l’ex quotidiano cattolico così precisa: «Pierre Bergé ed i suoi due compagni di cordata si sono impegnati a mantenere il livello occupazionale impiegatizio esistente, a differenza di Claude Perdriel, che invece aveva previsto la soppressione da 100 a 120 posti di lavoro». Meglio ancora: il 24 giugno, davanti ai dipendenti del gruppo, Pierre Bergé annunciava anche di voler garantire alla Société des redacteurs du Monde una minoranza di blocco in seno agli azionisti offrendo loro, attraverso una fondazione, 10 milioni di euro.

Dopo Il Globo Le Monde

Questo specialissimo regalo, esigeva sicuramente contropartite. Pierre Bergé era ossessionato principalmente da due cose: la causa omosessuale (fino al punto di aver affondato Téléthon, che finanziava la ricerca sulla miopatia, per concentrare le donazioni su Sidaction (5) ed il cosmopolitismo planetario; da quando avendo appena 19 anni, fondò il giornale Patrie Mondiale con l’americano Garry Davis, fondatore a sua volta di Cittadini del mondo. In questi due settori, il quotidiano serale aveva già dato molteplici assicurazioni e non aveva più niente da provare, ma si poteva andare sempre più lontano, come aveva dimostrato il settimanale Globe secondo il credo definito nel primo editoriale del mensile da Bernard Henri Lévi: «Di sicuro siamo assolutamente cosmopoliti. Sicuramente estranei a tutto ciò che è paese dorigine, basco, danze folcloristiche locali, cornamuse bretoni, in breve filo francese o patriottardo; ciò, oltre che a noi estraneo, è del tutto odioso». Ma chi è il finanziatore di questo foglio diretto da Georges Marc Benamou, che Sarkozy, appena eletto, aveva nominato suo consigliere culturale? Ma naturalmente Pierre Bergé, che finanziava anche SOS-Racisme ed anche futuro fondatore del settimanale omosessuale Têtu. I lettori di Le Monde, che secondo la signora Maurus, si lamentavano di avere da parecchi mesi «dovuto ingoiare dei grossi rospi» avrebbero fatto bene a dotarsi di un abbondante provvista di bicarbonato.
 
8. Xavier Niel, ovverosia quando il porno domina tutto

E dopo il milionario rosso, il miliardario del minitel rosa. In effetti è proprio grazie alle messaggerie dette di fashion che Xavier Niel, autodidatta, nato nel 1967, ha potuto costituirsi un’immensa fortuna, più di 3 miliardi di euro, cosa questa che ha potuto aprire le porte della proprietà di Le Monde. Quale grossa rivincita per colui al quale lo sfruttamento intensivo del minitel sconcio, aveva finito per procurargli, il 28 maggio 2004, un’incriminazione per lo sfruttamento aggravato della prostituzione e sfruttamento ed abuso di beni sociali a causa di uno dei suoi «peep shows»! Attività sulle quali si era estesa anche Libération, cosa questa che può essere vista anche come una vendetta o ritorsione per l’entrata di Niel nel capitale azionario di Le Monde. La cosa era stata vista come un mezzo di affondamento di Libération, che fu respinta nei cinque processi per diffamazione che furono intentati al quotidiano allora diretto da Serge July e che fruttò sostanziali danni e interessi per abuso di procedura. Questo per chi vuol conoscere bene le cose…

Filibusta, zolfo e grana

Tutto ciò a quasi vent’anni da quando si era lanciato nel campo del Minitel Rosa. «Il denaro rientra», racconta Emmanuel Paquette su L’Express.fr (del 24 settembre 2010). E arriva in maniera sufficiente per pensare più in grande per riuscire a mettere le mani sulla società Fermic Multimédia, che sùbito ribattezzata Iliad filibustiere agli inizi degli anni 90. Ma i suoi metodi da filibustiere lo collocano subito al margine del sistema. «Ingaggiò tutte donne poi le indirizzò sulle messaggerie erotiche dei concorrenti per coinvolgere gli utilizzatori verso i propri servizi», seguendo Rafi Haladjian, fondatore del provider FranceNet. Non era aderente ad alcun sindacato, ovvero paria della professione, era odiato da tutti. «Salvo che da Fernand Develter, vecchio procuratore e sempre molto influente presso la Société Générale, che divenne suo socio». Nel 1994, passò all’informatica; aveva anche coofondato il primo provider di accesso di massa a internet in Francia,Worldnet, società rivenduta poi nel dicembre 2000 a Kaptech (gruppo 9 Cegetel, di Philippe Louis Dreyfus) per 40 milioni di euro. Contemporaneamente, con il suo gruppo Iliad, di cui possedeva due terzi del capitale, entrava in Borsa nel 2004. Ciò fu all’origine dello sviluppo, nel 1999, della prima società di accesso gratuito ad internet, Free, la cui evoluzione logica fu la fruttuosa Freebox la quale forniva agli utenti una linea telefonica senza abbonamento, l’accesso a internet oltre che ad alcune reti gratuite della TNT sul digitale. La formula fu adottata da tutti i concorrenti di Free e contribuiva molto all’esplosione alla grande diffusione di NET in Francia. Questo portava alla moltiplicazione di siti di informazioni di linea quali Mediapart o Bakchich (6), all’inizio evidentemente finanziati da Liad, di cui Alain Weill era amministratore, mentre la signora Niel, ovverosia Véronique Ouaki appartenente alla famiglia fondatrice dei celebri magazzini Tati, era la direttrice giuridica del gruppo. Emmanuel Paquette scriveva ancora: «Ormai i fantasmi del passato non dovrebbero affatto avere più unincidenza sulla vita di Xavier Nigel. Tra qualche giorno il coofondatore di Free sarà uno dei punti di riferimento di Le Monde», grazie a Matthieu Pigasse, gran santone della banca Lazard, che lo coinvolgeva da più di otto anni nel campo delle acquisizioni e che lo aveva convinto di versare nelle casse del prestigioso quotidiano il suo denaro. E lui diceva ammirato: «Sarà il nostro Steve Job!».

Il colpo dei due antenati Francois

Niel parla molto di democrazia ed indipendenza dei media. Vuole essere considerato «inclassificabile», ha scritto un libro su internet con il padre del ministro Valérie Pécresse*, parlando bene sia del sindaco socialista Bertrand Delanoë che è del ministro UMP Xavier Bertrand*: «Xavier ha molto apprezzato il contropotere nel mondo economico come anche nel campo della stampa. Né di destra né di sinistra, egli è molto preoccupato per la democrazia; devono aiutare i media ad imboccare la strada del digitale», così si esprime Gérémie Berrebi, il gestore del suo fondo di investimenti Kima Ventures. Prima di farsi avanti offrendo 35 milioni di euro (una parte irrilevante del proprio patrimonio, corrispondente alla «variazione della quotazione di listino del titolo Iliad in una sola seduta di Borsa durante larco della giornata»), il costo pagato per il suo biglietto d’ingresso a Le Monde, (7) aveva riportato un’altra vittoria: si era aggiudicato la quarta licenza di operatore di telefonia mobile per Free. Sarkozy gli era contrario, ufficialmente per i suoi trascorsi dei peep shows, ma invece sicuramente perché cercava di salvaguardare gli interessi del suo amico intimo Martin Bouygues, rivale di Niel nel settore multimediale. L’ex pornografo Niel doveva confessare alla rivista satirica Canard Enchaîné, a fine dicembre 2010, «di aver  aggirato lostacolo del capo dello Stato con l’appoggio di François Pérol*, ex Segretario Generale aggiunto dellEliseo ed anche del Primo Ministro, anche lui teso al raggiungimento dei suoi fini». Il premier Fillon faceva adottare il testo in Consiglio dei Ministri molto velocemente, mentre Sarko era uscito per un malessere! Firmava così il decreto approfittando del suo stato di malessere! «Di fatto il decreto e lordinanza contenenti il bando dofferta erano effettivamente datati 29 luglio 2009, mentre era il 26 luglio 2009 quando Nicolas Sarkozy era stato ricoverato in ospedale per il suo malessere», così ricorda il sito finanziario Numérama.

Perol, un piede nella banca ed uno nel potere politico

François Fillon
* riceverebbe, nel caso che il presidente uscente Sarko non si presentasse alle presidenziali del 2012, l’appoggio della galassia Free? Quanto all’altro François, Pèrol, la sua carriera non si riduce solamente al suo passaggio all’Eliseo. Vecchio maggiorente dell’ENA, questo ispettore delle Finanze, nato nel 1963, fu segretario generale del mondialista ed esclusivo Club de Paris, poi, presso la direzione del Tesoro, vicedirettore dei finanziamenti e dello sviluppo delle imprese, poi direttore aggiunto di gabinetto di Francis Mer* e successivamente anche di Nicolas Sarkosy presso il ministero dell’Economia e delle Finanze ed anche di quello dell’industria tra il 2002 ed il 2004. In seguito dal 2005 al 2007 lasciò il settore pubblico per quello privato per diventare socio amministratore della banca Rothschild & Cie. A questo titolo: «Diventa consigliere di Philippe Dupont* PDG delle Banche Popolari per la creazione di Natixis. Questa filiale comune del Gruppo Mutualistico e delle Casse di Risparmio, questa banca dinvestimento annuncia la unificazione; al termine, dei due gruppi, entrerà, nel 2008, nellocchio del ciclone insieme alle due società madri» (quotidiano 20 Minutes del 26 febbraio 2009).

Ci voleva comunque ben altro per rintracciare la traiettoria effimera di questo abitudinari dei simposi esclusivi e globalisti del gruppo Bilderberg. «Grande architetto del programma economico di Nicolas Sarkozy, François Pérol sostiene, per esempio, lacquisto del 20% di Thales da parte del gruppo Dassault (tra laltro già proprietario del Figaro) getta le basi di quello che sarà il suo capolavoro, la fusione orchestrata, con il consenso del ministero in piena crisi finanziaria, tra le Caisses dEspargne e le Banques Populaires con lassunzione, da parte sua, del controllo del nuovo gruppo BPCE, secondo gruppo bancario francese, a dispetto dello scandalo provocato da questa presa di potere: malgrado le assicurazioni, da parte dellEliseo, su parere favorevole concesso da una parte della Commissione di Deontologia della funzione pubblica, questa affermava che la medesima non era stata mai stata giudicata. Da qui una serie di querele da parte di alcune associazioni per presa illegale di interesse, querele che daranno luogo ad un interminabile diatriba giudiziaria: archiviata il 1 settembre 2009, ritenendo cheun consigliere dellEliseo, già segretario generale aggiunto, non aveva la delega di poteri distinta dalle funzioni presidenziali e dunque non aveva potere di firma né di sorveglianza delle operazioni riguardo alla presa illegale di interesse’». Riassunte nuovamente tra il giudice istruttore del polo finanziario di Parigi Roger Le Loire, le querele sono nuovamente state archiviate dalla Corte d’Appello di Parigi il 3 marzo 2011, ancora prima di essere giudicata da parte della Corte di Cassazione.

Nel frattempo François Pérol l’ex segretario generale aggiunto dell’Eliseo, diventato il 2 marzo 2009 PDG della BPCE e, qualche giorno dopo, anche presidente del consiglio di sorveglianza della Natixis (il tutto con una remunerazione totale di 550 mila euro annui), il primo settembre 2009 aveva assunto anche la vicepresidenza della Federazione Bancaria Francese fra gli applausi della grande stampa piena di riconoscenza: il 5 agosto 2009, in considerazione di una vittoria in una competizione nautica patrocinata dalla Banca Popolare, una pagina intera di pubblicità della BPCE, balza in sette quotidiani nazionali (Le Monde, Le Figaro, Libération, Les Echos, La Tribune, Le Parisien, La Croix) e su tre settimanali (LExpress, Le Nouvel Observateur e Le Point); tutti dopo di allora singolarmente diventati discreti sulle querele depositate contro il benefattore, ma al contrario fortemente elogiativi per la sua salita al grado di Cavaliere della Légion d’Honneur avvenuta il 14 luglio 2010. L’Express dopo aver ricordato l’ottenimento da parte di Free della licenza 3G tanto agognata, le liberalità di Niel nei confronti dei media, sottolineava che anche François Pérol a sua volta aveva finanziato direttamente o attraverso delle pubblicità sui media ed arrivava a questa conclusione il 24 ottobre 2010: «Scommettiamo che egli ne saprà approfittare nel momento in cui Free Mobile comincerà a sviluppare la sua rete di comunicazione e negoziare con i poteri locali per installare delle antenne e dei ripetitori su tutto il territorio»?

(fine prima parte)

Polémia, con la collaborazione di Claude Lorne

Traduzione dal francese a cura di Luciano Garofoli
Revisione testo ed editing a cura di Fabio de Fina


Parte II




1) I nomi di personalità notoriamente ricchissime come Pierre Bergé* o Bernard Henri Levy, non sono presenti in questa classifica, sia perché essi hanno piazzato una gran parte dei loro averi in fondazioni (questo è il caso di Bergé che compare soltanto al 291posto nella classifica dei più ricchi solamente con 100 milioni di euro), sia perché i loro patrimoni sono disseminati all’infinito, come nel caso di Bernard Henri Levy setto anche BHL, extra neo filosofo ma soprattutto finanziere molto accorto, che comunque ritroveremo frequentemente nelle pagine seguenti di questo studio.
2) Il 15 dicembre 2010 si prenderà comunque una bella rivincita diventando direttore generale del gruppo Le Monde con l’appoggio di Pierre Bergé e di Matthieu Pigasse. Nipote di Alfred Fabre-Luce (erede del fondatore del Crédit Lyonnais, saggista e dal 1954 al 1955 redattore capo del settimanale Rivarol) e della principessa Charlotte de Faucigny, figlia del banchiere Tony Dreyfus, ex ministro e sindaco socialista del X arrondissement di Parigi.; Louis Dreyfus nel 2005 fu consacrato young leader della mondialista American French Foundation (confronta Au coeur du pouvoir, di Emmanuel Ratier).
3) Valérie Decamps è stata fatta segno di ben due mozioni di sfiducia dopo la presentazione di un piano di rilancio che prevedeva da 15 a 25 licenziamenti e la banca Aforge, non riuscendo a trovare dei nuovi investitori disposti a rilevare La Tribune, questa fu costretta ad essere diffusa soltanto via internet (confronta JDD dell’8 maggio 2011).
4) Nota del traduttore: LHumanité è l’organo ufficiale del PCF, cioè del Partito Comunista Francese, il contraltare di quello che da noi in Italia è LUnità.
5) Ente che svolge la lotta all’aids, che i francesi chiamano Sida.
6) Nel caso di Bakchich si tratta di 300 mila euro, oggi completamente perduti.
7) Questo investimento, gli aveva permesso di «Guadagnare riconoscenza e far sì che il personaggio sulfureo diventasse alla fine frequentabile e allo stesso tempo anche corteggiato dagli uomini politici».



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